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Daniel Nabaäm De-Schudmoëken

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A quei tempi, che sotto molti aspetti somigliavano ai presenti, io sedeva una mattina con altri pochi visitatori nel salotto di una amabile contessa, assai celebre in Milano pel suo talento di pianista non meno che per la sua bellezza e le sue prodigalità di ogni genere.

Come al solito, si parlava di musica; ed era in campo una discussione sulla supremazia dei maestri tedeschi, in fatto di composizioni istrumentali. La contessa, tuttochè italianissima nel senso politico, in arte si professava tedesca.

La conversazione venne interrotta dal servo di anticamera, il quale, presentando alla contessa una carta di visita, annunciava l'arrivo di un nuovo personaggio.

– Entri pure! – disse la contessa sfavillante di gioia. – E quella espressione del volto pareva dinotasse l'intervento di un alleato inatteso.

Il cameriere poco dopo ricomparve sulla porta, introducendo, con uno sforzo di pronunzia visibile, il signor Daniel Nabaäm De-Schudmoëken.

Era un uomo dai trentacinque ai quarant'anni, abbigliato con quella eleganza alquanto caricata, che contraddistingue gli artisti. Nel suo modo di presentarsi c'era la disinvoltura e la franchezza di chi ha fatto l'abitudine alla curiosità del pubblico ed all'applauso dei teatri.

Si inchinò leggermente ai circostanti, baciò la mano alla contessa, e, tratta dal portafogli una lettera, gliela porse col garbo più distinto.

– Ah! ah! il barone Teghetoff! – esclamò la dama, dopo aver letto – ecco un signore che non ha mai disertato dal campo dell'arte. E di quanto io gli vado debitrice! Egli non ha mai dimenticato di indirizzarmi i più eletti e celebri talenti di Europa… L'anno scorso era Talberg, pochi giorni fa era Wanwondegger, ed oggi il signor Daniel Nabaäm De-Schudmoëken pianista di S. M. il re del Belgio, che io mi chiamo onoratissima di presentare sul momento ai miei migliori amici.

Quanti erano nel salotto salutarono amabilmente l'artista, indirizzandogli quelle banalità lusinghiere che le persone bene educate sanno prodigare anche agli sconosciuti, quando per essi interceda la raccomandazione di una signora.

Frattanto io pensava: dove mai ho veduto costui?.. la sua fisonomia non mi è nuova.

E in luogo di interrogare o di adulare, io fissai uno sguardo così scrutatore sull'artista, che questi a sua volta prese a guardarmi con marcata attenzione.

Quella corrente di occhiate non isfuggì alla contessa. Ella credette farsi interprete di un mio desiderio, presentandomi più direttamente al suo raccomandato, e declinando a lui il mio nome e cognome, non senza aggiungere qualche cenno biografico.

– È bene, signor Nabaäm De-Schudmoëken, poichè avete intenzione di produrvi a Milano, che vi mettiate in rapporto con qualche giornalista, e sono lietissima che qui, nel mio salotto, voi stringiate una alleanza che potrà giovarvi.

L'artista, leggendo ne' miei sguardi una certa preoccupazione, arrossì leggermente; ma dominando tosto il proprio imbarazzo, riaperse il portafogli, e, trattane una lettera, me la porse con queste parole:

– Per comprendere, o signore, quanto io tenga alla vostra amicizia ed alla vostra protezione, non avete che a leggere le poche righe di questo scritto. Conoscendovi per fama, ho voluto premunirmi di una commendatizia al vostro indirizzo. – La persona che vi scrive e che a voi caldamente mi raccomanda, si dice uno dei vostri migliori amici.

