Читать книгу Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta - Страница 5

CAPITOLO III.

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Otto o nove anni addietro, quando il conte Eriprando d'adesso era appena Prandino, Elisa Navaredo, oltre al figurare come una donnina bella ed elegante, quale l'abbiamo veduta nel portrait-album, era per di più una dama elegante, che dava molto a parlare alla cronaca cittadina.

A Prandino, quella bella signora, le chiacchiere, i desideri, gli scandali che la circondavano, fecero subito una grandissima impressione. Egli non parlava mai della Contessa, ma ci pensava sempre, giorno e notte; e tutti i suoi castelli in aria erano pieni di lei, della sua grazia, della sua bellezza e de' suoi fascini provocatori. — Oh! quando fosse diventato un grand'uomo!... — qual è il ragazzo che non sogna di diventare un grand'uomo?.... — quando fosse diventato un grand'uomo, allora le confesserebbe d'amarla... e l'Elisa non gli direbbe certo di no!....

Tutto il suo avvenire egli lo vedeva in lei e per lei, e tanto s'infervorava col pensiero fisso nella contessa Navaredo che, alle volte, facea delle lunghe passeggiate, solo soletto, fantasticando attorno a quella donna, fingendo di averci insieme dei colloqui d'amore o delle scene di gelosia, e terminava sempre coll'essere lieto o triste per davvero, a seconda che la sua immaginazione lo figurava amato o deriso.

Quando la incontrava, arrossiva tutto, sebben l'Elisa non lo guardasse neppure: tutte le domeniche, e le altre feste comandate, andava in Duomo, alla messa delle dieci, per vederla, per trovarsi dove era lei.

Ma, prima di quelle messe, sciupava tutta la mattina lavandosi e fregandosi tanto da spellarsi per diventare più bianco.

Rifaceva per una decina di volte almeno il fiocco della cravatta, perdeva un'altra mezz'oretta intorno alla scriminatura, e, proprio in mezzo alla fronte, s'impiastricciava un riccio alla rubacuori, che pareva un punto interrogativo.

Dopo d'averla guardata di lontano, per tutto il tempo che durava la messa, usciva fuori in fretta dalla chiesa e s'imbrancava, fermandosi sulla porta, cogli altri adoratori del bel sesso, per farsi vedere, e un tantino per farsi anche ammirare da lei. La Contessa, figurarsi!, gli passava dinanzi dritta, lesta, senza nemmeno accorgersi di quel bamboccione impomatato per amor suo, mentre vedendosela così vicina, a Prandino invece gli tremavano le gambe, gli si scoloriva la faccia, e benchè davanti allo specchio avesse fatte molte prove, tuttavia là non gli riusciva mai bene di riverirla levandosi il cappello con un largo giro del braccio e in tre tempi, salutare, inchinarsi e stringere i tacchi. Per lo più, quando si decideva a scoprirsi, la contessa Navaredo era già passata.

Però, soffriva spesso dei dispiaceri, delle gelosie, delle amarezze, che lo rendevano proprio infelicissimo. Bastava che, mentr'egli la pedinava di lontano, la vedesse accompagnarsi con qualcuno, perchè al povero Prandino gli si facesse nera l'esistenza, come il carbone. Allora s'imbestialiva, e nel suo furore a freddo, la copriva di vituperi, la chiamava leggera, civetta, e si figurava, quando sarebbe stato un grand'uomo, di farsi amare dalla regina per farle dispetto.

Del conte Navaredo, il marito della contessa Elisa, Prandino non soffriva gelosia: invece, quando si trovava con lui, era preso da una gran soggezione.

Un giorno, che lo incontrò, facendo una visita, si sentì confuso, impacciato, sconvolto, quasichè l'altro gli leggesse in fronte il segreto dei suoi desideri e della sua passione.

Per fortuna di Prandino, il conte Navaredo morì presto di un accidente, e non si potrebbe ridire la gioia dalla quale fu invaso alla notizia di questo avvenimento il buon ragazzo, del resto così mansueto e delicato di cuore, da scappar via dalla cucina inorridito quelle rare volte che la contessa Orsolina poteva abbandonarsi al lusso di tirare il collo ad un magro volatile.

