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FRANCESCO CÈNCI

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Per tutti i cerchi dello Inferno oscuri

Spirto non vidi in Dio tanto superbo.

DANTE

Non so se più soave, ma certamente simile alla Madonna della Seggiola di Raffaello avrebbe dipinto un quadro colui, che avesse tolto a imitare per via di colori il gruppo, che stava aspettando Francesco Cènci nella sala del suo palazzo. Una sposa di forse venti anni, seduta sopra i gradini di un finestrone, teneva al petto il suo pargolo; e dietro alla sposa un giovane di egregie sembianze, col volto basso, contemplava cotesto spettacolo di amore: egli solleva le mani giunte e alquanto piegate verso la spalla sinistra, per ringraziare Dio di tanta prosperità che gli manda. La sembianza e lo atteggiamento dimostrano come in quel punto lo commuovano tre affetti, che fanno l'uomo divino. Le mani erano a Dio, lo sguardo al figlio, il sorriso alla sposa.—Però la donna non vedeva cotesto sorriso, chè lei assorbivano intera i doveri e la dignità di madre. Il fanciullo sembrava un angiolo, il quale avesse smarrita la via per tornarsene in cielo.

Ma dall'altra parie della sala stava disteso sopra un pancone un uomo, che sembrava avesse fornito a Michelangiolo il modello di taluno de' suoi famosi crepuscoli. Appena mostrava il volto, celato sotto il cappello di larghe falde e conico di forma. La barba avea lunga, rabbuffata e grigia; la pelle, simile a quella che Geremia deplora nei figliuoli di Sion, tinta di cenere come il pavimento del forno[1]. Si avviluppava dentro un ampio tabarro: le gambe e i piedi, l'uno soprammesso all'altro, aveva calzati di sandali, giusta il costume degli uomini del contado di Roma. Forse egli era armato, ma teneva le armi nascoste; però che la Corte Romana, dopo papa Sisto V, procedesse molto rigidamente in simile faccenda.

Chiunque, in mezzo della sala, avesse posto mente prima al gruppo dell'amorosa famiglia e poi a quell'uomo, avrebbe ricordato il detto della Scrittura: divise le tenebre dalla luce[2].

Due giovani gentiluomini passeggiavano per la sala, taluni con veloci e talora con tardi passi, ricambiando parole a voce alta, o sommessa. Il primo aveva la pelle chiazzata di vermiglio come macchie di erpete; dalle pupille nere, luccicanti traverso i cigli infiammati, traluceva la ferocia, mescolata ad un certo smarrimento mentale: rari ed irti i capelli: sozzi i denti: il naso camuso e le guance flosce lo arieggiavano col cane da presa. Le vesti, comecchè nobilissime, erano scomposte: la parola usciva impetuosa e roca dai labbri riarsi: accenti impuri, cui forse natura per rendere più laidi volle accompagnati con fetido fiato: rotti e continui i moti delle spalle, dei bracci e del capo. Il delitto stava là dentro come un vulcano prossimo a prorompere.

L'altro poi era pallido, e di aspetto gentile: copiosa e ben composta la chioma bionda, tardo e mesto a guardare e a parlare: sovente distratto: qualche volta sospiroso: si fermava, trasaliva, la commozione interna svelava col tremito del labbro superiore, e coll'agitarsi degli estremi peli dei baffi. Le vesti, i nastri, le trine del colletto e delle maniche elegantissime. Chiunque lo avesse veduto avrebbe esclamato a prima giunta: costui sospira.