Mi trassi in disparte, apersi la lettera, e, dissimulando a mala pena la mia sorpresa e la mia commozione, lessi mentalmente quanto segue:

«Ottimo signore,

«Sono a Milano da due giorni, e intendo far sentire al ridotto della Scala alcune mie composizioni. Ha ella dimenticato la gioconda serata che noi passammo insieme la sera del ventiquattro marzo del mille ottocento quarantacinque all'albergo della Bonne femme di Torino? Ella mi aveva furiosamente applaudito il giorno innanzi, in un concerto al quale assistevano venti persone. Oggi, dopo quindici anni, io la prego a volermi riudire. Colui che si fa annunziare in Milano coll'esotico nome di Daniel Nabaäm De-Schudmoëken pianista di S. M. il re del Belgio, si chiamava in altri tempi Bartolomeo Scannagatta di Biella. Per carità, non mi tradisca!.. Venga piuttosto a trovarmi domani all'albergo del Marino, verso le cinque pomeridiane. Pranzeremo assieme, e dopo il caffè, s'ella avrà tempo e pazienza di ascoltarmi, le spiegherò il segreto del mio bizzarro pseudonimo, raccontandole una istoria piena di amarezze e di follie. Mi affido a lei e mi dico

suo dev. Servo

Bartolomeo Scannagatta.»

Era proprio lui! Le mie reminiscenze non mi avevano ingannato – il tono della lettera e la eloquenza delle occhiate che tratto tratto l'artista mi indirizzava mentre io stava leggendo, mi imponevano di rivolgergli tosto una parola rassicurante.

Mossi a lui, gli stesi la mano; egli mi porse la sua, e in quella stretta leale, un tacito patto fu stipulato fra noi.

Poco dopo, quand'egli fu uscito dalla sala, la contessa si pose a raccomandarmelo colla più viva espansione.

– Nessuno dimentichi ch'egli è un mio protetto, ripetè più volte la contessa a quanti facevano parte del circolo; quando il barone Teghetoff ci raccomanda un artista, è indubitabile che questi dev'essere un talento superiore. E poi… che ne dite di questo nome?.. Daniel… Nabaäm De-Schudmoëken? Dio sa se lo pronunzio per bene!

– Dev'essere un pianista insuperabile nei pezzi di difficoltà – disse uno degli astanti – ciò si comprende dalle molte consonanti del nome…

– Ed anche, soggiunse un altro, dalla k aspirata preceduta dal dittongo…

– Non c'è' dubbio – rispose la contessa – questi artisti superiori che ci vengono dall'estero hanno dei nomi imponenti e, direi quasi, rivelatori. Talberg? Che ve ne pare? Non sentite forse, nella posa solenne e direi quasi patriarcale di questo nome, il pianista pacato, maestoso, che procede sicuro sulle onde melodiche, come un poderoso vascello già provato dalle tempeste e dai venti?.. Liszt!.. Non vedete, a questo nome, il lampo e la folgore guizzare sulla tastiera? Non vi pare che una favilla elettrica, sprigionandosi dalle dita nervose, si comunichi alle corde del gravicembalo e da quelle alle fibre degli uditori?.. Hans Von Bülow…

La contessa, nel proferire questo nome, spalancò le labbra siffattamente, che la sua prima aspirazione somigliò ad uno sbadiglio. I circostanti, sbadigliando per consenso, ripeterono non so quante volte il nome di Häääns… E siccome io penava a trattenere uno scoppio di buon umore indiscreto, prima che il grottesco della conversazione provocasse una crisi, profittai dell'incidente e presi commiato.

All'indomani, verso le ore cinque pomeridiane, mi recai all'albergo del Marino, dove il musicista mi attendeva pel pranzo.

Egli aveva fatto apparecchiare la tavola in un piccolo salotto attiguo alla sua camera da letto.

Sulla tavola erano quattro coperti.

– Abbiamo dunque degli altri commensali?

– Gente di fiducia – rispose l'artista sorridendo – mio padre e mio nipote.

E poco dopo, al momento in cui il cameriere serviva la zuppa, entrò nel salotto un vecchio dal volto sano ed intelligente, in compagnia di un grosso garzone senza barba che poteva avere diciotto anni.

La presentazione fu spiccia.

– Ecco un ottimo padre, venuto espressamente da Biella per assistere al mio concerto e per protestare…

– Basta, basta! interruppe il vecchio – in presenza della minestra deve tacere ogni questione – parleremo dopo.

Durante il pranzo, venni a sapere che il padre del nostro pianista era stato per molti anni capo-musica della banda e organista della chiesa di Biella; che aveva composto parecchie sinfonie e due messe, l'una da morto, l'altra da vivo, e che il figlio doveva a lui solo la molta erudizione musicale onde era fornito, nonchè la sua abilità di suonatore.

