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Una partita in quattro
ОглавлениеHo passato otto giorni a Tartavalle. (Nessuno dei miei duemila lettori ignora, che a Tartavalle v'è una fonte di acque ferruginose, intorno alla quale si adunano nel luglio e nell'agosto i sedicenti malati e gli ipocondriaci delle nostre provincie).
Non temete. Io non intendo descrivervi il luogo, nè magnificarvi la bontà delle acque, nè darvi l'elenco di tutte le donne isteriche, di tutti gli originali che quest'anno ho veduto agglomerarsi nella piccola valle. Ad altri cedo pure l'incarico di riprodurre i pettegolezzi e gli aneddoti più o meno esilaranti della stagione. A' miei lettori, poco amanti di ciò che è comune, io riserbo la primizia di una novella, che ebbi la fortuna di raccogliere io stesso ad un banchetto di amici, venuti sul luogo per cercarvi l'oblio di non so quali noie della loro esistenza domestica.
Tre amici dell'epoca più avventurosa – un poeta. un ingegnere ed un medico – amici già quasi dimenticati, sebbene a Milano, dal 1846 al 1854, avessero diviso le vivaci peripezie della mia matta giovinezza.
Da quindici anni non ci eravamo più veduti – e quando il caso mi condusse presso il tavolino, ov'essi stavano pranzando, avvenne una di quelle esplosioni di meraviglia e di gioia che d'un tratto sembrano ringiovanirci.
Quella esplosione cominciò naturalmente con una scarica di nomi e cognomi.
– Antonio!.. Eugenio!.. Lamberti!.. Rambaldi!..
E tutti, per alcun tempo, ristemmo sulla punta dei piedi, e le nostre braccia si incrociarono in una stretta amichevole al di sopra di un cappone fumante, il quale pareva attonito di vedersi così presto negletto, dopo l'accoglimento festoso che gli amici gli avevano fatto al suo primo apparire.
Per ammorzare questi subitanei entusiasmi dell'amicizia non ci vuole gran che. Basta talvolta una parola, un monosillabo inaspettato, qualche cosa che riveli un tratto ignorato e poco piacevole delle rispettive biografie.
Il primo a lasciarsi sfuggire una di queste esclamazioni deprimenti fu l'amico Lamberti.
Quand'egli, con un accento che nessuna musica potrebbe tradurre, ebbe profferita questa parola così semplice e complicata ad un tempo: «ammogliato!» tutti i volti parvero allungarsi, tutte le mani intrecciate dall'entusiasmo si allentarono. Ciascuno ricadde Sulla propria seggiola, e gli sguardi si ritorsero mestamente al cappone obliato.
In quella comitiva, che altre volte aveva rappresentato a Milano la schiuma degli scapigliati, non v'era alcuno che potesse vantarsi di aver resistito al contagio. Tutti eravamo ammogliati.
Io sedetti alla piccola mensa; e poichè le vivande e un eccellente vino di Valtellina ci ebbero alquanto rianimati, l'amico Lamberti si levò in piedi nuovamente, e, alzando il bicchiere al di sopra delle teste, si fece a gridare: Evviva le nostre mogli! evviva il matrimonio! – Fu un lampo. Subito dopo, il povero Lamberti ripiombava sulla seggiola come affranto da uno sforzo sovrumano.
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Era omai tempo di abbordare francamente la quistione. Ciascuno sentiva il bisogno di spiegarsi, o piuttosto di giustificarsi dinanzi a quel piccolo tribunale di amici.
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Per comprendere il nostro imbarazzo, è d'uopo sapere che, tanto io come quei tre amici della sventata giovinezza, avevamo professato, in altri tempi, delle teorie così avverse al matrimonio, da ritenerlo un delitto contro natura. A quell'epoca, un marito rappresentava per noi l'animale più ridicolo della creazione. L'amico Eugenio, il poeta, aveva scritto in odio del matrimonio una dozzina di satire e un volume di epigrammi. Molte volte, nei nostri spensierati ritrovi, era stato proclamato che il primo di noi il quale avesse ceduto al volgare appetito di ammogliarsi, verrebbe ritenuto un apostata, e come tale, messo al bando dalla società. Avverandosi l'incredibile fatto, gli amici si riterrebbero sciolti da ogni riguardo verso il povero delinquente. Ciascuno si sarebbe adoperato ad infliggergli quel castigo, che suol essere, quando le mogli si prestino all'uopo, la punizione ordinaria di tali delitti.
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Meno male che il delitto era stato commesso da tutti. Noi ci trovavamo nell'identica situazione di quelle brave pétroleuses della Galilea a cui Cristo avrebbe permesso di lanciare la prima pietra. Riconoscendoci tutti colpevoli, era dunque naturale che, superata quella prima fase di turbamento e di vergogna, alla fine, noi prendessimo il partito di ridere.
