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L'INGRESSO.
ОглавлениеAinsi qua le tyran,
L'esclave est un impie, rebelle à la Divinité!
(CHENIER.)
Da quanto si disse si comprende essere stata la missione del nostro Cantoni quella di portare un dispaccio al Comandante dei Volontari, per ragguagliarlo di quant'era succeduto a Bologna e chiamarlo co' suoi militi in quella città.
E veramente il coraggioso popolo dell'8 agosto¹ sapendo trovarsi i militi di Montevideo alle Filigari, tumultuò, recossi al Palazzo di città e dopo d'aver minacciato il generale pontificio Latour di precipitarlo dal balcone, ottenne la chiamata in città dei fratelli relegati nelle nevi dell'Apennino e destituiti d'ogni più bisognevole di vitto e di vestiario.
¹ L'8 Agosto 1848 i Bolognesi cacciarono gli Austriaci da la loro città con eroismo sorprendente.
E n'era ben tempo. I pochi fondi, che individualmente possedevano i volontari, erano stati raccolti in massa, con mutuo consenso per la sussistenza comune, ed esausti.—L'imperversante stagione anticipava i rigori, e già non solo un palmo di neve inargentava le vette dei monti ma minacciava coprire la pianura. E con quella bagatella di panni da state—che per la maggior parte vestivano i volontari—v'era proprio da star freschi. Ma il SS. Padre, amorosissimo dei Cristiani, aveva ordinato che quella parte del suo gregge, non entrasse sul sacro territorio suo, e ciò dovea bastare.
Avanzo di cento pugne e penetrati della santa missione di redimere l'Italia dall'impostura e dalla tirannide, que' pochi avanzi di Luino e di Morazzone¹ erano veramente formidabili alla negromanzia.—L'Italia dal suo canto capiva sin d'allora che tra questi campioni del diritto e dell'onor italiano ed il prete, era questione di vita e di morte, e che se il disonesto deve finalmente soggiacere sotto la sferza della vera morale dei liberi, quella cloaca del Vaticano dev'essere finalmente purgata.
¹ Terre di Lombardia ove accaddero gli ultimi combattimenti di Garibaldi e de' suoi nella ritirata del 1848.
La maggior parte degli ufficiali appartenevano alla schiera dei prodi venuti da Montevideo, ove avevan lasciato bella fama di loro e fregiato il nome italiano con imperituro decoro.
Ove son essi i Settantatre Argonauti che traversaron l'Oceano per portar all'Italia non i loro tesori, ch'essi eran poveri, ma le loro destre, onorevolmente incallite nelle battaglie del Nuovo Mondo per la libertà delle Nazioni?
Ove son essi? Dimandatelo al bifolco romano quando ei rintuzza la punta del vomero nei teschi che imbiancano le zolle del suo campo, od al Ciociaro¹ quando bestemmia per gl'inciampi che il suo cavallo trova ad ogni passo sul vecchio Gianicolo! Le loro ossa?… Son seminate sulla Via Scellerata e non un sasso sorge sulla sepoltura di quei valorosi! Non un segno che mostri al passaggiero e che le distingua dall'infinita canaglia che germogliò e si spense sulla terra dei Cincinnati da circa diciotto secoli!
¹ Ciociaro—Pastore a cavallo.
Frattanto, Italia, sullo stesso sito ove giacciono calpestate ed insepolte le ossa dei tuoi prodi, il tuo vampiro, il tuo mal genio, il vituperevole prete innalza monumenti all'immorale schifoso mercenario che ti deturpa, santifica i carnefici, canta Te Deum alle sue orgie di menzogne e di sangue!
E peggio ancora! Tu, meretrice fracida di prostituzione, ogni giorno vai a inginocchiarti ai piedi d'uno di questi assassini de' tuoi figli!!!
Sì! Montaldi, Masina, Daverio, Ramorino e tanti superbi e prodissimi figli di tutte le provincie Italiane, giacciono senza sepoltura sulla terra sventurata dei portenti e delle maledizioni!
È pur bello, massime per gli amanti di spettacoli, un ingresso in città italiana fra gli applausi della moltitudine e i nembi di fiori che oscurano ed imbalsano l'atmosfera!
In Bologna però—nell'ottobre del 48,—i fiori erano scarsi, ed al diffetto supplivano le bellissime figlie di Felsina collo sventolare dei candidi fazzoletti, e coi fervidi tramandati baci con cui esse beavano gli arditi e poverissimi Volontari—gli stessi che dovevan poi veder le spalle degli Imperiali Soldati del Papa, ma finire gloriosamente sotto le mura di Roma—grazie all'indifferenza di questo nostro popolo, sin ora almeno molto esaltato a scialaquare spettacoli e dimostrazioni, ma parco e restìo nell'aiutare i fratelli militanti contro lo straniero.
Lasciato l'albergo delle Filigari,—per la volontà dei fortissimi Bolognesi,—la brigata dei Volontari s'incamminò verso la fiera metropoli delle Romagne, e la gioventù generosa accorreva all'incontro dei nostri prodi con bandiere ed acclamazioni, ed anelante di congiungersi ai fratelli per finirla coll'abborrito governo dei preti.
L'ingresso fu una vera festa, i bravi popolani ed il bel sesso d'ogni ceto accoglievano i cari Volontari con affetto ed entusiasmo indicibile.