Levata la mensa, ci assidemmo in faccia al caminetto. Il vecchio fece recare due bottiglie di barbéra, ch'erano, com'egli diceva, la sua tazza quotidiana di caffè. E quando ebbe vuotato il primo bicchiere:

– Ora, a noi altri! proruppe con una certa modulazione di voce che sentiva la stizza e la benevolenza – sentiamo cosa sa dire per sua discolpa il signor Daniel Rabadàn!

L'artista accese uno zigaro, e volgendosi ora a me, ora a suo padre, cominciò di tal guisa:

– Come lei vede, questo mio ottimo padre non sa perdonarmi ch'io abbia cangiato nome. Egli pretende che io abbia sottratto al nome già illustre degli Scannagatta una parte di gloria che gli spettava per diritto…

– Sicuramente! interruppe il vecchio – e non contiamo il gran danno che tu porti a tutti i Bartolomei (tuo nipote compreso), i quali attendono da secoli che un uomo di genio rifletta sul loro nome vilipeso qualche raggio di luce.

Il giovane Bartolomeo, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, si lasciò sfuggire dalle labbra un: contagg!

– Se mi interrompete ad ogni frase, io non verrò mai a capo di giustificarmi… Lasciatemi dire… Anche i preti, prima di assolvere o di lanciare la scomunica, attendono che il reo abbia finita la confessione. Ed è una confessione, o per lo meno un resoconto sincero della mia vita d'artista che mi trovo in obbligo di fare. Voi, mio padre, ne conoscete una parte, ma vedo che è mestieri ricordarvela. Abbiate dunque la pazienza di ascoltarmi, e poi, quanto al verdetto finale, ci rimetteremo all'arbitrio di una persona affatto disinteressata, vale a dire al nostro amico giornalista.

Il vecchio vuotò un secondo bicchiere, e strinse le labbra in segno del grande sforzo che gli costava il silenzio.

«Non ricordo quale filosofo, riprese il pianista, abbia dettato un libro per dimostrare l'influenza che hanno i nomi sul destino degli individui. Certo è che l'avere un bel nome, un nome geniale e simpatico, ordinariamente porta fortuna. Non ho mai capito questa predilizione dei nostri antenati nell'appropriarsi dei cognomi tolti a prestito dalle bestie. I Gatti, gli Orsi, i Leoni, i Bove, i Capponi, i Galli, perfino i Pulci, i Lumaga, i Sanguettola, i Mosca, i Tenca, i Ghezzi, i Formica, i Volpi, i Merli, gli Allocchi, ecc., ecc., costituiscono la maggioranza delle famiglie italiane… Poi seguono, in gran numero, i cognomi composti, dove parimenti figurano le bestie; tali i Pestagalli, i Mangiagalli, i Caccialupi, i Portalupi, i Cacciamosche, i Pelegatti, ecc., ecc., e infine, per tacer d'altri, gli Scannagatta. Ecco una statistica che potrebbe fornire ad uno storico, ad un archeologo, fors'anche ad un filosofo moralista, argomento di serie considerazioni. Quanto a me, per non istancare la vostra pazienza, mi limiterò a dirvi che il cognome di Scannagatta fu in certo qual modo la mia disgrazia originale. Non intendo darne colpa al mio ottimo padre, qui presente; nè tampoco serbo rancore a quel dabben cognato che tenendomi al fonte battesimale, si piacque aggravare la mia disfortuna gratificandomi del nome di Bartolomeo. – Fatto è, che all'età di sei anni, quando entrai nella scuola comunale per iniziarmi ai primi esercizi dell'alfabeto, io cominciai ad esperimentare la funesta influenza de' miei due nomi. Tutte le volte che il maestro mi chiamava all'appello, dai banchi della scolaresca io udiva insorgere una specie di miagolio che somigliava ad una protesta contro una scannatura di gatti; – e quando, nel recitare le prime lezioni, mi avveniva di rimanere a bocca chiusa, il maestro, gettandomi il libro alla faccia: Va là, mi gridava, va pur là, che sarai sempre un bartolomeo!

