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I.
Partenza

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Una sera del settembre 1867 mi trovavo al Casino o Circolo sociale di Udine e si chiacchierava secondo il solito, di politica, trinciando il mondo a diritto ed a rovescio con la giovialità e la spensieratezza dei vent'anni.

La compagnia s'accresceva ad ogni istante di qualche amico: finalmente ad un dato punto tutti si levarono come a segnale convenuto e passarono nella sala attigua.

Volli seguirli, ma mi fu impedito: ciò che mi parve molto strano.

– O che, ci avete dei segreti? chiesi ad un amico.

– Abbiamo un affare nostro da sbrigare.

– Ed io non posso intervenire?

– No, abbi pazienza: a suo tempo saprai ogni cosa.

– Ma di che si tratta dunque?

– Parola d'onore, te lo dirò.

E mi chiuse la porta in faccia, lasciandomi solo. Per tutto quel giorno almanaccai su quella conferenza a porte chiuse. – Che sarà mai? pensavo. – Affari della società? oh no di certo, perchè io pure sono socio e dovrei saperne qualche cosa!

All'indomani, appena uscito di casa, mi diressi all'ufficio della Sentinella friulana. Era questo il titolo di un periodico settimanale, che si stampava da noi giovani e che aveva per iscopo e programma di educare ed istruire il popolo.

Non saprei dire quanto e come il nobile intento fosse effettivamente da noi raggiunto, nè se i mezzi adoperati fossero i più adatti. Di due cose mi ricordo, le quali per lo meno fan fede delle nostre buone intenzioni: che tutti noi ci mettevamo una grandissima attività e che il periodico era dispensato gratuitamente, come gratuita era l'opera nostra. Ne pagava le spese una eletta schiera di patroni (chiamiamoli così), i quali contribuivano con due lire al mese. Non ricordo quanti fossero: so però che il giornale era letto e se ne distribuiva un migliaio di copie circa.

Questa cuccagna durò, credo, tre o quattro mesi, poi si risolse in un deficit, che troncò miseramente la vita alla filantropica pubblicazione.

Era di buon mattino ancora e però rimasi sorpreso allorchè, entrando nell'ufficio ch'io credevo di essere primo ad aprire, lo trovai invece occupato da alcune persone a me sconosciute, le quali conversavano animatamente. Al mio entrare la conversazione s'interruppe d'un tratto, poi fu ripresa a bassa voce. Io fingendo di non interessarmici, mi misi a sfogliare alcune carte, ma in realtà tendevo l'orecchio. Morivo dalla curiosità.

Poco dopo entrò un comune amico, il quale senza tanti misteri, forse credendomi d'intesa con gli altri, depose sul tavolo alcuni biglietti di banca.

– Ecco tutto quello che ho potuto cavare di tasca al signor X… (il nome non serve), esclamò.

– Basterebbe al più per due di noi, soggiunse uno degli interlocutori.

– Sta bene, ribattè un altro, ma quando saremo sul posto, come si farà? ci toccherà viverci per chi sa quanti giorni!

– Ma io credo che là si provvederà.

– Chi ne sa nulla?

– Intanto potreste partire e quando sarete sul luogo, spediremo dell'altro; frattanto ci adopereremo.

– Non lo credo prudente. Per ritirare denaro quando s'è fuori, fa d'uopo declinare il proprio nome alla posta od alla banca, e noi abbiamo bisogno di tenerci nascosti. Io, fra l'altro, non ho passaporto: quindi non si sa mai quel che possa accadere.

Dal dialogo interrotto, dalla ricerca di quattrini e da altri indizi mi parve comprendere di che si trattasse.

Uscii come se nulla fosse e la prima persona che incontrai fu l'amico del giorno prima, quello che m'avea dato parola di palesarmi il segreto.

– Giurami che mi dirai la verità, gli dissi. Voi combinate qualche cosa per Roma.

– Come lo sai? mi chiese sorridendo.

– L'ho potuto argomentare da un discorso ora udito all'ufficio del giornale. E tu perchè non mi dicevi nulla?

– Sei troppo ragazzo, si temeva che parlassi; ma al momento di partire figurati se non te lo avrei comunicato!

– Quando si parte?

– Ora lo vedremo. E rientrammo all'ufficio.

C'era anche un mio amico triestino, Giusto Muratti. Per partire si attendeva un telegramma da Firenze.

Il telegramma venne finalmente.

– Io parto, dissi al Muratti. Vieni?.. e fu stabilito di lasciare, se fosse possibile, la città quella notte stessa.

Due ostacoli però si frapponevano. Il Muratti non aveva passaporto. Io invece l'avevo e in perfetta regola; ma in compenso non avevo quattrini e se ne avessi chiesto in casa, avrei messo sospetto e certo mi sarebbe stata impedita la partenza.

Al passaporto per il Muratti fu subito provveduto: un amico gli prestò il suo. Più difficile fu risolvere l'affare dei quattrini per me. Un signore me li aveva promessi per la sera: uscii a notte tarda con armi e bagaglio e mi recai da lui, ma non era in casa. Il tempo stringeva e solo un'ora mancava alla partenza del treno.

Inquieto per tale contrattempo, lasciai il mio piccolo bagaglio al Muratti, pregandolo di attendermi, chè avrei fatto un altro tentativo. Erano le nove di sera e certamente poche speranze potevo nutrire a quell'ora per simili affari. Ma io conoscevo le abitudini casalinghe di un amico. A quell'ora doveva essere a cena: ero quindi sicuro di trovarlo in casa.

Andai da lui e lo trovai; gli chiesi trecento lire, me le diede senza aprir bocca e ritornai trionfante dal Muratti che mi attendeva sulla via.

Un'ora dopo il treno diretto della notte ci portava alla volta di Firenze.

In mia casa per quella sera e fino al mezzogiorno del domani non se ne seppe nulla.

S'era bensì vociferato alcuni giorni prima in città della misteriosa partenza di alcuni giovinotti, ma nessuno aveva saputo dare spiegazioni.

Qualche cosa n'aveva inteso anche la mia buona mamma e però forse divinava. In casa seguiva ogni mio passo e quando quella sera picchiò alla mia stanza, dove m'ero rinchiuso per comporre un po' di biancheria entro una piccola sacca, dovetti nascondere sacca e biancheria sotto il letto per non darmi a conoscere.

Voleva che l'accompagnassi presso certi nostri parenti. Le dissi che non potevo perchè dovevo fare una visita di dovere in casa X… E così dopo desinare io andai a vestirmi in abito nero da società con guanti e gibus ed essa venne a vedere di persona se l'abbigliamento era all'ordine e mi stava bene.

– Mi raccomando, sai? mostrati garbato e riverisci da parte mia.

– Sì, mamma. – Le diedi un bacio ed uscii in gran fretta. Mi veniva da piangere.

Forse quel bacio potea essere l'ultimo ed ella non lo sapeva. In ogni modo l'indomani avrebbe provato un grande dolore.

Ad alleviarlo, le diressi, poco prima di partire, un bigliettino e lo impostai alla stazione.

Le chiedevo scusa d'averla in tal modo ingannata: partivo per un affare di premura e la pregavo di non fare di me ricerca alcuna perchè a suo tempo le avrei fatto avere mie nuove.

Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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