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VIII.

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Dove si vede… ciò che vedrete.

—Voi tenete dunque ancora il broncio, cattivo zio?—disse quella voce.

—Affatto—rispose costui tranquillamente. Io ti aspettava.

—Davvero?—gridò Regina, sfolgorante di gioia.

—Magari! Credi tu che io avrei vissuto sessant'anni per non imparar nulla? Ti aspettavo.

—Perchè allora non mi avete chiamata prima?

—Perchè io non aveva bisogno di te; e perchè io era sicuro che tu saresti venuta quando avresti avuto bisogno di me.

—Sempre lo stesso!—sclamò Regina, sospirando. Il vostro cuore non spiana dunque giammai le sue rughe?

Il dottore la fissò tra i due occhi e sorrise.

—Voi credete dunque che sono venuta perchè ò bisogno di voi?—chiese

Regina.

—Non lo credo: ne sono certo—rispose il dottore. Ed ecco perchè soggiungo: sbrigati a dire che cosa ti occorre—perchè debbo uscire.

—Ma, non mi occorre proprio nulla. Voleva solamente…

—Grazie, e buon giorno. Prendi una tazza di thè?

—Venivo a far colazione con voi. Ma ora nol voglio più. Sareste capace di dire che non venivo se non per questo…

—E per altre cose.

—Ah! E quali dunque, se vi piace, signore?

—Mi riguarda ciò forse? Sarà di già bene abbastanza di udirlo. Non mi dò dunque la pena d'indovinarlo e di dirlo.

—A maraviglia. Voi divenite di una brutalità a far scoppiar d'invidia… un editore—direbbe mio marito.

—Gli è che gli editori ànno ragione quando ànno a fare con scribacchiucci del calibro di quello lì.

—Voi siete ingiusto, dottore. Il signor Sergio di Linsac è un uomo compito, di grande ingegno, di gran cuore, che mi ama molto e mi rende felice.

—Peste! lo tradiresti di già, per consacrargli un simile elogio da epitaffio al Père Lachaise?

—Mi pento di esser venuta. Oh! sì: dovevo pur saperlo che gli uomini come voi non perdonano mai.

—E perchè no… quando sprezzano l'offesa?

—Io sovverrommi mai sempre di ciò che ero, e di ciò che avete fatto per me. La gitanella di Nicastro aveva la sua piccola volontà; ma ella aveva altresì del cuore.

—Per chi, dunque?

Regina guardò a sua volta fissamente il dottore e rispose:

—Per quelli che l'ànno amata.

—In questo caso, io conosco mica male di deseredati. Ma passiam oltre. Adesso la gitanella in questione si annoia.

—Un pochino.

—Ella trova il tempo lungo, l'esistenza vuota, le serate monotone e scure. Ella è sola nel mezzo della folla, vedova al focolaio domestico. Ella si trova fuori di classe, fuori dell'orbita sua naturale…

—Voi credete?

—La giovinetta cotanto festeggiata nel mondo, si tedia, giovane donna più che giammai. La giovinetta sì elegante, sì scintillante di gusto e di semplicità, si trova, giovane sposa senza diamanti, senza carrozza, senza una falange di lacchè… attrice riboccante di brio e di spirito, in tutta la potenza dei suoi mezzi, ma senza teatro, senza pubblico.

—Voi esagerate, dottore.

—La fanciulla aveva vaneggiato di un Dio che doveva trasfigurare la giovane sposa. Ella à visto quel Dio trasformarsi egli stesso in una creatura fastidiosa, silenziosa, distratta, che beve, mangia, dorme, e carezza sua moglie—quando la carezza—come l'ultimo dei facchini dell'Auvergne.

—Eh, Dio mio! l'è la storia di chicchessia—sclamò Regina sospirando—l'è la storia della donna e del matrimonio. Perchè me ne lagnerei, io?

—E chi dice che tu te ne lagni? Io constato la situazione del tuo spirito.

—Ebbene. Quando ciò fosse? Io avrei torto: ecco tutto.