»Queste prime umiliazioni prodotte dal nome mi irritarono, mi contristarono siffattamente, che un bel giorno (voi, mio padre, non lo avrete scordato) venni a casa tutto piangente a manifestarvi il mio fermo proposito di non tornare mai più alla scuola. Il mio proposito fu tanto pertinace che voi vi appigliaste al partito di provvedere da voi medesimo alla mia educazione, e mi insegnaste con tanta amorevolezza e pazienza la bell'arte della musica. Condussi, per una diecina d'anni, una esistenza da romito, uscendo rare volte di casa e sempre solo, studiando indefessamente. I primi successi musicali, ottenuti a Biella nel circolo ristretto dei nostri parenti ed amici, mi avevano ridonato il coraggio, riconciliandomi perfino coi due nomi fatali, che erano stati l'origine delle mie disavventure infantili. Venne il tempo di produrmi nel gran mondo. Tutti mi animavano ad uscire da Biella; e voi stesso, ottimo padre, vi mostravate convinto che io era, per la mia età, un piccolo portento.

»Nella primavera dell'anno… mi recai dunque, pieno di illusioni e di speranze, alla capitale del regno. Mi accompagnava il cognato Bartolomeo. Ignari sì l'uno che l'altro degli usi del mondo, non ci eravamo data veruna briga per premunirci di lettere commendatizie. Noi giungevamo a Torino colla semplice scorta del mio talento ignorato e colle cento lire messe assieme dalla famiglia per le spese di quel primo cimento. – Ci recammo da un capocomico per ottenere che mi lasciasse suonare qualche pezzo fra gli intermezzi della rappresentazione. – A chi ho l'onore di parlare? chiese il capocomico. – Io mi chiamo, rispose il cognato, Bartolomeo Zuffolone di Biella, e questo giovane è il signor Bartolomeo Scannagatta… – Quanti Bartolomei! interruppe l'artista – e tutti di Biella?.. Basta! penseremo… rifletteremo… – In quel punto sopravvenne un signore, che era, per quanto sapemmo dippoi, il proprietario del teatro. L'artista drammatico si tenne in obbligo di presentarci a lui. – Zuffolone! Scannagatta! che razza di nomi! esclamò il nuovo personaggio, squadrandomi dal capo al piede come fossimo due mendicanti. – Ci mancherebbe altro! Con questi due nomi sull'avviso, faremmo scappare la gente. – E ci piantò là, traendo seco il capocomico. – Confusi, umiliati da questo primo accoglimento, uscimmo dal teatro e ci demmo a passeggiare per più di un'ora sotto i portici di Po, meditando e discutendo sul da farsi. Per caso, ci venne veduto un magazzino, dove si davano cembali a nolo. Entrammo, sotto pretesto di noleggiare uno strumento, e dopo alcune parole, parendo a noi che il padrone della bottega fosse un uomo ammodo, chiedemmo a lui delle informazioni sulle pratiche a farsi per dare un concerto. – Un concerto di pianoforte!.. esclamò il dabben uomo inarcando le ciglia – ella non farebbe un soldo in questo momento… Abbiamo qui uno dei più celebri pianisti d'Europa che fa furore nelle sale e nei circoli – la società torinese farnetica per questo straordinario talento – ella avrebbe l'aria di voler sfidare un confronto impossibile… insomma… io la sconsiglio dal tentare la prova. – E come si chiama questo portento dell'arte? domandai io, con un leggiero accento di ironia che tradiva le prime emozioni del mio orgoglio giovanile. – Si chiama… si chiama, rispose il noleggiatore dei pianoforti ingrossando la voce, monsieur Etzcy'. – Salute! Dio la prosperi! esclamammo ad una volta mio cognato ed io, credendo che l'altro avesse sternutito – e vedendo che quegli non parlava: – dunque si chiama? replicò mio cognato. Ma non glie l'ho già detto? Etzcy'!.. – Ti scoppi il naso! – brontolò mio cognato – e senza altro dire, uscimmo dalla bottega.

»Com'io riuscissi, dopo molte noie e molti sacrifizi, a dare il mio primo ed unico concerto a Torino, non val la pena ch'io lo narri. Voi foste testimonio (e qui il narratore diresse a me la parola) dello scarso concorso di spettatori, del loro contegno indifferente e quasi nemico. Non ho mai dimenticato nè sarò mai per dimenticare che voi, quasi solo, osaste interrompere con applausi e con voci di ammirazione il mio ultimo pezzo. La stretta di mano amichevole e le incoraggianti parole che mi volgeste dopo il concerto furono il solo compenso che io mi ebbi in quella angosciosa serata; senza di voi, il mio giovane cuore da artista si sarebbe lasciato vincere dalla disperazione.