Ma ben presto, appena finito il lutto grave, egli la scontò a caro prezzo quella sua gioia cattiva. Ogni giorno, a Vicenza, si dava in moglie la Contessa a qualche nuovo adoratore, e quelle chiacchiere tormentavano, perseguitavano il povero Prandino, che arrossiva e impallidiva tutto in una volta, con turbamenti strani e angosciosi. Allora leggeva Leopardi, piangeva, e la chiamava Aspasia.... quasi che lei ne avesse colpa! Più di ogni altro, poi, lo metteva fuori di sè un capitano di cavalleria, un riccone, il marchese Del Mantico, che teneva sempre dietro all'Elisa, come la sua ombra.

In tal modo, avvelenandosi senz'alcun costrutto l'esistenza e godendosi con poco sugo delle gioie immaginarie, il nostro Prandino diventò a poco a poco il conte Eriprando: ma l'ideale del ragazzo rimase pur sempre l'amore e il dolore dell'uomo.

Aveva vent'anni, quando si fece presentare in casa Navaredo. Era goffo, timido, impacciato; tutti lo deridevano senza pietà, e la Contessa più di tutti. Solamente due anni dopo, quando il marchese Del Mantico fu promosso a maggiore e cambiò reggimento, solamente allora il conte Eriprando cominciò ad essere preso in considerazione, ed ebbe in regalo la fotografia, portrait-album, con effetto di chiaro di luna.

Però egli lasciò correre del gran tempo, prima di spiegarsi intorno a' suoi sentimenti. Non osava.

Tutti i giorni che si recava dalla Navaredo, giurava a sè stesso di aprirle il cuore, di spiattellarle la sua brava dichiarazione; — ma quando era là, gli mancava il coraggio e la parola e apriva la bocca soltanto quand'era tornato via, per darsi del balordo, dell'imbecille e della marmotta.

Egli non la lasciava mai, taceva molto e la guardava sempre. Qualche volta la contessa Elisa, che aveva capito quanto foco covasse dentro per lei quel bel giovanotto balbettante, confuso, timoroso, che le riempiva la casa di amorini e perdeva tutto il giorno a dipingerle delle corone da contessa sui ventagli, le scatole e il parasole, qualche volta si godeva a metterlo alle strette; ma lui zitto, ammutoliva subito, abbassava gli occhi e tutto rosso parea rannicchiarsi nel suo abito nero, come una lumaca dentro al guscio.

Ma si sa bene, tira, tira, la corda si rompe.

Nell'autunno prima del viaggio di Venezia, il conte Eriprando era stato, come il solito, invitato dal suo compare a passar un mesetto in campagna: fortuna volle che la contessa Elisa prendesse appunto in affitto un villino nelle vicinanze e.... sfido io! si vedevano sempre, facevano delle lunghe passeggiate insieme, sedevano stanchi, soli.... e senza alcun sospetto sotto l'ombra di un albero o fra i cespugli delle giovani quercie, e accadde.... quello che da un pezzo doveva accadere. Un giorno, ch'egli le avea detto a memoria il Guado dello Stecchetti, quando l'ebbe finito, colla scusa che questa poesia era carina tanto, concluse dicendole che anche lei era bionda, bella e che lui l'amava, che da molto tempo

“Glielo voleva dire e non l'osava.„

Elisa lo ascoltò senza punto punto adirarsi; ma finse di non capire che l'amico le parlasse sul serio.

Prandino allora ripetè l'assalto, anche più scopertamente; ma la Contessa d'un tratto pareva avesse perduto il suo spirito, e continuava a non capir nulla. Allora, quell'altro le disse, tremando, che le voleva bene, e lei a rispondergli che mentiva: e il giovanotto a ripeterle ch'era innamorato fin da quando, si può dire, era ancora un ragazzo e che la pregava, la scongiurava d'esser buona, di lasciargli intendere che anche lei non era insensibile e che di tutto quel gran bene gliene ricambiava un zinzino.

— Eppoi?.... quand'anche glielo dicessi?.... A che pro?.... Tanto e tanto, sarebbe sempre la stessa cosa.

L'Elisa disse queste parole lentamente, facendosi seria, quasi mesta, alzando gli occhi al cielo con sospiri, con fremiti, che la scuotevano tutta.