In tonacella senza ferraiolo, simile ad una gazza che inquieta ed obliqua saltella per casa, ecco un prete guizzare qua e là, dandosi la maggior pena del mondo per trarre a se l'attenzione degli astanti, o almeno di taluno fra loro. Egli favellava della state e del verno, del caldo e del freddo, della sementa e della raccolta, ma nessuno gli attendeva: talora domandava se in quel giorno avrebbe potuto avere la degnazione di parlare con sua Eccellenza il clarissimo signor Conte; tal altra a quale ora egli soleva levarsi, e a quale asciolvere; se costumava spendere molto tempo attorno alle mondizie della persona, e se tutti i giorni desse udienza;—era fiato gettato: nessuno gli rispondeva, però che gli sposi rimanessero estatici nella loro letizia; il villano paresse una statua di bronzo; il gentiluomo dal volto vermiglio lo avesse squadrato così di traverso, da mettergli i brividi addosso; il gentiluomo dal volto pallido lo fissasse come uomo piovuto dalle nuvole. Il povero prete stava per dare del capo nei muri: proprio per disperazione, di tanto in tanto apriva il breviario e leggeva; ma col sembiante di chi trangugia medicine amare: gli occhi gli sdrucciolavano giù per le pagine: avresti detto che avesse recato seco cotesto libro, come colui che va ad annegarsi si porta il sasso per legarselo al collo.

Il volto dello sciagurato prete, per ordinario tinto del giallo pallido dei mozziconi di cera avanzati al servizio dell'altare, quasi per impazienza si era fatto acceso: non poteva darsi pace che nessuno gli porgesse ascolto; e sì ch'ei meritava essere avvertito, non fosse altro per indovinare se avesse più logora la tonacella veste del suo corpo, o il corpo veste della sua anima: logori entrambi, amici vecchi fra loro, e, con rammarico grande del loro padrone, testimoni che nulla ha da durare eterno nel mondo.—

Il curato (dacchè il prete fosse proprio un curato) dopo aver fatto esperimento come non si verifichi sempre la sentenza della Scrittura «picchiate, e vi sarà aperto,» si era indirizzato per la terza o quarta volta a certo staffiere di sala, il quale sembrava finalmente disposto a dargli retta, quando il gentiluomo dalla trista figura chiamò con voce arrogante:

—Cammillo!

La natura dei servi è, che quando non hanno motivo peggiore per incurvarsi, obbediscono a cui comanda più superbo; e Cammillo staffiere, comecchè tra la famiglia ampissima dei servi non fosse dei più tristi davvero, tuttavolta, girando quasi per iscatto di molla su i talloni, mutò la faccia per le spalle davanti al prete; e, fatto arco della persona verso il gentiluomo, con voce ossequiosissima rispose:

—Eccellenza!

—Avrebbe il nobil Conte per avventura mal dormito stanotte?

—Non lo so—ma non credo. Gli furono portate parecchie lettere sul fare del giorno, massime di Spagna e del Regno:—potrebbe darsi, ma non lo so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.

In questo punto un latrato infernale intronò le orecchie degli astanti: poco dopo si aprono con impeto furiosissimo le imposte della stanza del Conte, e ne prorompe fuori un mastino di enorme grandezza tra spaventato e inferocito.

Il villano, giacente accanto la porta, in meno che si dice amen è balzato su ritto; e, sviluppatosi dal tabarro, dà di mano a un pugnale largo, e lungo bene due palmi, atteggiandosi a difesa. La giovane madre si strinse il figlio al seno, cuoprendolo con ambe le braccia. Il padre si parò dinanzi al figlio e alla sposa schermendoli col proprio corpo. I gentiluomini si scansarono con fretta decente, come chi non vuole a un punto incontrare il pericolo, e non mostrar paura. Il curato poi si mise a fuggire.

Il cane, seguendo suo istinto, si avventa contro il fuggitivo, lo azzanna per gli svolazzi della tonaca, e gliene strappa un lembo; e gli faceva peggio, se due staffieri correndo non lo avessero trattenuto a gran pena afferrandolo pel collare. Il breviario era rotolato per terra. Il povero prete traeva dolorosi guai; e, stretto dalla medesima smania che spingeva lo ebreo Sylock a gridare «la mia figlia! i miei danari!», esclamava:

—La mia tonaca! il mio breviario!—

Il cane infellonito abbaiava più forte che mai.