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Eugenio fu il primo a dare l'esempio: «Degeneri colleghi della mia giovinezza, riprese l'amico coll'enfasi de' suoi begli anni; a che serve guardarci l'un l'altro con questa ebete espressione di stupore e di vergogna? Anni sono, noi eravamo sommersi nelle utopie. Noi ci illudevamo di essere più forti e più scaltri che la comune degli uomini. Oggi dobbiamo confessare che tutti gli individui della specie umana sono uguali in faccia… alla donna. Perchè le nostre utopie avessero a realizzarsi, conveniva seguire un altro cammino. Il nostro massimo torto fu quello di illuderci che avremmo potuto sottrarci alla moglie, seguendo, come sempre abbiamo fatto, le orme della donna. Ora, chi segue la donna, o tosto o tardi deve inevitabilmente cadere nella moglie. – Evidentemente, fra le nostre teorie anticoniugali e le nostre aspirazioni di istinto, c'era una contraddizione ed una lotta. Noi ci eravamo collocati in una situazione assurda, dalla quale non era possibile uscire, se non a patto di rinunziare alle più dolci emozioni della vita. Rileviamo le nostre fronti avvilite! Guardiamoci in faccia l'un l'altro colla franchezza dell'uomo intemerato. Nessuno di noi ha da vergognarsi di aver tradito un principio. Noi abbiamo costantemente protestato e reagito. La nostra sconfitta non provenne da debolezza e da viltà, ma soltanto da un errore strategico. Che ve ne pare? non ho ragione?..
– Se ci fossimo attenuti, riprese cupamente il Rambaldi, alla savia massima di non fare la corte che alle donne maritate, a me sembra che, senza rinunziare alle più dolci emozioni della vita, non ci troveremmo oggi tutti quanti al duro passo di dover giustificare le nostre transazioni… Grazie alle provvide leggi dei nostri padri, una donna non può avere due mariti – chi dunque ama le donne degli altri, segue la strada più sicura e più comoda per iscansare il precipizio.
– E se io vi dicessi, interruppe Eugenio vivamente, se io vi dicessi che fu appunto questa falsa massima che mi ha trascinato alla perdizione, e che io non sarei forse mai precipitato negli abissi del matrimonio, se non avessi ceduto al peccaminoso desiderio di assaggiare la donna d'un altro!
– In verità, la dev'essere una istoria curiosa e bizzarra, dissi all'amico.
Nè più nè meno della vostra; e se tutti ci facessimo a riannodare le fila di questa trama capricciosa dove nostro malgrado ci troviamo impigliati, ne uscirebbero indubbiamente delle assai bizzarre novelle.
– Vogliamo provarci?..
– Agli ordini vostri, rispose Eugenio – e purchè tutti promettiate l'uguale sincerità, io sarò il primo a darvi l'esempio.
– Sta bene.
E l'amico Eugenio si fece senz'altro a raccontarci la sua istoria.
*
* *
« – Or fanno quindici anni, allorquando il mio cattivo genio mi diè la prima spinta su questa maledetta carriera delle lettere, dove non ho raccolto che malanni, io versava nelle più gravi strettezze. I primi prodotti del mio genio mi venivano pagati a cinque lire per ogni foglio di stampa – i miei guadagni non sorpassavano le ottanta lire al mese.
Io abitava una stanzetta più vicina al cielo che alla terra.
Un bel mattino, sento bussare alla porta. Nessun altro fuorchè un creditore avrebbe osato salire a tanta altezza. – Avanti! – A quell'epoca i creditori non mi facevano paura; mi rendeva forte, al loro cospetto, la certezza di non avere con che pagarli.
Sventuratamente, quella mattina non si trattava d'un creditore. Era il primo anello della grande catena conjugale che veniva ad introdursi nel mio libero domicilio, sotto le sembianze di un idiota.
Appena io mi ricordava d'aver veduto una o due volte quel fatale personaggio. Bel giovine, del resto, tutto profumato e azzimato – uno di quei figuri a cui il mal di fegato o qualche altro vizio degli intestini suol dipingere il volto di quel pallore, che alcune donne sogliono chiamare la vernice del sentimento. La sua bruna capigliatura stillante di cosmetici, l'occhio grande ed incavato, il languore del collo, il cascante abbandono della persona, davano a lui una cert'aria di genio sventurato che, a vederlo da lunge, lo rendeva interessante. Vi ho già detto alla prima presentazione che egli era un idiota, ed ora credo bene ripetervelo, perchè non vi facciate sul di lui conto alcuna illusione.
– A che debbo il piacere… l'onore.
Il mio visitatore stralunò gli occhi, e sorrise, stendendomi la mano in atto di cordiale benevolenza.
Poi, innanzi di profferire parola, si tolse dalle tasche un portafogli, ne levò fuori un pajo di lettere profumate, e, dopo averle guardate senza aprirle con una espressione di compiacenza misteriosa che attirava alla superficie del suo volto tutto l'ebetismo del suo cervello, finalmente sciolse la favella:
– Ella deve sapere… cioè a dire… che essendo noi tutti giovani… cioè a dire… che siccome vi hanno delle donne… e siccome tutte le relazioni cominciano per via della via…»
E, proseguendo su questo tono per un buon quarto d'ora, egli riuscì a farmi capire come ei fosse innamorato d'una bella ed elegante signora, la quale dopo molte dimostrazioni di indifferenza e di ritrosia, si era alla fine lasciata sedurre a rispondere alle sue lettere. E parendogli che quelle lettere fossero scritte con una eleganza di stile ed una elevatezza di idee non comune, aveva pensato di rivolgersi a me, perchè lo aiutassi nel suo epistolario, dettandogli delle risposte commoventi, infuocate, irresistibili, mercè le quali egli si teneva sicuro di vincere in breve tempo le esitanze dell'angelo adorato. Nella mia qualità di segretario amoroso, io avrei percepito il vistoso emolumento di lire quattro per ciascuna lettera. Il proprietario d'un foglio teatrale, dove a quell'epoca io faceva le mie prime armi nella critica, non mi dava tanto per una appendice di dieci colonne.