Solo alcune code¹ e neri, peste dell'umana famiglia, adocchiavano furtivamente lo spettacolo da dietro i vetri delle finestre, e si ritraevano cauti, tementi di contaminare gli occhi loro da rettili arrestandoli nelle franche e maschie fisonomie di cotesti nemici della menzogna e del despotismo, oppure tementi che il popolo, conscio delle loro scelleragini, non li scovasse e li precipitasse sul lastrico.
¹ Si chiamavano code i retrivi.
Molte carrozze, uscite dalla città all'incontro dei Volontari, li avevano accolti tutti, e così si effettuò pomposamente l'entrata in Bologna. Uno splendido banchetto, preparato all'albergo del Leon d'oro, completava la bella accoglienza fatta ai campioni del diritto italiano e quivi essi discesero per rifocillarsi.
«Abbasso i preti! Morte ai mercenari!» urlava il popolo, mentre difilavano verso i loro quartieri i Papalini che con due cannoni e molto apparato di forza tornavano dalle Filigari, ove avevan compita la missione d'impedire ai Volontari d'entrare sul territorio romano.
«Morte ai Papalini! Mettetevi alla nostra testa, Comandante, e vedrete come aggiusteremo quella canaglia!» ed i Bolognesi non burlano quando si tratta di fatti.
Il Comandante dei Volontari, a cui si dirigevano quelle parole tripudiava di contento nel vedere quel buon popolo così risoluto, ma non volle assumere la responsabilità della strage che poteva succedere, spingendo gente inerme contro truppe straniere armate di tutto punto.—Il banchetto proseguiva allegramente, ed i Volontari, che da tanti giorni erano stati ridotti a dieta, si confortavano ora con buoni cibi e con eccellenti vini delle Romagne.
Dopo la privazione si assaporarono veramente i cibi.—E che gusto hanno essi al palato del potente che nuota nell'abbondanza e nella lussuria, e che tanto abbisogna di stimolanti per inghiottire quelle vivande, forse frutto di mala vita o di prostituzione? L'abitudine costante di pietanze delicate a profusione ed il poco esercizio rendono le vivande insipide e disgustanti. L'uomo del lavoro invece, dopo aver faticato delle ore, assapora deliziosamente un tozzo di pane,—e quanto eccellente trova un bicchiere di vino se può averlo!—e se no, egli gradisce pure un gran sorso di acqua per dissetarsi, e torna cantarellando al suo lavoro.
L'esercizio è indispensabile all'umana famiglia:—il bimbo si muove, s'agita, s'impazienta se volete trattenerlo dal moto, anche quando è incapace di reggersi sulle proprie gambe. La gioventù è un movimento perpetuo: la vitalità delle membra e l'irrequietezza del suo spirito la portano ad intraprendere qualsiasi cosa. Essa si getta sull'immensità dell'Oceano, a cercar novità, fortune, avventure; se no guai ai tiranni ed agl'impostori!… Insofferente d'umiliazioni e di ceppi, la gioventù è loro naturale nemica, e cerca ogni modo di secondare le proprie propensioni generose a menar le mani contro gli sgherri. Solo la vecchiaia si posa;—presentendo quella transizione della materia che si chiama morte, cambia d'indole e sostituisce alle passate consuetudini di caccia, pesca, viaggi, avventure, gli studi, e quello specialmente della natura. Il vecchio zoppicante, quando può cava fosse; egli si avvicina così alla terra, a cui presto pagherà il tributo delle sue depredazioni. Egli si avvicina all'immobilità del cadavere, immobile sinchè la prole di vermi ch'ei genera venga a ravvivarlo ancora. Sfamandoli—diversa dal Saturno della favola che divorava i figli—questa prole divora il genitore, sinchè, esausto il cibo, essa, il padre, i suoi frantumi e la sua polve rientrano nell'infinito materiale, da dove furono tolti dalla mano Onnipotente dell'Infinito.
La morte! quell'idea mi sorride, e fu ben provvido chi la istituiva.—La morte! livellatrice della fortuna! asilo sicuro della sventura!
Com'è naturale il fine dell'onesto figlio del lavoro, che passa placidamente coll'anima tranquilla, dopo d'aver adempiuto ai suoi doveri di figlio, di padre, di cittadino! Paragonate la fine del giusto colla morte di cotesti oppressori delle genti, che si chiamano Papi, Imperatori, Re, e la cui vita germogliò sulla fame, sulla miseria e sulle sciagure del genere umano, e mi direte poi se non è santa l'istituzione della morte!
Cadaveri! distinguetemi lo stinco del povero da quello del ricco!—il teschio del mendico, dal teschio che portò corona!
E che sarebbe di noi, se a capo della mensa del negromante e del tiranno non sedesse la morte? Se essa non porgesse la sua testa scarna tra le pieghe indorate dei serici arazzi del gineceo e dell'harem?
La morte! questa trasformazione della materia, è anch'essa un composto di bene e di male: picchiando alla porta del potente sovente ne mitiga la ferocia…. Ed il prete, la volpe del genere umano, col suo fantasma, cogli orrori delle sue pitture trasformò questo nostro popolo sì grande, quando disprezza la morte, in una masnada d'imbelli tremanti davanti all'infallibile ed inesorabile sua falce!