—Ma, è fuori dubbio che tu ài torto. Il realizzamento di queste visioni non può esser permesso che alle donzelle dell'Opera… o alle mogli dei milionarii. La moglie di uno scrittore deve fare i conti con la sua cuoca—quando ne à una—andare al mercato, portare delle toilettes modeste, e mettere da banda un po' di gruzzolo per i giorni di non lavoro, par i figliuoli—che capitano checchè si faccia per evitarli. Che sono, al postutto, tutte codeste follie della vita elegante? Tu le conosci pure. Tu le ài gustate, tu le ài divise con le duchesse e con le ambasciatrici. Quantunque un ex-zingara, tu devi esserne sazia, stufa. N'è vero, figliuola mia?

—Mica poi tanto!—sclamò Regina, sospirando.

—E tu ài torto. Tuo marito vive nobilmente della sua penna—lo riconosco, avvegnachè non l'ami. Ma il tempo della penna è passato. La Francia muore d'un ingorgamento di lettere. Mr. Guizot vi metterà ordine—e farà bene. Meno scienziati, e più sensali e agenti di cambio! Tu mi costavi dodici mila franchi l'anno. Adesso…

—Non ve ne costerò che sei mila…—susurrò Regina, carezzante.

—Mille grazie. Io mi riformo. Metto poste alla cassa di risparmio, per la vecchiaia—come le cuciniere. Chi sa che può avvenire? Prendi dunque il bruno del passato, e rassegnati.

—Io mi tedio a perirne.

—La gloria non ti basta, dunque, eh!

—La gloria è del sesso femminile, dottore. E poi, dessa è a mio marito.

—Non vi siete voi dunque mica maritati col regime della comunità?

Egli ti celebra pertanto, nei suoi romanzi.

—Ebbene, sì. Egli mi à ultimamente collocata in un soffitto. La sua Regina è bella… ma abita il sesto piano sul mezzanino. Io l'avrei preferita in un palazzo. Mi capite?

—Il sesto piano è l'olimpo dell'amor vero. Non l'abita chi vuole.

—Si ama benissimo anche al primo piano, m'immagino.

—Ami tu tuo marito?

—Che domanda! l'avrei sposato senza ciò?

—Un milione di gaudi, allora. Un tugurio… ed il suo cuore!…

—E poichè vi siete, soggiungete: e sessanta mila lire di rendita!

—Io conoscevo un certo Svedese che ne possedeva trecento mila.

—Codesto, è storia antica… passiamo.

—Ne conosco che ne ànno cinquecento mila.

—Codesto è un sospiro di vedova… passiamo ancora.

—Vi auguro il buon giorno, signora contessa Sergio di Linsac.

—Quando verrete voi a pranzo da me—a pique-nique, bene inteso!

—Non ne so nulla. Non ne ò il tempo. Gl'inviti mi soffocano.

—Mettetevi al regime omiopatico.

—Io sono allopatico, carina—e non appostato—quantunque ciò sia alla moda. A proposito, se incontrate per avventura la gitanella in questione, ditele, che vi è per lei da Delille una veste e certi pizzi. Che vada a reclamarli. Inoltre, ditele che io vado al ballo dell'ambasciata d'Austria il 10 corrente, e che quella sera lì, io resterò in casa fino alle 11 pomeridiane, aspettando una vettura che venga a prendermi.

—Voi volete dunque pervertirla?—sclamò Regina, baciando il dottore sulla fronte. Io non porto mica di tali messaggi. Addio. O' fame, e vado ad asciolvere in casa mia.

—A vostro comodo, signora Alberto Dehal… ah! scusa! signora contessa di Linsac.

Regina fece un segno di minaccia col suo dito, scintillando di un sorriso che illuminò la camera.

Il dottore la vide partire ed un ghigno spaventevole si stemperò sul suo sembiante. Poi prese un foglietto e scrisse:

«Trovata. Al ballo dell'ambasciata d'Austria.»

Piegò quindi la lettera e vi mise l'indirizzo: «Al signor principe di

Lavandall. Rue d'Amsterdam, n. 97.»

Si vestì ed uscì.

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