La strana proposta eccitava in sommo grado la mia curiosità. Quell'epistolario aveva per me tutte le attrattive di un romanzo; e, siccome le due lettere dell'incognita dama rivelavano propositi di virtù e di resistenza ad ogni costo, io mi sentiva piccato da un satanico desiderio di misurare con quella fiera ed appassionata Penelope la forza del mio stile e la efficacia del mio lirismo amoroso.
Accettato l'incarico, mi diedi subito all'opera. Il mio cliente si assise allo scrittoio; ed io gli dettai una lettera di quattro pagine, così esuberante di passione, così gonfia di ampolle, che l'altro tratto tratto balzava dalla seggiola come scosso dall'elettrico.
«Buona!.. sanguinosa!.. assassina!» esclamava il giovane ad ogni frase che io andava dettando. E quando veniva in campo una parola poco usitata e non compresa da lui, in luogo di chiedermi una spiegazione, portava la mano al cuore, o sbuffava un grosso sospiro che assomigliava a un grugnito.
La mia prima lettera era una confutazione di quelle venerande teorie di fedeltà coniugale, che noi non cessiamo di chiamare assurde fino al giorno in cui, impigliati dal matrimonio, comprendiamo il pericolo di professarle e di propagarle – era una tremenda requisitoria contro i mariti, la quale si chiudeva con un inno alla libertà ed alla assoluta indipendenza della donna, degno d'un comunalista.
Non è a dire con quale compiacenza, dopo aver letto e riletto quel mio squarcio di eloquenza, l'amico si fece a delinearvi la propria firma. Per conquistare i favori del bel sesso, oltre alle attrattive di un volto fiammingo, la fortuna aveva dato a colui un nome ed un cognome de' più interessanti.
Egli si chiamava Arturo della Valle. Pensate se una donna di immaginazione un po' viva avrebbe potuto resistergli!
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La risposta della signora non si fece attendere a lungo, Di là a due giorni, il bell'Arturo tornò alla mia camera con un foglio color di rosa nella mano e il volto irradiato dalla gioia.
Nello scorrere lo scritto provai un leggero fremito d'orgoglio. La mia eloquenza aveva prodotto il massimo effetto. La signora confessava che le mie parole le avevano suscitata nel cuore una tempesta. La sua fede era scossa; i suoi propositi di virtù e di resistenza più non rappresentavano che una figura rettorica. Si dichiarava infelice come la Teresa dell'Ortis, come tutte le Terese che amano debolmente il loro consorte legittimo. Pregava l'amico di obbliarla, e dopo alcune linee invocava la sua protezione, confidava di trovare in lui un alleato nella lotta a cui andava incontro. A sua volta protestava contro la tirannide delle leggi sociali, deplorava la schiavitù della donna, ma al tempo stesso si riteneva colpevole per non aver opposta una più energica resistenza al sentimento che l'aveva dominata. «Scriviamoci, diceva essa, scriviamoci sovente: procuriamo di fortificarci e di animarci l'un l'altro alla dura battaglia che siamo chiamati a combattere… Io conto sulla tua alleanza come su quella di Dio… Mostriamo di saper soffrire, e il nostro amore diverrà una religione, nè potrà mai aver fine.»
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Il bell'Arturo, quantunque idiota, comprendeva che quella lettera era promessa di un prossimo trionfo.
E frattanto il mio cuore era in preda alla più viva commozione.
Rare volte mi era accaduto di dover ammirare in uno scritto di donna tanta vivezza di immagini, tanta castigatezza ed eleganza di stile. Quella lettera avrebbe portato con onore la firma della Donna Gentile, e figurato superbamente nell'epistolario di Foscolo.
Io mi sentiva piccato di emulazione; e, quantunque si trattasse di causa non mia, e provassi una certa ripugnanza nel prestare il mio ingegno alla perdizione d'una donna di spirito ed al trionfo d'un imbecille, pure la novità del caso e quella certa compiacenza satanica che tutti proviamo nel veder svilupparsi uno scandalo, mi ispirarono una seconda lettera non meno eloquente della prima, e forse più calda e appassionata.
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Non intendo descrivervi tutte le fasi di quell'epistolario. Vi basti sapere che, fosse effetto della mia eloquenza, fosse prepotenza naturale di simpatie, al quinto carteggio la signora promise un abboccamento.
Il convegno della coppia avventurata doveva aver luogo sul bastione fra porta Renza e porta Tosa, alle sei del mattino.
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Difficile mi sarebbe esprimere ciò che io provai, all'avvicinarsi della catastrofe. Il mio turbamento era tale, che io non poteva a meno di chiedere a me stesso, se qualche cosa di somigliante all'amore si fosse impossessato di me. Nel mirare la gioia del bell'Arturo, nell'udire le sue esclamazioni grottesche, io sentiva uno spasimo non mai provato.