Sopra la soglia apparve un vecchio. Questo vecchio era Francesco

Cènci.

Francesco Cènci, sangue latino dell'antichissima famiglia Cincia, annoverava fra i suoi antenati il pontefice Giovanni X, quel sì famoso drudo della bella Teodora, la quale per virtù di amore lo condusse vescovo prima a Bologna, poi a Ravenna, e finalmente lo fece papa. E come nel tempo, così era cotesta famiglia nel delitto vetusta; imperocchè, se la storia porge il vero, Marozia sorella a Teodora, intendendo torre a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa proditoriamente la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il Laterano, uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni stesso chiude in carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase morto. Corre fama eziandio, che lo rinvenissero cadavere nel letto di Teodora; e la superstizione immaginò lo avesse strangolato il diavolo, in pena dei suoi delitti. Morte obbrobriosa a vita di vituperio!

Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua entrata si stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi era infinito, ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava il padre, che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio Cènci attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi entrambi nel diverso mestiere. Intorno al conte Francesco, male sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra alcun uomo mai corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto, lo dicevano avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in conferma così dell'una come dell'altra fama potevansi addurre riscontri. Aveva sostenuto parecchi processi, ma n'era uscito sempre assoluto ex capite innocentiæ: molti però non si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano sussurrando dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota Romana condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se la vita sua compariva al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe a provarla senza fine spietata la sua misera famiglia, la quale per pudore, e molto più per paura, non ardiva profferire parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si compiacesse immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e appena immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo; avesse a spendersi un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo volere, era il lampo; il fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di audacia!) tenere conto esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro di Ricordi si trovarono registrate le seguenti partite:—Per le avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per la impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono rubati.—Viaggiava a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo stanco scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano venderglielo ei se lo toglieva, dando qualche pugnalata per giunta. Paura di banditi nol tratteneva da passare soletto le foreste di san Germano e della Faiola; e spesso ancora, senza punto posare, fu visto condursi a cavallo da Roma a Napoli. Quando appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o incendio, o assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere. Forte fu della persona, e destro in ogni maniera di esercizii maneschi, così che provocava sovente i suoi nemici con soprusi e dileggi: ma di questi, palesi ne aveva pochi; chè lo temevano assai, e a cimentarsi con lui ci pensavano due volte. Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di bravi; il cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.

Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere carnefice) di Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i più potenti dei nobili romani, dopo averli trattenuti alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città, disse ai circostanti: «O la mia vista, siccome suole per vecchiezza, è diventata fosca, o di qualche strano apparecchio vanno ornati stamattina i merli dei palazzi delle Signorie vostre eccellentissime: andate a riscontrare, e in cortesia fatemi assapere quello ch'è.»

Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti signori riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e tutti, senza misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.

Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo ottimamente conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno di tirarsi al largo; e finchè ei visse stette a Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda. Il serpe aveva trovato a mordere la lima.

Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli anni, pure bene di salute disposto; se non che, offeso nella diritta gamba, zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio, avrebbe acquistato fama di oratore egregio se glielo avessero conceduto i tempi e la lingua, che, ad ogni più leggiera alterazione inciampandogli fra i denti, lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i sassi. Di laide sembianze non poteva estimarsi per certo; e non pertanto sinistre così, che giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo spesso paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e una tinta più gialla e biliosa, il suo volto presentava la medesima aria della sua giovanezza. La fronte, mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non profonda quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì sfumata, leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza che declina. Gli occhi, mesti per ordinario, colore del piombo simili a quelli del pesce morto, privi affatto di splendore, contornati da cerchi cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne—pareano cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente bene a un santo e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello della sfinge, o come la fama dello stesso Conte Cènci.

Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza: più tardi m'ingegnerò esporre uno studio psicologico intorno a questo prodigioso personaggio.

Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue stanze, insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli profferiva i consueti uffici, aveva risposto:

—Va' via: mi basta Nerone.

Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia.—Così lo nominò il Cènci, meno in memoria del truce imperatore, che per significare, nel vetusto linguaggio de' Sanniti, forte, o gagliardo.

Coricato appena, prese a dare di volta pel letto: incominciò a gemere d'impazienza: a mano a mano la impazienza diventò furore, e si pose a ruggire. Nerone gli rispondeva ruggendo. Indi a breve il Conte, balzando dalle odiate piume, esclamò:

—Abbiano avvelenato le lenzuola!—Questo si è pur dato altra volta, ed io l'ho letto in qualche libro. Olimpia! Ah! mi sei fuggita, ma io ti arriverò:—nessuno ha da scapparmi di mano—nessuno.—Quale silenzio è questo accanto a me! Che pace qui in casa mia! Riposano:…—dunque non gli atterrisco io?—Marzio.

Il cameriere chiamato accorreva prontissimo.

—Marzio, riprese il Conte, la famiglia che fa?

—Dorme.

—Tutti?

—Tutti; almeno sembra, poichè ogni cosa sia tranquilla in casa.

—E quando io non posso dormire ardiscono riposare in casa mia?—Va', guarda se veramente dormono; oreglia alle stanze, in ispecie quella di Virgilio; sprangale pianamente per di fuori, e torna.

Marzio andò.

—Costui, continuava il Conte, sopra gli altri aborrisco; sotto quella superficie di ghiacciata mansuetudine non iscorrono meno veloci le acque della ribellione: aspide senza lingua, non però senza veleno. Quanto mi tarda, che tu muoia!—

Marzio, tornando, confermava:

—Dormono tutti, anche don Virgilio; ma di sonno travagliato, per quanto può giudicarsi dall'anelito febbrile.

—L'hai sprangata fuori?

Marzio col capo accennò affermativamente.

—Bene; prendi questo archibugio, sparalo traverso l'uscio della stanza di Virgilio, e poi urla con quanto hai di fiato nella gola:—al fuoco! al fuoco!—Così insegnerò a costoro dormire mentre io veglio.

—Eccellenza….

—Che hai?

—Io non le dirò: pietà del ragazzo, che pare ridotto in extremis….

—Continua….

—Ma la è cosa da mettere sottosopra il vicinato.

Il Conte, senza punto turbarsi, pose chetamente la mano sotto al capezzale; e, trattane fuori una pistola, la spiana improvviso contro il cameriere, che tramutò in volto per terrore, e con voce soave gli disse:

—Marzio, se un'altra volta invece di obbedire attenterai contradirmi, io ti ammazzerò come un cane:—-va'.

Marzio andò più che di passo ad eseguire il comando.

È impossibile descrivere con quanto terrore fossero destati le donne e il fanciullo. Balzano da letto, si avventano contro gli usci; ma non li potendo aprire urlano, pregano si dica loro lo accaduto, per amore di Dio aprano, dalla tremenda ansietà gli liberino. Nessuna risposta: spossati tornano a gittarsi sul letto, travagliandosi per un sonno affannoso.

Dopo forse due ore il Conte chiama di nuovo il cameriere, e lo interroga:

—Fa giorno?….

—Eccellenza no.

—Perchè non fa giorno?…

Marzio si strinse nelle spalle. Il Conte tentennando il capo, quasi per irridere se stesso della domanda strana, riprese:

—E quanto tarderà ancora a spuntare l'alba?