Prandino che, sparata la bomba, sentiva crescere il coraggio coll'odor della polvere, le si fece più vicino e le prese le mani: ma lei non volle, si ritrasse, si schermì, fe' forza per liberarsi dalle strette del giovane; in fine, terminò col tagliare il male nel mezzo, e tirò via una mano, l'altra abbandonando a quelle carezze insensate.

Ariberti, preso l'aire, parlava adesso per tutto il tempo che aveva taciuto. Non le domandava che una parola, un segno, un indizio qualunque che gli facesse capire ch'ella gli voleva un po' di bene.

— E dopo?.... Quand'anche glielo lasciassi intendere?.... Già sarebbe sempre la stessa cosa.

E l'Ariberti ad insistere, a ripeterle che lo renderebbe l'uomo più contento, più beato del mondo; ch'egli non le domandava la sua pace, ch'egli non avrebbe turbato la sua quiete, la sua coscienza: ch'egli da lei non voleva altro che un sorriso, che una parola, e dopo avrebbe taciuto di nuovo, come taceva da tanti anni: ma che ne sarebbe stato così lieto, così superbo, perchè era solamente un po' del suo cuore ch'egli voleva ottenere, perchè egli desiderava soltanto di dominare ne' suoi pensieri, perchè egli non aspirava se non al possesso dell'anima sua, perchè l'amore ch'egli sentiva per lei, potente, appassionato, era però alto, era però nobile e puro, come l'amianto che la fiamma purifica e non consuma.

L'Elisa a tanta retorica, sempre con la testa china, sempre seria, sempre mesta, cogli occhioni sempre fissi, immobili, quasi la tenesse assorta l'idea d'un lontano pericolo, continuava a ripetere, come ritornello:

— E poi?.... Quand'anche glielo lasciassi capire?.... A che pro?.... Sarebbe poi sempre la stessa cosa!....

Il giorno dopo pioveva, e la passeggiata non si potè fare.

Non tralasciarono però di vedersi. Il conte Eriprando andò a farle visita e trovò la Contessa nel salotto terreno, che ricamava certe strisce di panno, destinate col tempo a diventare, unite insieme, un tappeto: ma che intanto si potevano paragonare alla famosa tela di Penelope, non che per fatto loro avessero costretto nessuno ad aspettare, ma perchè, invece, gli adoratori della Contessa, uno dopo l'altro, dovevano tutti godersele sotto il naso, finchè durava l'amore.

Il salotto terreno, con un divano, un tavolino rustico e due o tre seggiole di paglia in tutto, era una specie di sala di passaggio, con due porte vetrate, l'una di faccia all'altra. La prima dava nel giardino e avea di fronte un fitto capanno di mortella intrecciata colla vite selvatica: la seconda metteva invece sul piccolo orticello della villetta.

Era una giornata d'autunno, bigia, uniforme, senza uno spacco di cielo fra quella tinta squallida, infinita, senza neanche il fantastico rincorrersi delle nubi che si accavallano minacciose.... Era una giornata bigia, uniforme, monotona.

La pioggia col suo susurro lento e continuo, in quel silenzio di ogni anima viva, sembrava avesse isolato il salotto lontano dal mondo, fra i riflessi del verde delle piante, dell'erba, delle foglie, fatto più cupo dall'acqua che cadeva; quella pioggia, quella luce scialba, il lontano brontolìo del tuono mettevano addosso una melanconia, una tristezza, che rendeva più dolci e più desiderate le commozioni di una confidenza intera e tranquilla.

— Sa?... non lo aspettava oggi, con questo tempaccio.

— Quando son partito da casa, sembrava che il cielo si rischiarasse!

— Davvero?

E la Contessa lo guardò in modo, che l'altro dovette arrossire. Gli era sfuggita una goffaggine, e se ne accorse subito; ma, sempre, il primo momento ch'egli si trovava con Elisa, provava un impaccio, una soggezione, che non potea superare.

— Iersera, ho ricevuto una lettera da mia figlia.

— Buone nuove?

— Sì, buonissime.

— E laggiù come si trova?

La contessina Cecilia, la chiamavan così per un riguardo alla mamma, aveva sposato l'avvocato D'Abalà, sotto-prefetto a Maremma.

— Non troppo bene, anzi finchè a mio genero non daranno un'altra destinazione, fa conto di ritornare a star con me.