Io non poteva darmi pace all'idea che quello stupido animale fosse predestinato al possesso di una donna, ch'egli più volte mi aveva dipinta quale un angelo di bellezza e che io, attraverso le grazie seducenti del suo epistolario, aveva tanto ammirata. Io cominciai a sentire il rimorso della mia complicità. Il desiderio di impedire quel colloquio pareva a me suggerito dagli impulsi della gelosia. – Era io dunque innamorato? Questa domanda mi affannava e mi irritava. E quando io mi studiava di volgerla in celia, sentiva che i miei sforzi erano vani. Che non avrei tentato per mandare a vuoto quell'abboccamento, per rompere le fila di una trama da cui potevano derivare mille calamità ad una donna tanto simpatica per elevatezza di spirito e squisitezza di sentimento? Essendo in mio potere il salvarla, mi pareva di commettere un delitto assistendo con tanta indifferenza al pericolo che io vedeva sovrastarle, e cooperando io stesso alla sua perdizione.
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Tali presso a poco erano i miei pensieri nei due giorni che precedettero l'abboccamento. E forse io avrei subito ceduto alla tentazione di giuocare un mal tiro all'amico, se non mi fosse balenata alla mente la speranza che quel colloquio potesse riuscirgli fatale.
– Come mai, pensava io, potrà ella, una donna di animo sì delicato e sensibile, una donna sì colta e gentile, non avvedersi, al primo ricambio di parole, d'aver a fare con un bruto? Ed io mi figurava lo stupore di lei nello intendere le frasi sconnesse, le gagliofferie, gli idiotismi di quel melenso adoratore, il quale nelle sue lettere si era mostrato (perdonate la modestia) così poetico e commovente. Non era a prevedersi che l'incanto sarebbe sparito? che l'ardore suscitato dalla mia eloquenza si sarebbe spento alle prime parole profferite da colui?.. che colpita di sorpresa e di stupore, la signora avrebbe scandagliato d'uno sguardo intelligente e profondo la fisonomia del suo adoratore, e sotto la epidermide del gentiluomo discoperto il cretino?..
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Le mie previsioni quasi in tutto si avverarono. Due giorni dopo quell'abboccamento, il Della Valle ricevette della signora una lettera dalla quale io potei scorgere un regresso di passione. Ella tornava da capo a parlare di sacri doveri, di rimorsi, di pentimenti, di pericoli. Si mostrava risoluta nel proposito di non accondiscendere più mai ad un convegno che avrebbe potuto comprometterla in faccia al mondo ed al marito, precipitarla in un abisso di sventure. Nuovamente implorava le armi a combattere una passione che poteva trascinarla alla colpa. «Vediamoci da lontano, diceva ella; parliamoci a mezzo dello scritto, dove il sentimento suole purificarsi e poetizarsi in una forma di linguaggio più castigata e più adorna. Vuoi che io ti dica tutto l'animo mio? Stringendo la tua mano, respirando la tua parola, ho sentito d'aver a fare con un uomo, leggendo le tue lettere io gustava l'ineffabile illusione di essere amata da un angelo.»
– Che razza di discorsi hai tu rivolti a quella povera signora? domandai al mio ebete cliente, con piglio fra il brusco ed il faceto.
– A dire la verità non saprei nemmen io… siccome per via della via… e siccome per venir presto al comprendonio… parendomi che anche lei, ecc., ecc.
– Capisco, capisco… Se questo fu il tuo modo di esprimerti, immagino che il colloquio non sarà andato per le lunghe…
E l'altro, vedendomi ridere, mi guardava e rideva a sua volta, colla espressione più franca dell'imbecille.
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* *
La lettera della signora, soprattutto quelle adorabili parole —io poteva illudermi di essere amata da un angelo– mi infiammarono la fantasia. Mi pareva che i raggi di quell'amore, deviando dal punto a cui erano diretti, anelassero ad una meta ignorata; che mentre, per effetto di una strana illusione ottica, quella donna credeva di amare il signor Arturo Della-Valle, il di lei cuore fosse invece attratto verso un altro ideale, verso colui che sapeva parlarle il linguaggio del sentimento e della poesia.
– Bisogna che io conosca… che io veda questa donna! Tale fu il pensiero che mi spinse a riprendere l'epistolario, e ad impetrare un secondo abboccamento.
E questo pensiero mascherava una determinazione colpevole, indegna, lo confesso, di un uomo leale, ma che allora, sotto gli impulsi della passione, mi pareva onestissima. Io era determinato a presentarmi in luogo di Arturo a quella donna, e rivelandole il vero autore delle lettere che tanto l'avevano impressionata e ammaliata, domandarle… Che cosa?.. Io stesso lo ignorava… In quella crisi di eccitamento appassionato, io non poteva prevedere lo scioglimento del dramma… Ma quand'anche la catastrofe non mi avesse promesso altro risultato fuor quello di troncare un equivoco mostruoso, di risparmiare ad una bella e amabile donna la vergogna di soccombere ad un fatuo, io non avrei indietreggiato nell'impresa.
La mia mente era in preda alla esaltazione; io non vedeva ciò che vi era di indelicato e di sleale nel mio modo di agire. Mi posi dunque all'opera con ardore – meditai per bene il mio piano strategico, e senza preoccuparmi dell'avvenire, corsi direttamente alla mia meta.
