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VI.

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Le consolazioni che non consolano.

La bella vedova giaceva distesa sur una dormeuse, nel suo boudoir, in négligé di mattino, quantunque fossero già le 9 della sera. Ella aveva interdetto la sua porta a tutt'i suoi amici ed aspettava il dottore con impazienza.

Di Nubo tamburinò carezzevolmente sulle belle guance della cameriera che gli aprì la porta del salone e le fe' segno di ritirarsi. E' penetrò in seguito nel boudoir, e baciò la sua amica.

—Ebbene, ch'avete voi dunque, bella incantatrice?—dimandò egli. Un novello accidente di maternità contrariata, eh?

—Dottore—disse Augusta con umore—io non ò il capo a scherzi quest'oggi. Abbiatevelo per detto.

—Benissimo—replicò il dottore—E' non si tratta mica dunque della fine di un imprudente oblio, di un…

—Basta, via…

—Allora, si tratterebbe egli forse di un principio di….

—Ah! voi siete incorreggibile.

—A meraviglia. Non abbiam dunque nè un principio, nè una fine.

Tastiamo altra cosa.

—Fatela finita, su! Io sono ammalata.

—Oh! Io vorrei bene veder codesto, veh! che voi disponghiate del vostro corpo per una così villana bisogna—la malattia!

—Ciò è, pertanto.

—In questo caso… quanto codesto vi rende?—domandò il dottore sorridendo.

—Voi mi seccate. Andate pur via.

—Sareste voi dunque ammalata per bene?

—Voi nol vedete, eh?

—E dove codesto vezzoso corpicino soffre dunque, colomba mia?

—Al cuore, al cervello, all'anima… da per tutto… Io soffoco.

—Poffardio! che magagne! E voi possedete tutto codesto—voi—cuore, cervello, anima! Dite mò; vi avrebbero dessi rubato?

—Se non aveste i vostri laidi capelli fango di Parigi… vi batterai—vel giuro.

—Vedete mo' l'abitudine! Si calunnia perfino il colore dei miei capelli. Ma via, eccomi qui. Parlate: ch'avete voi?

—Io amo.

—A che tasso?

—Per nulla.

—Non trattasi allora di un agente di cambio o di un banchiere, m'immagino!

—Un artista—no, un poeta, un giornalista.

—Come domine vi siete cacciata voi in codesto brutto roveto?

—Lo so, io? la si è guizzata dentro di soppiatto, a mo' di ladro.

—Amore innocente, platonico, ideale, eh?

—Passate oltre.

—Amore cognito al mondo?

—Misterioso come una cospirazione.

—Allora?

—Allora, allora…—scoppiò Augusta; ma il miserabile m'à ingannata.

Requiescat in pace! Ed è così difficile di sostituirlo? La letteratura è in sciopero in questo momento. Le odi non sono scontate alla Borsa. I giornalisti s'inscrivono all'ufficio di collocamento. Non avrete quindi che a scrivere, franco di posta, ai Petites affiches e vi si riporterà il vostro barboncello smarrito, o vi si servirà un rimpiazzante a modo.

—Orsù! cessate, in nome di Dio e del diavolo. O' bisogno di consigli.

O' bisogno di cure. Soffro.

—Ebbene, in fede mia, debb'essere un bel bellimbusto colui che à fatto il miracolo di dotarvi di un cuore. Che nome date voi a codestui?

—Voi lo conoscete: Sergio di Linsac.

—Se lo conosco! Egli era uffiziale nello squadrone volante che caracollava intorno a mia nipote. Eppoi?

—E' m'à piantata lì… e si ammoglia!

—La fine prosaica di tutte le cattive commedie.

—Ritornando di casa vostra, ieri sera, trovai una lettera di lui, con la quale mi dà congedo, e mi annunzia che partiva per andare a sposare.

—In provincia?

—O all'inferno, che so io? E' mi lascia ed ammogliasi: ecco tutto. Ed io, l'amo.

Il dottore non rispose. Era divenuto pensoso.

—A che pensate voi dunque?—dimandò Augusta.

—A nulla. Avreste voi qualche sospetto della donna con cui il vostro poeta maritasi? perocchè non suppongo che la conosciate.

—In guisa alcuna. E voi?

—Io credo… Vi sono delle coincidenze strane… Sovvienemi adesso di parecchie cose a cui io non poneva mente. Pertanto… fo dei confronti…

—Insomma, la conoscete voi, sì o no!

—O' dei sospetti.

—Come ella chiamasi?

—Innanzi tutto, che pensate voi fare?

—Uno scandalo, un dramma, un'opera… un tafferuglio di tutt'i diavoli… e vendicarmi.

—Di chi?

—Di entrambi.

—Ciò è male.

—Male! che cosa?

—Lo scandalo.

—Ma io non posso far senza di lui. Non òvvi io detto che l'amavo, che n'ero pazza?

—Ragione di più per agire con prudenza. Volete voi riescire?

—Ad ogni costo.

—Mettete voi nel gioco perfino Alberto Dehal?

—E la Svezia.

—Perfino il principe di Lavandall?

—Dottore…

—Inteso.

—Il principe è la mia ultima posta!

—Sapete voi chi è la fanciulla, cui il vostro Sergio di Linsac à rapita la notte scorsa?

—Rapita?

—Sì, rapita, e con cui egli corre le grandi strade in questo istante?

—Nominatemela.

—Mia nipote.

Augusta saltò dal suo canapè e levossi in piedi, il viso pallido, gli occhi spalancati.

—Sì, mia nipote se n'è ita la notte scorsa—rispose il dottore.

—Ma in questo caso…

—Ma, in questo caso, come io non ò nulla a farmi del vostro poeta, ed abbisogno di mia nipote, io conto che voi agirete con prudenza e non bruscherete le cose, per non perder tutto irreparabilmente.

—Io perdo la bussola! sclamò Augusta ricadendo affranta sul canapè.

—Prestatemi il vostro principe di Lavandall.

—Impossibile. Voi lo sapete: egli è la mia provvidenza.

—Io v'ò detto: prestatemi il principe.

—No. Vi sono dei prestiti che non si ricuperano mai più.

—Voi sapete, belloccia mia, che io lo conosco, che lo incontro presso i ministri, nelle ambasciate, nei saloni del Faubourg. Laonde, se volessi rapirvelo, non avrei permesso a dimandarvi.

—Ma che volete voi dunque?

—Che me lo serviate in una festa, a casa vostra, alla mia prima richiesta.

—Sarà ciò subito?

—Non lo so ancora. Ciò dipende…

—Accetto.

—Infrattanto, calma e silenzio. Come vai tu, figliuola mia bella, adesso?

—Meglio, dottore. Ma Sergio…

—Che vuoi tu che io mi faccia di un poeta, di un giornalista, in un'epoca in cui ogni monello politico e morale, sciorina giornali, ed in cui il miglior poema è il listino della Borsa? Ve lo dò come buona mancia, va! Ma, ve lo ripeto, punto d'imprudenze, e non forziamo il tempo.

—Sia.

Il dottore baciò Augusta sulla fronte ed uscì.

I suicidi di Parigi

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