—Un'ora.—

—Un'ora!—Ma un'ora è un secolo, è una eternità per chi non può dormire, o mio… sta a vedere, che per poco non aggiungeva—Dio.—Dicono il sonno amico dei santi: se questo fosse, io avrei a dormire quanto i sette dormienti insieme! Che fare adesso? Ah! spendiamo questo avanzo di notte in qualche opera meritoria;—educhiamo Nerone.—

E ordinava a Marzio prendesse certo uomo di paglia, e lo portasse in sala dove mettevano capo le camere delle donne e del fanciullo: egli poi trasse Nerone in altra stanza, lo aizzò, lo inasprì, e poi, spalancato allo improvviso l'uscio, lo avventò contro l'uomo di paglia. Il cane, cieco di rabbia, si lancia a balzi contro il simulacro, e lo strazia latrando disperatamente. Il Conte traeva maraviglioso sollazzo a contemplare le prove di cotesta belva, e a Marzio, che gli si era accostato, così favellò:

—Questo è il figlio della mia predilezione, come disse la voce sul Giordano; e lo educo, a Dio piacendo, a difendermi dai nemici, ed anche dagli amici; in ispecial modo dai miei figli dilettissimi; dalla consorte più diletta ancora, ed anche un po' da te—e toccava la spalla al cameriere—mio lealissimo Marzio.

Così empita di spavento e di terrore la casa tornò alla stanza, dove la natura, vinta dalla spossatezza, lo costrinse a breve sonno e interrotto. Quando si alzò era torbido in vista.

—Ho fatto mal sonno, Marzio…. mi son sognato che stava a mangiare co' miei defunti. Questo denota morte vicina. Prima però ch'io vada a mangiare costà, bene altri, Marzio, bene altri mi avranno preceduto ad apparecchiarmi la tavola.

—Eccellenza, sono giunte lettere dal Regno per cavallari apposta….

Il Conte sporse la mano per riceverle. Marzio continuava:

—E di Spagna col corriere ordinario; le ho messe tutte sul banco dello studio.

—Bene: andiamo….

E sorretto da Marzio, accompagnato da Nerone, si avviava allo studio.

Sorgeva appena un magnifico sole di agosto, il quale tingeva in oro co' giovanetti raggi l'azzurro emisfero. Unica gloria, dacchè la viltà nostra ci ha tolto perfino quello, che sembrava a perdersi impossibile—il sentimento della nostra abiezione. Dio! Oh come grandi hanno da essere le nostre colpe e la tua ira, se nè pianto, nè sangue, nè nulla vale a fecondare sopra questa terra un fiore di virtù!

Il Conte si appressò al balcone, e, fissato il maestoso luminare, mormorò detti segreti. Marzio, letiziato a tanta bellezza di cielo e di luce, non potè trattenersi da esclamare:

—Sole divino!

A queste parole gli occhi del Conte, per ordinario spenti, corruscarono a modo di baleno dentro una nuvola, e gli avventò contro al cielo. Se è vero che Giuliano l'apostata lanciasse contro il cielo il sangue, che gli scorreva dalla ferita mortale, deve averlo gittato come quel guardo, e con quella intenzione.

—Marzio, se il sole fosse una candela, che soffiandovi sopra potesse spegnersi, la spegneresti tu?

—Io? Le pare, Eccellenza!—lo lascerei acceso.

—Io lo spegnerei.

Caligola aveva desiderato al popolo romano una testa sola, per recidergliela con un colpo; il Conte Cènci avrebbe voluto stritolare il sole. Povera creta! Se il sole si accostasse, la cenere della terra non occuperebbe spazio nell'universo.

Si assise al banco; aprì, e lesse una, due e tre lettere, pacato in prima, poi precipitosamente; al fine, scorsele tutte, proruppe con orribile bestemmia:

—Felici tutti! Ah Dio! tu me lo fai proprio per dispetto.

E chiuso il pugno, abbassò il braccio con quanto aveva di forza: caso volle che colpisse in mezzo alla fronte Nerone, il quale col muso levato e gli occhi pronti seguitava i moti del suo signore. Il cane diè un balzo di furore, poi irruppe contro la porta, ne spalancò le imposte, e fuggì via sbuffando. Il Conte gli mosse dietro richiamandolo, non senza aver prima con un suo riso amaro osservato:

—Vedi, Marzio, s'ei fosse stato un figliuolo mi avrebbe morso!—

Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI

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