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* *
La corrispondenza epistolare fu ripresa alacremente, ed io perorai tanto bene per ottenere un secondo abboccamento, che dopo lo scambio di una decina di lettere, la signora accondiscese. Il luogo fissato pel ritrovo fu una stradicciuola nelle vicinanze del Conservatorio di musica, dove a certe ore del giorno non si incontra anima viva. La situazione era stata scelta da me, ed era quella che meglio si addiceva alla effettuazione del mio piano strategico. Io mi era prefisso di collocarmi sovra un'altura del bastione, dalla quale avrei potuto spiare le mosse dei due innamorati. Al momento della separazione, come avviene sempre in tali casi, i due amanti si sarebbero allontanati per opposto cammino. – Dalle alture, ove io contava stabilire il mio quartiere di osservazione, nulla più facile che piombare improvvisamente alle spalle della signora, seguirla, investirla, agguantarla… e, profittando della sua sorpresa, del suo turbamento, indurla, buono o malgrado, a porgermi orecchio. Voi sapete quanto io fossi sventato a quell'epoca, e con quale spensieratezza io corressi alle avventure di amore. Felici tempi della irriflessione e degli improvvidi ardimenti! Non vi scandolezzate, o miei ottimi amici, se mi permetto di rimpiangere quelle deliziose follie. Il matrimonio ci ha tramutati – noi apparteniamo oggimai alla classe rispettabile degli uomini morali, degli uomini di polso– noi occupiamo ciò che suol chiamarsi una posizione sociale, e il mondo, che prima del nostro matrimonio ci guardava con diffidenza e disprezzo, oggi comincia ad accordarci la sua stima, ad accoglierci con rispetto e venerazione… Ma pure, se in un lucido intervallo di antica gaiezza, noi gettiamo uno sguardo al passato per raffrontarlo al presente, difficilmente riusciamo a comprimere un sospiro all'indirizzo degli anni vissuti. Chi ci ridona la sventatezza dei nostri anni giovanili? Il mondo ci chiamava scapestrati, vagabondi, gente da nulla… E infatti, noi commettevamo, ridendo, piangendo qualche volta, delle enormi follie, riprovate dalle leggi e dalla sana morale… È vero – la nostra condotta non era regolare; confessiamolo francamente, non era sempre onestissima… Ma i nostri peccati erano frutto di quella santa inscienza del bene e del male, che costituiva, nel paradiso terrestre, la felicità dei nostri primi parenti – peccati che non lasciano rimorsi nè dolori, e la cui ricordanza, anche al presente, non può destarci nell'anima veruna amarezza, quando non la accompagni il rammarico di qualche omissione…
Amici: perdonate questo sfogo – prima di riprendere la mia storia, vi prometto che sarà l'ultimo.
Era un bel mattino… di primavera, già s'intende… Seduto sovra una panchetta di granito, io dominava le viuzze sottoposte – una siepe di robinie proteggeva il mio agguato. – Allo scoccare delle sei, il mio Arturo, colle mani in saccoccia e la testa ondeggiante, si introdusse nella piccola via, dove subito venne raggiunto da una donna semplicemente vestita, col capo ravvolto in un velo.
Il Della Valle si arrestò, trasse la mano di tasca e fece l'atto di stenderla alla donna; poi, arretrò di due passi come istupidito, e poichè la signora ebbe scambiato quattro parole con lui, si allontanò a passo lento, e disparve.
Il colloquio era stato tanto breve e la separazione così pronta ed inaspettata, che per poco il mio piano rischiò di andare a vuoto. Fortunatamente la signora prese la via del bastione: onde io, riavutomi dalla sorpresa, le mossi incontro, e, sbarrandole audacemente il cammino, la investii di tal guisa:
– Signora Amalia… perdonate…
– A chi ho l'onore di parlare? chiese la signora con voce pacata, arrestandosi a me dinanzi, senza dar segno di turbamento o di dispetto.
Quel contegno nobilmente disinvolto impose per un istante alla mia arditezza. Ma io mi accorgeva di trovarmi in una falsa posizione; se la mia esitazione fosse durata più a lungo, avrei fatto una ridicola figura, mi sarei irremissibilmente perduto.
– Ah! voi siete ben dessa! – esclamai dunque con voce commossa, ma coll'accento del più sentito entusiasmo – l'ideale della donna di spirito… l'incarnazione della poesia e dell'amore…
– Signore, mi interruppe ella con accento dignitoso ed amabile ad un tempo – io vi ho pregato di dirmi a chi ho l'onore di trovarmi dinanzi, e voi mi gettate in viso dei complimenti che appena sarebbero tollerabili se partissero da un amico.
