Читать книгу Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 4
CAPITOLO II.
ОглавлениеIl conte Eriprando degli Ariberti quella notte non aveva sonno: invece si sentiva in cuore una gaiezza insolita e nelle gambe una elasticità, una voglia di camminare che lo fece andare a zonzo per più d'un'ora. La gioia tutta nuova che lo aspettava al domani, quel viaggio con Elisa, quelle due o tre settimane che passerebbe con lei in riva al mare, lo rendevano l'uomo più beato della terra.
In quell'azzurro c'era però un punto nero; anzi, per essere esatti, bisogna dire che ce n'erano due, quantunque uno più piccino dell'altro.
Il punto grande, lo scarabocchio, era quella musona della contessina Cecilia; il punto piccolo, quello screanzato di Gegio. Da un'altra parte, sola con lui, la contessa Elisa non ci sarebbe andata, a Venezia: ella vi andava per tener compagnia alla figliuola, e per la salute del suo nipotino: ed anzi, quando lui e lei, negli amorosi colloqui delle serate primaverili, vagheggiavano quella giterella come il sogno incantevole d'una notte d'estate, tutte le loro speranze erano sempre riposte nelle scrofole del bambinello.
Dopo d'aver girato in su e in giù, per straducce buie e deserte, alla fine dovette pure decidersi a rincasare. Rallentò il passo, e rimpianse il mozzicone che aveva donato a Menico, perchè il suo virginia era consumato.
Il conte Eriprando abitava molto lontano dalla contessa Navaredo, in una viuzza modesta, in una casetta dall'aspetto meschino e dove il fitto, che si pagava ogni semestre, era proprio una miseria. Quando vi giunse, prima di metter la chiave nella toppa, levò il capo e guardò una finestrella del secondo piano: era spalancata e ne usciva uno sprazzo di luce.
— La mamma è ancora in piedi, — disse fra sè, nell'aprire.
Non poteva sbagliare. Il lume non era certo quello della serva, perchè la contessa degli Ariberti serve non ne aveva, se non si vuol contare una donnetta che andava da lei la mattina a sbrigare le faccenducce più umili.
— Sei ancora alzata? — disse il conte entrando nella stanza della mamma.
La vecchierella era intenta a stirare sopra una gran tavola di legno greggio, e tutto all'intorno, sul canapè, sulle sedie, sul cassettone, si vedevano, disposte con cura, delle mutande, delle calze, delle camicie, dei solini e dei polsini finti: grande amarezza questa del conte Eriprando, il quale non vedea l'ora d'esser capo-ufficio per avere le camicie coi polsini e il collo tutto attaccato. Sua mamma, poveretta, aveva tentato di fargliene una: ma ci perdette intorno una quindicina di giorni senza potervi riuscire: il solino, non c'era caso, faceva borsa da una parte o dall'altra!....
Nella stanza piccola, bassa, faceva un caldo da soffocare, sebbene la finestra fosse aperta ma di fuori c'era scirocco, e di dentro due lucerne di petrolio infocavano la stanza colla loro luce sfacciata e rossastra. Eriprando cominciò subito a sudare; invece la vecchiarella secca, piccina, che lavorava in quel forno dalle otto della sera, non sudava affatto.
— Mi trovi alzata perchè non ho sonno; già, con questo caldo, anche a voler dormire, non si può. E poi, ti occorre la roba per domattina, e io, lo sai bene, preferisco andare a letto tardi, piuttosto di essere costretta a levarmi presto.
La buona donna mentiva adesso col suo figliolo. Sapeva bene lei che, per quanto fosse andata tardi a letto quella sera, avrebbe sempre dovuto alzarsi per tempo il giorno dopo. Il viaggio del contino la affaticava da un mese. Aveva dovuto provvederlo di biancheria e riaccomodargli quella vecchia: aveva dovuto pulire, sbattere, rammendargli i panni, e solamente attorno all'abito nero ci aveva sciupati sette giorni e perduto un occhio e mezzo. Ma, e d'altra parte come si fa?... Il conte Eriprando degli Ariberti, partendo da Vicenza per le bagnature colla contessa Elisa Navaredo e la contessina Cecilia D'Abalà, non poteva andare come un pitocco qualunque.