A questa notizia l'Ariberti sorrise; ma a denti stretti.

— Ci son dei saluti anche per lei.

— Grazie mille, Contessa.

L'Elisa, a questo punto, cercò nel cestino, ma invece della lettera di sua figlia, le corse fra mani un'altra lettera. Accortasi dello sbaglio, arrossì e, in fretta, se la cacciò nella tasca della veste.

Eriprando, che aveva scorto sulla busta lo stemma del marchese Del Mantico, fece un muso così lungo tutto ad un tratto, in modo che la Contessa non potè non accorgersene.

— Mi ha scritto anche il Del Mantico: e m'ha detto che, in settimana, verrà a trovarmi.

Prandino impallidì.

— E.... lei.... che cosa gli ha risposto?

— Che lo vedrò molto volentieri.

Ariberti si sentì opprimere il petto dall'affanno. Volle parlare, ma non potè dire due parole. Finalmente dopo un buon tratto che durava la scena muta, si alzò e stese la mano alla Contessa per accomiatarsi.

— Va via?... Così presto?... E con questo tempaccio?...

— Ci son venuto anche coll'acqua.

— Ma allora, secondo lei, pareva che il cielo si rischiarasse.

E l'Elisa tornò a ridere fissandolo, con un riso ch'era tutto un'amabile canzonatura.

Egli continuava sempre muto, sempre con tanto di muso a stenderle la mano, la Contessa gliela strinse: poi, con una certa violenza, lo tirò vicino, e se lo fece sedere sopra una seggiola accanto.

— Andiamo, da bravo, si consoli. — Oh!... Per me....

— Ho scritto a Del Mantico di non venire, perchè di giorno in giorno aspetto mia figlia. È contento adesso?

Ariberti non lo volle dire, ma lo lasciò intendere anche troppo.

Tuttavia nelle sue notiziole la Contessa non era molto esatta. Era stata lei a scrivere al maggiore di venirla a trovare, e il maggiore invece le avea risposto che non veniva, con una lettera piuttosto fredduccia, scusandosi coi soliti affari di servizio, e, se si deve dir proprio tutto, questa lettera avea molto infastidita la contessa Navaredo.

— Dunque.... — e Prandino, che adesso ritrovava tutta la sua vivacità, per il gran peso che si era levato da dosso, si tirò tanto vicino alla Contessa, da toccarle le vesti colle ginocchia. — Dunque.... se gli ha scritto così.... vorrebbe dire.... che un po' di bene me lo vuole?...

— Veramente, potrebbe anche non volere dir nulla di tutto questo!...

— La prego, la scongiuro, Contessa, mi dica che è stato per farmi un piacere che gli ha scritto di non venire.

— Sì.... perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.

Elisa cominciava a trattarlo col voi; ma bisogna compatirla, povera signora. L'Ariberti, quando si metteva in orgasmo, era un gran bel ragazzo, con quelle sue guance fresche, rosate, come una fanciulla; i capelli neri, folti e spettinati; e poi, aveva delle mossettine, degli atteggiamenti, certe arie da fanciullo viziato, che riuscivano molto attraenti, specialmente per una donnetta come l'Elisa, che, adesso, anche nell'amore, si godeva a fare un po' le parti della mamma: “....perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.„

— Per questo solo?

— Sicuro!...

— Non vi credo. Gli avete scritto di non venire perchè.... perchè mi volete un po' di bene.

— Torniamo da capo?

— Ve ne supplico, siate buona, non mi fate soffrire così. Già lo capisco, lo vedo, lo sento che mi volete bene; dunque non siate cattiva, ditemelo, mi volete bene, non è vero?

Elisa lasciò cadere il ricamo sulle ginocchia, e piegandosi un po', fissò il giovane con un senso d'affetto pieno di compiacenza, che le trapelava dagli occhi.

— Bambinone!

— Mi volete bene?...

— No!

A questo punto, per un perchè forse più patologico che psicologico, la Contessa mutò d'un tratto. Da' suoi occhi si dileguò ogni espressione di tenerezza; divenne seria, sembrò quasi irritata, si levò da sedere e andò ad appoggiarsi, ritta, senza più dire una parola, alla vetrata che metteva nel giardino.