»Tornammo a Biella di assai cattivo umore. Di quel mio debut non parlò alcun giornale tranne un ignobile fogliaccio umoristico, dove il cronista teatrale si scusava coi suoi lettori di non aver assistito al concerto per la diffidenza che gli avevano ispirato i due nomi di Scannagatta e di Bartolomeo.

»Si tenne un consiglio di famiglia. Voi non oblierete, mio ottimo padre, quanto io abbia combattuta la vostra idea fissa di farmi ritentare la prova a Milano In me era già entrata la convinzione che col mio nome di Bartolomeo Scannagatta non era possibile il successo fuori dalla Biella nativa.

»Le vostre istanze mi vinsero. – Voi mi persuadeste che il nostro maggior torto era quello di andare a Torino senza lettere commendatizie, e questa volta me ne procacciaste una mezza dozzina. Partii solo. Il nome di Bartolomeo Scannagatta mi pareva abbastanza grottesco senza condur meco, per rinforzare il ridicolo, un Bartolomeo Zuffolone. Io presagiva che qualora mio cognato mi avesse seguito a Milano, qualcheduno ci avrebbe accolto colla solita esclamazione di ironia: che posso io fare per due Bartolomei? E il mio presentimento colpiva nel vero. Se a Torino il mio sciagurato nome aveva alienata da me l'attenzione e la protezione dei dilettanti, a Milano mi accadde di peggio.

»Quando io mi recai al Conservatorio per ottenere una audizione privata, l'egregio direttore dello Stabilimento mi accolse con paterna benevolenza. Adunò i professori e gli scolari nella sala dei concerti, accompagnò la mia presentazione con parole incorraggianti; ma non appena egli ebbe proferito il mio nome, io m'accorsi che i giovani alunni ed anche qualcuno dei maestri si erano sbandati per nascondere la loro ilarità. – Che volete? Mi appressai al pianoforte di mala voglia – suonai quattro o cinque pezzi dinanzi ad un uditorio svogliato e disattento, e all'atto di abbandonare il mio posto, mi accorsi che nella sala non v'era più alcuno, tranne l'ottimo direttore.

»Questi mi mosse incontro, mi pose paternamente la mano in sulla spalla, e dopo aver encomiato le mie composizioni: «Mio buon figliuolo, soggiunse; è indubitabile che ella possiede un talento notevole, ma pure mi trovo in obbligo di avvertirla che in Milano difficilmente ella potrà farsi strada in questi tempi. Ella ha un torto grandissimo in faccia a quella che ora si suol chiamare la grand'arte, e questo torto consiste nella desinenza del suo nome… – Oh! che dunque? esclamai vivamente – sarebbe ancora questo sciagurato nome di Scannagatta!..

»Oramai a tale siamo giunti, proseguì il direttore-maestro, con un accento che rivelava l'angoscia, che i nomi di desinenza italiana non hanno più credito sulla piazza. – La straniomania è giunta a tale che io mi meraviglio sieno ancora tollerati al nostro Conservatorio una dozzina di maestri, nati e cresciuti nel nostro clima. La si figuri che l'altra settimana in questa medesima sala dov'ella ha trovato degli uditori così indifferenti od avversi, ha destato fanatismo un pianista compositore piovuto dal nord, a lei incomparabilmente inferiore sotto ogni aspetto. Ma egli aveva la fortuna di chiamarsi Sfrrrt…

»A quel punto, due gatti che stavano giocolando sul tappeto, fuggirono a salti per la scaletta che conduce al palco scenico. – Vedete! proseguì il Direttore – questi nomi che mettono in fuga i gatti fanno a Milano ben altri miracoli – giornalisti, musicisti, dilettanti, professori, alunni ne rimangono ammaliati… Se più dura la voga di questi nomi senza vocali e gonfi di aspirazioni, non si potrà parlare di musica e di concerti senza sputare ogni volta mezza dozzina di denti.