Gli Ariberti erano una delle più antiche famiglie di Vicenza: ed è forse per questo che la troviamo così vicina a morire di consunzione. Il padre del contino Eriprando, il conte Eutichiano, era stato un impiegatuccio a duemila cinquecento; e in un momento di debolezza e con tre semestri di fitto in arretrato alla gola, aveva commesso un matrimonio morganatico, come diceva lui, colla figlia della sua padrona di casa, l'Orsolina, che fu poi così compresa delle illustri nozze, alle quali era stata assunta, da camminare in punta di piedi, quando si trovò gravida, per paura di scomodare il nobile rampollo che il conte suo marito s'era degnato di affidarle per la gestazione. Con legittimo orgoglio del conte Eutichiano, che vedeva così continuata la nobile prosapia, l'erede (erede per modo di dire, che non c'era proprio niente da ereditare) fu un maschio e subito gli misero nome Eriprando. Era l'Eriprando nono o decimo della casa, e tutti i predecessori che portarono prima quel nome, in sei o sette secoli, avevano avuto in mano, l'uno dopo l'altro, i destini della città.
Per l'Orsolina, il conte figlio era qualche cosa di sacro. All'affetto materno ella univa nel suo cuore la religione, il culto che professava all'ultimo discendente degli Ariberti, e facendogli da serva, credeva in buona fede di non fare nulla più del suo dovere.
Il conte Eutichiano morì quando il bambino non aveva più di tre o quattro anni. Alla vedova ed al pupillo non rimase altro per vivere che la magrissima pensione del marito, la biancheria e il mobilio bastante per quattro stanze: cominciarono col subaffittarne due, e n'ebbero così un altro cespite di entrata.
Mamma Orsolina si tiranneggiava, si misurava, come si suol dire, il boccone di pane, e tutto ciò perchè Prandino non mancasse di nulla. Lei faceva colazione con una fetta di polenta, se ce n'era: ma Prandino, quando andava a scuola, avea il suo canestro per la merenda sempre ben fornito. L'Orsolina la si vedeva, a ricordo d'uomo, con una vesticciuola di percalle a quadrettoni caffè, linda, pulita, ma tutta a rattoppi, che pareva un mosaico: invece il camiciotto di Prandino era novo fiammante, la biancheria fina, le scarpette lucide e scricchiolanti.
Quando venne il momento di dover pensare ad una professione pel contino Eriprando, la buona donna si sentì stringere il cuore; ma, vedendo anche lei che, senza far nulla non avrebbe potuto vivere, volle almeno ch'egli s'avviasse all'avvocatura.
Lo fece studiare..... e trovò modo, Dio solo sa con quanti stenti e con quanti sacrifici, di mantenerlo all'università: ma quando già era dottore, Prandino stesso comprese da sè che anche colla laurea avrebbe finito copista in qualche studio: il genio forense gli mancava del tutto. Allora, facendosi più sentito il bisogno di guadagnare, si decise anche lui a trangugiare l'amaro calice e cercò un impiego nelle ferrovie. Adesso che lo abbiamo imparato a conoscere, aveva già mandato le sue carte, aveva passato benino gli esami.... ma continuava ad aspettare l'impiego, che si prometteva e non arrivava. Mamma Orsolina, del resto, non disperava. Era sicura che col suo nome Prandino avrebbe fatto una bella carriera e figurandoselo commendatore e capo-traffico, non lo vedeva, per il momento, alla vendita dei biglietti ed alla spedizione delle merci. Certo che se il parentado degli Ariberti lo avesse voluto aiutare.... ma l'Orsolina non si lamentava di nessuno. I parenti non le erano venuti incontro, quest'è vero: ma i parenti, si sa bene, per queste mosse hanno sempre le gambe troppo corte, e poi nemmeno lei li era andata a cercare. D'altra parte era troppo buona per sentire dell'odio, dell'invidia, o solamente dell'amarezza, per alcuno: ella sopportava tutto in santa pace, ed era più che soddisfatta, felice, quando le domeniche d'estate andava in Campo Marzo, tutta chiusa nella sua mantelletta di seta nera, in compagnia della signora Luciana, una zitellona che teneva in affitto da molti anni le due disponibili delle quattro camerette, e le poteva dire, indicandole i più splendidi equipaggi che passavano al trotto: — quella signora là, è la marchesa tale, seconda cugina di Eriprando: — quell'altro signore è il conte così e così, terzo cugino di Eriprando: — adesso arriva il principe Caio, fratello d'un cognato d'una cugina di Eriprando — e con queste indicazioni la durava per tutto il passeggio, e la domenica vegnente ricominciava da capo, senza che mai ne dimenticasse un solo!... Quando poi rientrava in casa, dopo il corso di Campo Marzo, era tutta beata: le sue stanzette le sembravano più grandi, più lucente il cassettone, più morbido il canapè: e a cena, la sua polenta asciutta le parea dolce e saporita come un marzapane.