– Gli è che io, ripresi con enfasi, sono propriamente un vostro leale amico. Noi ci conosciamo da un pezzo, signora Amalia… Noi ci siamo parlati tante volte… La nostra corrispondenza epistolare è stata così espansiva e sincera, che ben si può dire non esistere più segreti fra noi. Tutte le lettere che indirizzaste al signor Arturo Della Valle sono passate per le mie mani… In quelle lettere io ho veduto disegnarsi i tratti gentili della vostra fisonomia, ho assaporate le delicatezze del vostro cuore, ho respirato i profumi del vostro spirito… Voi vedete dunque che noi ci conosciamo… Se nelle lettere che portavano la firma di Arturo Della Valle (e voi stessa lo avete più volte confessato) vi erano espressioni ed accenti atti a commovervi e ad esaltarvi; se avete pianto di gioia per una frase di pietà o di amore; se avete gustato, nello scorrere quei fogli, delle estasi ignote; no, o signora, voi non avete più diritto di affermare che io vi sia sconosciuto. Noi ci siamo parlati… noi ci siamo compresi. Questo povero Della Valle, a cui io dettava le mie speranze e le mie angoscie, a cui voi, signora, indirizzavate le ideali aspirazioni della vostra grande anima, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori, nella certezza che un'incognita divinità sarebbe scesa a raccoglierli, a respirarne i profumi… Ebbene, sappiatelo… quei vostri fiori… sono io che li ha raccolti… sono io che voluttuosamente li ho posati sul mio cuore… io che ve li ho rimandati coperti di lagrime e di baci… E, fatto audace dal desiderio, inebbriato dall'amore, io fui spinto a seguire le orme della diva misteriosa, ed ho osato sperare che ella un giorno, incontrandosi meco, mi avrebbe tosto riconosciuto. Se voi, signora, potete perdonarmi…
A questo punto, la giovine donna sollevò il velo che le scendeva sul volto, e guardandomi con ineffabile espressione di tenerezza e di affetto, mi disse «Non vi par tempo, o signore, di soddisfare alla mia curiosità, declinandomi il vostro nome e cognome?..
– Io mi chiamo Eugenio Renzi…
– Ebbene: se il signor Eugenio Renzi domattina vorrà recarsi verso dieci ore all'ufficio della posta, troverà una lettera al suo indirizzo.
E ciò detto, colei mi stese la mano in atto di accommiatarsi, e prima che io avessi tempo di proferire altra parola, si dileguò rapidamente sotto le ombre degli ipocastani.
Quel giorno non rientrai al mio domicilio. Io temeva una visita di Arturo; io voleva ad ogni costo evitare un colloquio imbarazzante. Io sentiva di avere abusato della mia posizione, e, quantunque fra me e colui non esistessero vincoli di vera amicizia, pure il cuore mi avvertiva di aver agito con poca delicatezza. Se in me ci fu colpa, il Dio delle vendette mi ha severamente punito, condannandomi ai lavori forzati… del matrimonio.
All'indomani, verso le otto del mattino, sentii picchiare alla porta della mia cameretta.
Era lui – voi tosto indovinate che io risposi… col più rigoroso silenzio.
Il povero innamorato mi chiamò a nome più volte, ripicchiò con crescente vigoria, e, disperando alla fine di vedersi aperta la porta, si allontanò a passo lento per le scale. Quando io, balzato dal letto, attraverso le griglie lo ebbi accompagnato collo sguardo fino allo svolto della contrada, mi abbigliai prestamente, uscii dalla camera, scesi dalle scale a precipizio, e corsi diffilato all'ufficio della posta.
Il cuore mi batteva forte; la stranezza dell'avvenimento mi esaltava la fantasia; io mi trovava in presenza di un enigma interessante, e la mia curiosità ne era vivamente eccitata. Quella donna, che il giorno innanzi io aveva veduta per la prima volta, che sì ingenuamente aveva accolto le mie espansioni di amore, che aveva promesso di scrivermi, non rappresentava forse una protagonista da romanzo dotata delle attrattive più affascinanti? Permettete, miei ottimi amici, che io non mi arresti a descrivervi le bellezze personali di una donna, che oggi si chiama la mia consorte legittima, ed è la madre di quattro marmocchi che portano il mio cognome.
Un marito che descrive le bellezze della propria moglie, commette, al meno peggio, un peccato di imprudenza e, in ogni modo, si rende ridicolo. D'altronde – è legge di natura – dopo dieci anni di matrimonio, il mio pennello s'è alquanto sfibrato, e sulla mia tavolozza troverei difficilmente, per ritrarre la mia cara metà, i colori vivaci e brillanti che in altri tempi avrei prestati alla effigie dell'amante.
*
* *
Dopo aver girovagato alcun tempo nelle contrade adiacenti, verso le ore dieci mi presentai al banco della posta.
Una lettera c'era… una lettera vellutata… profumata… Prima ancora di averla nelle mani e di leggere la soprascritta, io aveva indovinato che quella lettera era uscita dal boudoir di una donna.
Appena fui nella contrada, mi affrettai ad aprirla Quei caratteri mi erano già noti, e il nome di Amalia spiccava sotto le ultime righe. Non c'era luogo a dubitare; la donna che da parecchi mesi intratteneva corrispondenza d'amore con Arturo Della Valle, era la stessa che a me indirizzava quella lettera. Ecco presso a poco ciò che diceva quello scritto:
Pregiatissimo Signore
«Prima di prendere una determinazione, ho voluto riflettere una intera notte. Prego anche voi di fare altrettanto prima di decidervi ad un passo, dal quale può dipendere il mio ed il vostro avvenire.
»Io vi parlerò colla massima franchezza, nella speranza che voi pure vi comportiate meco colla lealtà che si addice ad un uomo di onore, ad un uomo di spirito quale voi siete.
»Jeri mi avete detto che al leggere le lettere indirizzate al signor Arturo Della-Valle, voi foste preso da invincibile simpatia per la donna che le aveva vergate… Ebbene: a mia volta vi dico, che io pure ho subìto il fascino dei vostri scritti, che vi ho amato per la viva, appassionata eloquenza del vostro linguaggio, pei nobili ed elevati affetti che voi esprimevate.