L'altro, indispettito, si abbottonò l'abito nero, quello stesso che più tardi fu rimesso a nuovo da mamma Orsolina per il viaggio di Venezia, poi cominciò a dondolarsi sulla sua seggiola.

Stettero un pezzo così: lei, pensosa, immobile a guardar l'acqua che cadeva; lui, tutto nervoso e sconvolto, a sfogare la stizza facendo l'altalena.

Però, dopo qualche tempo, sebbene Ariberti non ne potesse proprio più, fu la prima l'Elisa a parlare.

— Conte, conte! Venga qui.... Guardi com'è bello!

Di fuori, continuava a piovere; ma la pioggiolina s'era fatta più minuta, il cielo più chiaro, e una larga striscia di sole faceva brillare sulle foglie degli alberi e dei fiori, sui fili d'erba e sui bianchi sassolini del giardino, le gocciole dell'acqua caduta, così che parevano gemme, mentre di lontano, l'arcobaleno squarciava co' suoi vivaci colori la tinta grigiastra, uniforme, disegnandosi largamente di sotto a un gran lembo d'azzurro.

— Conte!... Venga qui!

Prandino si alzò, ma rimase affatto insensibile a tutte quelle bellezze della natura.

— Perchè torna a trattarmi col lei adesso?

— Oh che, forse non le ho sempre parlato in terza persona?

— Sempre no; e lei lo sa bene.

— Allora le domando scusa della libertà che mi son presa senza accorgermene. Venga.... Venga con me: andiamo là, sotto il capanno.

L'Elisa, in mezzo a tutti quei profumi che la pioggia aveva sbattuti dai prati e dalle aiuole, aspirando quelle sbuffate d'aria fresca, frizzante, si sentì correre in tutto il corpo un senso di piacere, un benessere, un'elasticità, una contentezza che le penetrava nell'anima, come se quella giornataccia di autunno si fosse mutata in un bel giorno di maggio, co' suoi fascini e colla sua salute. Allora, le saltò l'estro di fare un po' la bambina, raccolse le vesti e si mosse per attraversare il giardino, sotto l'acqua, così senza ombrello, colla testa scoperta e, ridendo, invitò l'altro a seguirla.

— Venga, dunque, andiamo!

— Me lo dica in un altro modo....

— Ebbene, venite! bambinone.

Ciò detto, senza aspettar la risposta, Elisa si pose a correre verso il capanno, chiudendo gli occhi, gittando dei gridi, delle risate vibranti, scotendosi e fremendo sotto quell'acquerugiola che la bagnava tutta. Arrivata sotto il capanno, non aveva quasi di bagnato altro che gli stivalini, sembrava che non fosse corsa, ma volata là dentro. Prandino, invece, che le aveva tenuto dietro, era tutto inzaccherato. E ancora col respiro affannoso, tornò daccapo per farsi dire s'ella lo amava, con quell'insistenza ostinata e petulante, che alle donne non dispiace quasi mai, e agli uomini giova quasi sempre.

— Ditelo che anche voi mi amate un po'... Già, il dirlo, non vi costa nulla.

— Voi pensate che non mi costerebbe nulla?...

— Vi giuro; vi giuro sul mio onore.... Sarebbe sempre la stessa cosa.

Non era più lei, ora; era Prandino che ripeteva quell'antifona della sera innanzi.

— No, no. È meglio non dir nulla; è più sicuro. Com'è carino, come si sta bene qui sotto; non è vero?

E la Contessa, che voleva fingere anche con sè stessa d'aver vent'anni, tornò a ridere, a ninnolarsi, stancandosi le dita per legare attorno al capo il suo piccolo fazzolettino di trina.

La pioggia batteva, crepitava sulle foglie della vite e della mortella con uno scroscio lento e continuo, ma di sotto però non ne cadea se non qualche rara gocciola qua e là, che, ingrossata, si staccava dal fitto tessuto del capanno.

— Che gusto a star qui sotto, non è vero, Conte?

La contessa Elisa riebbe allora uno dei suoi bei momenti. Ritornò per un istante com'era dieci anni prima. La fatica di quella corsa le aveva colorite le guancie, il brivido dell'acqua, l'allegrezza che si sentiva intorno, l'amore caldo, appassionato di quel bel giovanotto bruno, forte, sano, che, pauroso, tremava d'amore dinanzi a lei, tuttociò le metteva addosso un brio, una lena, un calore che la faceva proprio ritornar giovane per davvero.