Mamma Orsolina, anche quella notte continuava nel suo lavoro, e il conte Eriprando, secondo il solito, quantunque del bene gliene volesse, non si sentiva rattristare dallo spettacolo di quella vecchiarella che si affaticava per lui. Era un po' viziato l'amico: era stato avvezzo a esser servito: e poi, colla propria coscienza si accomodava facilmente, pensando che s'egli l'avesse anche sgridata, tanto e tanto quella buona donna non avrebbe voluto intender ragioni.
Non le disse nulla dunque, ma invece si mise anch'egli a far qualche cosa. Prima di tutto si levò l'abito nero e tenendolo sollevato con una mano, coll'altra ne cavò, dalle tasche, il portasigari, un portafoglio di cuoio con una corona d'argento nel mezzo, dono della contessa Navaredo: un fazzolettino di battista che aveva pure una gran corona da conte ricamata in un angolo, capolavoro di mamma Orsolina, e un paio di guanti scuri, piegati a mezzo. Tutta questa roba la collocò in ordine, sul tavolino, e poi cominciò a ripulir l'abito ben bene.
La contessa Elisa usava di nascondere colla cipria l'impertinenza dei capelli bianchi, che qua e là cominciavano a comparire nell'ampio volume della chioma bionda, e perciò, dopo i loro colloqui, il conte Eriprando rimaneva tutto bianco di farina di riso. Anche quella sera, mentre colla spazzola dissipava le amorose tracce, un profumo di cipria all'opoponax lo avvolse come in una nuvola, sollevandogli nella mente, nel cuore, nei sensi, dei ricordi, che lo facevano vagar lontano da quella povera stanzetta, fino al canapè dei cinque minuti.
Quando l'abito fu spazzolato, il conte Eriprando lo posò delicatamente sul divano, piegandolo in quattro, colle fodere fuori. Quell'abito avea da sostenere una gran parte alle bagnature; figuratevi che, come si suol dire, era figlio unico di madre vedova!... Poi, venne la volta dei guanti; prese un piccolo calamaio d'osso, una penna, e, sedutosi, sempre in manica di camicia, vicino a una lucernetta, cominciò adagio adagio e con molta pazienza, a colorir coll'inchiostro dove la pelle era un po' consumata.
Il conte e la contessa erano così occupati da una mezz'ora, quando dopo un “si può„ che ebbe risposta affermativa, s'aperse l'uscio che dava sulla scala, ed entrò nella stanza una figura nera, lunga, ossuta, tanto da non potersi indovinare, a prima vista, se fosse un prete o una donna. In mano aveva un bicchiere, pieno, per due terzi, di caffè.
— A lei, contessa Orsolina; ho fatto il caffè fresco e gliene porto una mezza chicchera.
La signora Luciana non aveva mancato mai, in tanti anni di fitto, di chiamare contessa l'Orsolina: anzi ci teneva di rimbalzo a tutta quella aristocrazia, perchè già i titoli, anche quando non cavano la fame, riempiono la bocca.
Il conte Eriprando salutò la signora, senza scomporsi, con un inchino cordiale e dignitoso a un tempo, e continuò tranquillamente a tingere i guanti.
— Ne vuoi due dita? — chiese mamma Orsolina rivolgendosi al figliuolo.
— Grazie, mamma. Dammene una goccia in un bicchier d'acqua.
L'Orsolina uscì, e rientrò subito con una ciotola di cristallo quasi piena d'acqua fresca; si avvicinò al suo ragazzo, e versò tanto caffè nella ciotola, finchè questi, che aveva levati gli occhi, fe' cenno col capo che bastava.
