Читать книгу Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 3

CAPITOLO I.

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— Sarai buona, non è vero?... Mi prometti di non farmi ingelosire?

— Te lo prometto.

— Giuralo.

— Giuro.... bambino mio.

E a questo punto, com'è naturale, si udì nel salotto il leggerissimo susurro d'un bacio.

Quando la contessa Elisa chiamava bambino il conte Eriprando degli Ariberti, voleva proprio dire che si trovava allora molto in tenero con lui; cosa che non le accadeva sempre, quantunque, quasi sempre, ella credesse di volergli bene. Ma dal canto suo, la contessa Elisa era occupatissima, aveva ogni giorno un infinito numero di cosucce da fare e da sbrigare, mentre il conte Eriprando non ne aveva che due sole: voler bene alla contessa Elisa ed aspettar pazientemente una risposta alle carte ch'egli aveva inoltrate negli uffici delle strade ferrate A. I., col nobilissimo scopo di ottenere un impiego. Anche le grandi occupazioni però della contessa Elisa Navaredo si riducevano a questo, di trovare il modo di fare il passo più lungo della gamba, di fare insomma abbastanza buona figura a dispetto delle ristrettezze economiche che l'angustiavano. E, bisogna poi renderle questa giustizia, tutto sommato, ci riusciva benino.

Con un certo buon gusto che le era particolare, sapeva far comparire e scomparire le guarnizioni, i pizzi e i fiori dalla veste al cappellino, e viceversa; sapeva bravamente, con due abiti vecchi, farsene uno nuovo, e quanto meno la stoffa conservava il colore, la contessa ci rimediava accorciando tanto più le maniche e abbassando lo scollato. Teneva una cameriera, la Beppa, che faceva anche da cuoca, e il cocchiere serviva in tavola, annunciava le visite, tostava il caffè, portava l'acqua, puliva le stanze, e tagliava la legna per la stufa della sala, che si accendeva solamente la domenica, giorno di ricevimento in casa della Contessa, la quale, in tal modo, mangiando pochino sette giorni alla settimana e studiando l'arte di parere dodici mesi all'anno, poteva darsi ancora delle arie con una rendituccia di sei o sette mila lire: e quando Lord Palmerston, era questo il nome del suo cavallo, non pativa di reumi, poteva anche fare le visite nella sua carrozza: un brougham stinto e sdruscito, ma che aveva dipinto sugli sportelli uno stemma così grande da parere l'insegna d'un tabaccaio.

Il conte Eriprando degli Ariberti di rendite ne aveva ancor meno; ma, in compenso, era più ricco d'amore.... fors'anche perchè la contessa non lasciava mai che lo spendesse tutto. Il loro sangue egualmente puro scendeva all'uno e all'altra attraverso un lungo ordine di magnanimi lombi: quello del conte però era molto più caldo, più abbondante, più vigoroso di quello della contessa: ma la differenza si spiega subito coll'avvertire che lui non aveva ancora ventitrè anni, mentre lei ne aveva contati fino a trentadue.... e poi si era fermata lì, senza tirare più innanzi.

Si erano alzati tutti due dal canapè, il conte però prima della contessa; quest'ultima tenendosi stretta al braccio del giovanotto e lasciando che egli facesse un po' di forza per sollevarla; e sebbene dal canapè all'uscio non ci fossero che due passi e mezzo da fare, ella percorse quel brevissimo tragitto appoggiata, abbandonata quasi di peso su lui che la guardava in un certo modo che voleva dire “se tornassimo indietro, cara, a sederci un altro pochino?...„

— No, sai; bisogna, adesso, che tu vada via.

— Ancora cinque minuti soli....

— No, no: è tardi, e domattina mi devo levare per tempo.

E la contessa Elisa, per far intendere al conte Eriprando che quella volta poteva proprio lasciare ogni speranza, tirò indietro il sorriso languido, si fece subito seria seria, e gli si levò d'addosso, mentre colle due mani accomodava i capelli sulla nuca, che le si erano scomposti.

— Cattiva!

— Ma, sai, bambino, che con tanta gente che ho conosciuto, un egoista come te, non l'ho mai incontrato?

A queste parole il conte Eriprando fece il muso; ma la contessa Navaredo, quasi stizzita, tirò innanzi senza badargli:

— Per te non dovrei nè dormire, nè mangiare, nè uscire, nè far nulla.... altro che filare il sentimento!

— Ti domandava cinque minuti soli, soli....

— È dalle dieci che mi domandi cinque minuti; e abbiamo fatto venire la mezzanotte.... E poi, ho già suonato; c'è la Beppa di là che ti aspetta per farti lume e io non posso soffrire les commérages delle anticamere.

Le anticamere di casa Navaredo si riducevano al pianerottolo della scala: ma, come metafora, poteva passare.

— Dunque, alle dodici in punto ci troviamo alla stazione?

— Sì, caro; ma ricordati che non voglio altre lune.

Il giovanotto promise di no, e la contessa, che con una mano avea già mezzo aperto l'uscio del salotto, lo chiuse di nuovo, e si baciarono un'ultima volta.

— Sei contento?

— Adesso sì.

— Dunque va, da bravo. Ricordati domattina di telegrafare all'albergo, perchè ci tengano pronte le camere.

— È già tutto fatto.

— Grazie....

— Prego....

L'uscio fu aperto: la Beppa era là, sul pianerottolo, col lume in mano e colla faccia sbianchita e ingrugnata dal sonno.

— Buona sera, signora contessa.

— Buona sera, signor conte. A domani.

— A domani.

La Beppa scese innanzi adagio, giù per la scala, ripida, stretta e oscura, tenendo alto il lume col braccio levato.

Quando fu sulla porta di casa, Ariberti tolse dalla tasca interna dell'abito un portasigari di pelle nera con una vistosa corona di conte nel mezzo: poi, dal portasigari, un virginia: ne cavò la paglia che ripose nell'astuccio, lo accese al lume della Beppa, tirò in fretta due o tre sbuffate di fumo per vedere se andava bene, e dopo, dal medesimo portasigari, levò un mozzicone che porse alla donna:

— To'... lo darai a Menico.

Menico era il cocchiere, il cameriere, il porta acqua, il caffettiere, lo spaccalegna di casa, e quando aveva due minuti di tempo, anche l'amante della Beppa.

— Grazie, signor conte!

Bon dì.

— Serva sua.

E la Beppa, sbatacchiata la porta dietro al giovanotto, tirò tanto di catenaccio.

Sott'acqua: racconto

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