Volendo staccare un piccolo fiorellino da un ramo di mortella, si bagnò le mani e, alcune gocce, scosse dall'urto, le caddero sul viso. L'Elisa ritornò a ridere, dopo un grido acuto, squillante.... e porse al giovane le mani, perchè gliele asciugasse. Non lo poteva far da sè chè la sua pezzuola se l'era legata attorno al capo.

Prandino arrossì.... prese una mano della Contessa, poi l'altra, e le asciugò tutte due adagio, lentamente.

— Guardate qui, — fece lei quando l'altro ebbe finito, e gli mostrò la goccia d'acqua che le rigava la faccia, chinandosi e allungando verso di lui la sua testa incipriata.

A Prandino batteva il cuore violentemente, gli ronzavan le orecchie e sudava tutto. Avrebbe voluto parlare, ma la voce gli si strozzava nella gola: avrebbe voluto asciugar quella gocciola con un bacio, avrebbe voluto stringersi l'Elisa al cuore, e lei, forse, non chiedeva di meglio, ma non ebbe il coraggio di farlo o di tentarlo.

— Grazie, — diss'ella, quando il giovane, tremando l'ebbe toccata appena sulla guancia colla cocca del fazzoletto.

— Se non sentiste qualche cosa per me, non mi terreste qui così.... così vicino a voi.

— No; non sento nulla; non insistete; cominciate a seccarmi.

La Contessa disse tutto ciò con un'asprezza nervosa che contrastava col buon umore e colla tenerezza di poco prima.

Ritornarono a tacere: Prandino questa volta era anche un po' mortificato.

— Siete in collera?... — disse lei alla fine ritornando buona. — Via, datemi la mano e facciamo la pace.

L'altro le si avvicinò; le due mani si strinsero; ma anche dopo la stretta non si lasciarono.

— Perchè volermi far dire una cosa che già avete capito da un pezzo?

A queste parole dette con una lentezza piena di sentimento, chi lo crederebbe? Prandino invece di consolarsi fu preso da uno strano turbamento. Era una confessione che desiderava da tanti anni, che aspettava da tanti giorni, eppure detta là, in quel luogo, in quel modo, in quel momento, lo sorprese invece di commuoverlo, lo sgomentò invece di consolarlo. L'idea di quello che avrebbe dovuto rispondere, di quello che avrebbe dovuto fare lo impicciava. Tutto il suo sangue, così caldo, così bollente, s'era raffreddato in un attimo.

— Ah! dunque è proprio vero, mio Dio? — e non trovò e non seppe dir altro.

Elisa, ch'era vicinissima a lui, gli appoggiò la testa sul petto, poi gli si piegò addosso, stanca, quasi priva di forze, colle braccia abbandonate, chiudendo gli occhi, palpitando, traendo dal seno ricolmo lunghi e grossi sospiri.

Egli si guardò attorno.... incerto, timoroso. Capiva che avrebbe dovuto essere ardito; ma non l'osava. Invece la baciò appena, leggermente, sui capelli, e le disse piano, con la voce strozzata:

— Sarà sempre la stessa cosa, ve lo prometto.

Elisa ebbe un nuovo fremito, lo strinse lei al cuore, con una stretta nervosa, convulsa: l'altro mantenne la data parola.

Imbruniva; la pioggia ritornava a cader giù fitta fitta, e anche il capanno cominciava a gocciolare da tutte le parti.

La contessa Elisa socchiuse gli occhi, come se si destasse allora, poi si rizzò e:

— Grazie, — gli disse lentamente.

— Addio.... Contessa!

— Andate via?

— Sì.

— Perchè?... con questa pioggia?

— È meglio, Contessa.... lasciatemi andar via.... altrimenti.... Credetelo, è meglio che me ne vada. Addio.

La Contessa gli sorrise dolcemente, ma lo lasciò partire.

L'Ariberti, quasi di corsa, penetrò nel salotto, prese il cappello, l'ombrello, poi ne uscì di nuovo e senza nemmeno salutare un'ultima volta l'Elisa, senza nemmeno guardare dalla sua parte, si dileguò nell'ombra della sera che, di mano in mano, si faceva sempre più densa e più profonda.

Sott'acqua: racconto

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