Anche la signora Luciana, quando tutti ebbero terminato di bere il caffè, prese, senza dir nulla, un ferro dal fornello, e, da un altro lato della tavola, cominciò a stirare dei fazzoletti.
— La signora Luciana non ha mai sonno!
— Lo creda, signor conte, io dormo d'inverno anche per l'estate.
— Hum! Chissà.... chissà che foco ci brucerà sotto a tutta questa insonnia!...
— Oh! giusto!.... Che fuoco la vuole che ci bruci sotto, caro lei!....
Luciana, ad onta dei quarant'anni sonati, anzi, forse appunto per questo, se la godeva un mezzo mondo quando il bel giovinotto le toccava certi tasti delicati.
— Io non ne so nulla: però i miei sospetti cadrebbero sopra un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante, che vedo spesso girellare da queste parti con certe arie da conquistatore....
— Mi fa la grazia di tacere? Mi fa la grazia di non inventarne sempre delle nuove, lei? Ieri era un avvocato, oggi è un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante!.... Quasi che non ci fossero altre donne per la casa, e più belle di me!....
— Via, via, signora Luciana: lo sa anche lei, lo sa anche lei di essere amata: e ne gode, e si vede:
“Quando nell'ombra de' suoi negri occhioni
Improvvise balenano e procaci
Le cupidigie che...„
— Zitto là!.... non dica sciocchezze!.... e vada a dormire.... che domani.... Domani dev'essere una gran giornata per lei, ma... acqua in bocca! Acqua in bocca, chè se no, ce ne sarebbero degli altarini da scoprire!....
— Sa, — continuò l'altro, che invece di essere spaventato, si sentiva lusingato da quelle minacce, — sa, signora Luciana, che sto già preparando de' versi per le sue nozze?
“Dall'arida cenere
Rinasce il mio core,
Ritorna la cetera
Ai canti d'amore.„
— Grazie tante, ne faccio senza de' suoi versacci, tutti pieni di sporcizie....
— Le tue carezze le conosco io solo, continuò l'altro facendo gli occhiacci.... — E il tuo guancial per me non ha segreti....
— Le dico di smettere!....
— Guai se potesse dir quel letticciuolo,
Se potessero dir quelle pareti....
— La vuol finire, sì o no? Prenda il suo lume, i suoi guanti, e vada a dormire subito, subito, subito!....
Così dicendo, la signora Luciana, rossa come un peperone, con certe chiazze che non erano tutto pudore, si era buttata addosso al giovanotto, per farlo tacere, per ispingerlo fuori della stanza, e intanto si godeva a stringergli le mani e le braccia. Il conte Eriprando continuava a ridere e a recitare i versi dello Stecchetti, per irritare sempre di più la signora Luciana; ma poi, siccome era tardi, prese il lume, i guanti, che avea involtati in un giornale, e s'avviò davvero per andare a dormire. Mamma Orsolina rideva a quelle scene, senza capirne nulla, tutta allegra per l'allegrezza del suo figliuolo:
— Aspetta, Prandino!... Vengo anch'io!...
E lasciata la signora Luciana a brontolare e a finire la camicia che aveva già mezzo stirata lei, entrò col figlio nell'altra camera.
Chiuse la finestra, rimboccò le coperte del letto; uscì e tornò con un bicchier d'acqua fresca che pose sul tavolino da notte, e poi, finalmente, se ne andò dalla camera, ma dopo aver salutato e guardato il suo figliuolo con una occhiata nella quale c'era dentro un bel bacione, ch'ella, intimidita, non osava dargli.
Prandino aveva cominciato a svestirsi quietamente, colla cura di chi non vuole strapazzare la propria roba. Piegò il panciotto e i calzoni, e involtò la cravatta di raso nero nello stesso numero del Giornale di Vicenza, dove c'erano i guanti. Fatto ciò, perdette ancora del tempo parecchio a lucidare la sua catena di similoro; una catena che credevano tutti, anche la contessa Navaredo, fosse d'oro massiccio. Levò quindi dal cassettone un cartoccio, nel quale stava involtato un portafogli unto e bisunto, il predecessore di quello che gli aveva regalato l'Elisa, e tornò a contare, operazione che da una settimana faceva regolarmente tutte le sere, il danaro che c'era dentro.