»Quel signor Della-Valle, voi stesso lo diceste, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori consacrati ad una divinità misteriosa che tosto o tardi sarebbe venuta a raccoglierli. – Noi ci siamo intravveduti presso il piedestallo della statua… noi ci siamo riconosciuti… ed io tosto ho compreso che voi eravate l'ideale delle mie aspirazioni… il solo… l'unico oggetto del mio amore…
»L'uomo che io vagheggiava… l'uomo che mi aveva affascinato cogli accenti melodiosi della passione non poteva essere quel povero Arturo, così impacciato e melenso che non seppe connettere due monosillabi, quando io gli indirizzai la parola sull'angolo di via Monforte…
»Voi seguiste i miei passi… voi vi dichiaraste autore delle lettere indirizzate alla signora Amalia, ed io non ho esitato un istante a riconoscere che voi dicevate il vero.
»Quella rivelazione mi ha colmato di beatitudine. Il vostro aspetto, il calore del vostro linguaggio non hanno fatto che ravvivare le mie simpatie – il mio cuore da quell'istante si avvinse a voi, e una indefinita speranza mi balenò al pensiero.
»Mi sarò io ingannata?
»Sarà questo un sogno passeggiero come tanti altri?..
»Ciò dipende da voi. Oramai, l'Arturo Della-Valle ha mutato di nome; egli si chiama Eugenio Renzi. La mistificazione è svanita, l'equivoco è dissipato. Noi ci troviamo di fronte a viso scoperto – voi avete detto di amarmi – io vi amo.
»Riflettete bene, ve lo ripeto e ve ne supplico, prima di prendere una risoluzione. Se vi pare che il vostro amore sia qualche cosa di serio e di elevato, non una effimera ebbrezza; se credete che esso possa resistere al tempo ed alle avversità, in tal caso – in tal caso soltanto – dirigete i vostri passi verso il luogo dove ieri ci siamo per la prima volta incontrati… Io sarò là ad aspettarvi, domattina, col cuore ansante di desiderio e di terrore…
»Non è mestieri che voi mi preveniate con una lettera… La vostra apparizione equivarrà ad una conferma d'amore… ad una promessa di eterna felicità. Se non verrete, vorrà dire che anche questa volta io dovrò rinunziare al paradiso sognato, e piangere nelle tenebre l'ultima illusione della mia giovinezza.
Amalia».
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Sebbene a quell'epoca io fossi uno sventato di prima classe, pure quella lettera gettò nel mio cuore un insolito turbamento. Voi converrete, miei ottimi amici, che il caso era abbastanza singolare per dar a riflettere, e suscitare qualche allarme nel più matto dei matti.
Ammirando la schiettezza di quella donna, io non poteva a meno di essere sorpreso della sua disinvoltura nel mutare di amanti. L'eccentricità di quel carattere mi allettava in sommo grado, ma io temeva in pari tempi ch'essa coprisse una leggerezza di cattivo genere.
Malgrado queste considerazioni e in onta di un indefinibile presentimento di sciagura, all'indomani mi recai sul luogo del convegno.
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Allo scoccare delle otto ore, la mia bella misteriosa spuntò dalla stradicciuola che dà sul bastione, e mosse ad incontrarmi con passo accelerato. Ella vestiva colla massima eleganza, e in luogo del velo, questa volta portava in testa un bizzarro cappellino di paglia.
Nell'abbordarmi, mi porse il braccio senza esitazione, con adorabile abbandono. Il di lei volto era sorridente, e gli occhi si fissavano in me colla espressione della più cordiale benevolenza.
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– Sì, il cuore mi diceva che sareste venuto… Come sono felice!.. usciamo dalla porta… allontaniamoci dalla città… gettiamoci all'aperta campagna… Andiamo a perderci in quel labirinto di stradicciuole deserte, dove esultano i liberi uccelli fra il sorriso delle acque e dei fiori…
E così parlando, mi traeva seco pel braccio, e noi uscivamo dalla città come due amanti che si conoscano da mesi.
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Non riferirò il lungo ed animato dialogo che ebbe luogo fra noi, sotto l'ombra di non so quanti faggi, al mormorio di non so quanti ruscelli. Vi dirò solo che al contatto di quella donna tutte le mie apprensioni svanirono. La nostra conversazione assomigliava ad un duetto istromentale che esprime dei concetti indefiniti. Ci parlavamo come due esseri che non hanno rapporti col mondo. Eseguivamo delle variazioni, a volta patetiche, a volta brillanti, sovra una sola melodia – la melodia dell'amore.
Così passarono parecchie ore. – Al momento di rientrare in città, noi sostammo presso gli argini del ponte.
– Quando ci rivedremo? – mi chiese ella, coll'accento dell'insaziato desiderio…
– Quando vorrai – le risposi – quando senza comprometterti…
– Ebbene: a che servono le dilazioni?.. Poichè ti ho dato tutto il mio amore io debbo anche accordarti la mia piena fiducia. No! le convenienze, i pregiudizi del mondo non possono impormi – io abborro le ipocrisie. Io mi abbandono a te… ti affido il mio onore la mia riputazione… tutta me stessa. La mia casa ti è aperta – io ti aspetterò tutti i giorni… a tutte le ore… Fra noi da questo momento è tolta ogni barriera… io sfido tutte le dicerie… come sono disposta ad ogni sacrifizio. Se questa sera… se domattina vorrai recarti alla mia casa, io ti correrò incontro a braccia aperte, e noi vedremo rinnovarsi nella intimità del mio piccolo appartamento le ore deliziose che abbiamo passate questa mane sotto la vôlta del cielo sereno…
Tali presso a poco erano le sue parole: ma io non potrei descrivervi l'enfasi della voce e degli accenti. La sua esaltazione pareva toccasse il delirio.
– Amalia, le dissi stringendo colla più viva commozione la sua mano nella mia; io ammiro il tuo entusiasmo e ti sono grato della fede che in me riponi, ma non posso incoraggiarti al sacrifizio de' tuoi doveri e della tua pace. Non accusarmi di freddezza se ti parlo il linguaggio della ragione. Fino ad ora noi abbiamo conversato come due esseri che appartengano ad un mondo ideale, dimenticando, nelle estasi del nostro amore, il triste realismo della vita. Noi stiamo per rientrare nella città, e per riprendere il posto che la società ci ha inesorabilmente assegnato. Prima di separarci è necessario che noi avvisiamo ai mezzi di rimuovere gli ostacoli che potrebbero opporsi alla nostra felicità. Io sono libero come gli augelli dell'aria – ma tu… Amalia!.. Puoi tu dire altrettanto? Puoi tu obliare di avere un marito ed un figlio? Dovrò io, perchè ti amo, fomentare la tua esaltazione fino al punto di renderti ribelle alle convenienze che il tuo stato ti impone, e trascinarti per una via piena di affanni e di umiliazioni? Meno male se non si trattasse che di un marito, ma poichè un figlio ci sta di mezzo…
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A questo punto della mia patetica allocuzione, una chiassosa risata mi ruppe gli accenti sul labbro.
– Mio marito!.. Mio figlio! – esclamò la giovane donna, abbandonandosi senza ritegno alla ilarità che la invadeva. – Ma dunque tu credi… tu puoi supporre?.. Oh vedi un poco i bei pazzi che noi siamo!.. Abbiamo passate due ore a parlarci d'amore, a fabbricarci colla immaginazione un avvenire di gaudio e di felicità, e non abbiamo pensato a liberarci dalle chimere. Via! sta di buon animo, Eugenio mio – il marito, il tremendo marito non esiste. Il marmocchio che rappresentava una parte sì patetica nelle mie lettere, appartiene, per diritto naturale e legittimo, ad un'Amalia che tu non conosci, all'amante del tuo amico Della-Valle. È tempo davvero che noi discendiamo nella vita reale per dissipare ogni equivoco. Noi eravamo in quattro a giuocare la partita. Tu eri il segretario, il consigliere intimo di un Arturo imbecille; io d'altra parte scriveva delle lettere d'amore per conto di una signora Amalia, ammogliata con prole, ma poco ferma nella grammatica e nella ortografia. Tu ti invaghisti di conoscere l'amante del tuo amico. Io, nel leggere le tue risposte appassionate, sentii il bisogno di vederne l'autore. Il caso non poteva meglio favorirci. Domenica scorsa, per una indisposizione subitamente sopravvenuta, la signora Amalia doveva mancare al convegno… Io colsi l'occasione di volo… Spinta dalla passione, venni sul luogo dell'abboccamento… Mi accostai ad Arturo… Fingendomi messaggiera della amica indisposta, gli diressi la parola… Quale disinganno!.. Alle poche e tronche frasi proferite da colui, io mi accorsi d'aver a fare col più volgare degli idioti. Ma tu eri là… tu corresti sui miei passi… tu mi arrestasti… mi stendesti la mano, e alle prime parole da te proferite io conobbi l'autore delle lettere che tanto mi avevano impressionata. Quanto gaudio in quella rivelazione! Io tornai alla mia casa coll'anima inebbriata. Ogni scrupolo, ogni rimorso svanì dal mio cuore. Ti scrissi, ti svelai candidamente la mia passione… ti pregai di usar meco l'uguale franchezza; ed oggi, dopo le espansioni che avvennero fra noi, io mi sento pienamente sicura del tuo amore e beata di affermarti che niuna barriera, niun ostacolo si interpone ai nostri voti. Lascia dunque ch'io mi appoggi al tuo braccio. Noi possiamo entrare in città e attraversare la folla così allacciati, senza incontrare uno sguardo geloso o suscitare un mormorio di riprovazione. Procediamo per la nostra via colla fronte alta e serena; io ti condurrò alla mia casa, dove un'ottima zia ci accoglierà entrambi come figliuoli. Più tardi ti presenterò a' miei fratelli, ai parenti…
– Basta!.. basta!.. con comodo… uno alla volta!.. troppa felicità!.. – interruppi io, accelerando il passo colla mia donna sul braccio. A queste frasi concitate e convulse tenne dietro un mostruoso silenzio. Da quel momento io mi sentii accalappiato. Io comprendeva che quel mio adultero amore non poteva avere altra soluzione fuorchè… il matrimonio. Infatti, noi attraversammo la città come due consorti legittimi; io mi lasciai condurre alla casa della giovane donna, strinsi conoscenza colla zia, dichiarai ad essa le mie buone intenzioni… e di là a quattro mesi divenni il consorte legittimo della signora Amalia Ferrarini maestra di prima classe alle scuole di Bassano Porrone!