Non c'era verso: erano dugento ottanta lire, non una di più, non una di meno!... Allora tornò, come tutte le altre volte, a rifare i suoi calcoli: tanto pel viaggio, tanto per la camera, tanto pel vitto, pei bagni, per le acque, pei traghetti... Ne aveva per dodici giorni, a far molto! Fossero state almeno trecento, avrebbe avuto un po' di largo!.... Alla fin fine viaggiava con signore, e colle signore si spende sempre di più... poi c'era quel monello di Gegio, il quale si metteva a piangere dalla sete e voleva bere tutte le volte che vedeva un caffè.... poi c'era suo cugino Badoero, sicuro, che lo avrebbe condotto in società e che indirettamente lo avrebbe fatto spendere anche lui.
Bisogna sapere che su questo cugino Badoero il conte Eriprando ci faceva molto assegnamento per darsi arie a Venezia. Ne aveva discorso molte volte colla contessina Cecilia, e non parlava mai delle bagnature colla contessa Elisa, senza ch'egli non le promettesse di presentarglielo. Per dire la verità si conoscevano appena di nome, tanto da scambiarsi i biglietti di visita ogni capodanno e nulla di più. Ma, non importa, erano parenti lo stesso: e il Badoero, oltre di appartenere ad una gran famiglia, — figuratevi che fra maschi e femmine contavano in quella casa più di una dozzina di corni, corni ducali, s'intende, — oltre dunque di appartenere ad una gran famiglia era anche un riccone sfondolato. Ma pur troppo, per quanto il cugino Badoero fosse ricco, le ducento ottanta lire del conte Eriprando non ne volevano sapere di diventare trecento!...
E queste sue pene, dopo d'essersi levati gli stivali prima di saltare nel letto, le confidò tutte con un'occhiata piena di passione ad una fotografia portrait-album, ch'egli teneva sul suo tavolino da notte appoggiata a un elegante cavalletto di legno intarsiato.
In quel ritratto la contessa Elisa dimostrava una diecina d'anni di meno, ragione per cui tanto lei quanto il conte Eriprando lo trovavano somigliantissimo.
Era stata presa di profilo come dicono i fotografi: in piedi, a mezza figura. Aveva i capelli sciolti che le scendevano giù per le spalle e, fra le mani, teneva un libro aperto, che non doveva essere un libro di devozione.
Era appoggiata al davanzale d'una finestra, più che raccolta, assorta nella sua lettura: e la fotografia, con effetto di chiaro di luna, aggiungeva dei riflessi romantici a quel profilo delicatissimo di figuretta bionda e sentimentale.
Adesso il tempo avea giocato dei tiri assassini alla Contessa. Il collo le si era un po' ingrossato, le guance cominciavano a diventar flosce, le palpebre, specialmente la mattina. Le avea rosse e gonfie: la pelle scuretta, la fronte un po' rugosa, e quando apriva la bocca si vedeva qualche segno di lutto fra i mascellari: già il suo riso non era più limpido, squillante, argentino e breve; s'era fatto troppo lungo e sgangherato, e la finezza della vita era sciupata da un tantino di pinguedine. Di tutte queste disgrazie il conte Eriprando non se ne accorgeva: per merito della cipria, del belletto, della glicerina, del cold-cream e della crème froide, ma sopratutto dell'amore, egli la vedeva sempre bionda, bianca, sottile, con alcun che di vaporoso, di etereo, di virginale nell'espressione, soavemente melanconica del volto ed in tutta la linea elegante della personcina; tal e quale com'era là in quel suo ritratto... ch'ella da dieci anni continuava a far riprodurre.
Quella dolce contemplazione durò qualche tempo: poi, finalmente, si decise, spense il lume e saltò nel letto. Però anche al buio, la contessa Elisa, coi capelli sciolti, col libro in mano e tutti gli effetti del chiaro di luna appariva viva dinanzi agli occhi del nostro innamorato!... Com'era cara, com'era bella, com'era buona! — ed era sua!.... Quante felicità avrebbe godute con lei in quelle due settimane.... al Lido di giorno.... in gondola di sera..., e poi.... — Peccato ch'egli non avesse almeno trecento lire, e che non si potessero mandare al diavolo quell'uggiosa della contessina Cecilia e quello sbarazzino di Gegio!