»L'egregio vecchio mi aveva dipinta al vero la situazione dell'arte e dei musicisti. Io presentai le mie lettere a due o tre giornalisti, i quali neppure si degnarono di annunziare il mio concerto – e dopo aver suonato al teatro Santa Radegonda, dinanzi ad un pubblico composto per la massima parte di droghieri e di ex-impiegati in pensione, i quali ebbero la bontà di applaudirmi a furore e chiedermi il bis di due pezzi, all'indomani ebbi la soddisfazione di leggere nell'appendice di un grave giornale che un pianista di nome Scannagatta, dopo essersi prodotto fra gli intermezzi della commedia, era partito alla mezzanotte da Milano in un omnibus carico di Biellesi venuti espressamente per ricondurre in patria quel loro genio incompreso.

»Fu allora, che esacerbato, avvilito, ma pure fidente nel mio ingegno e nel mio avvenire, io risolsi di abbandonare l'Italia per cercare all'estero quella protezione che dai nostri mi era negata. Mi scritturai in qualità di maestro concertatore, con un impresario di Stoccolma. Mi tuffai anima e corpo nella musica per dodici anni – ridussi, composi, trascrissi, diressi orchestre, diedi lezioni di canto e di pianoforte, mi produssi in concerti, e rinunziando al mio nome, come avevo rinunziato alla patria, mi creai e feci imprimere sulle mie carte di visita quel Daniel Nabaäm De-Schudmoëken, che in oggi fa tanto dispetto e tanta ira a mio padre.

»Chi esperimentò a vivere per molti anni lontano dal proprio paese, non ignora che quel malessere chiamato nostalgia assale, più presto o più tardi, anche coloro i quali non ebbero in patria che sconforti ed amarezze. – Questa fase della nostalgia venne anche per me. Era un bisogno, una sete di respirare l'aria nativa non solo, ma anche di assaporare il successo in quel paese che a me, negletto e rejetto, non cessava mai di presentarsi quale un giardino incantato delle arti.

»Doveva io, poteva io, dopo le traversie del passato, riprendere il mio sciagurato nome di Bartolomeo Scannagatta, nel giorno appunto in cui io veniva qui per chiedere ai miei connazionali il battesimo della gloria? I fatti che io vi ho narrati vi suggeriranno la risposta. Certo è che, appena fiutata l'aria di Milano, ho dovuto applaudirmi della mia risoluzione. Qual differenza fra l'accoglimento che in oggi viene fatto a Daniel Nabaäm De-Schudmoëken e quello già toccato al povero Bartolomeo Scannagatta di Biella! L'altro ieri, recandomi a visitare il più erudito dei vostri giornalisti, l'ho veduto estasiarsi di ammirazione nell'affissare il mio biglietto di visita. Un altro, nel proferire Nabaäm, rimase per due minuti a bocca spalancata, cogli occhi smarriti nelle palpebre. Due o tre membri della Società del quartetto, nell'udire un mio esecrabile waltzer tutto pieno di dissonanze, parvero assaliti da catalessi – tutte le dame patronesse vogliono vedermi, reclamano le primizie del mio talento – nelle aule del Conservatorio da due giorni è una gara fra maestri, alunni ed alunne, a chi meglio proferisca il mio nome – Stamattina ho ricevuta una lettera di quattro pagine, colla quale un giornalista mi chiede scusa se il mio nome venne stampato senza i due puntini sull'oë, e mi prega di attribuire questa irriverenza alla ignoranza del proto. Insomma…»

– Insomma, interruppe il padre dell'artista, poichè il mondo è tanto buffo, tanto gaglioffo, tanto infatuato di pregiudizi e di minchionerie…

– Trattiamolo com'esso merita – non è vero? E così parlando, l'artista prese amorevolmente fra l'una e l'altra mano la buona testa del vecchio, e gli impresse un bacio sulla fronte.

– Via! via! – riprese quell'ottimo padre raddolcito – chiamati Rabadam, chiamati Balaäm, chiamati come vuoi al concerto – ma quando il pubblico ti avrà applaudito, quando le dame saranno in svenimento, quando i giornalisti avranno sbuffato i loro oh! oh! di ammirazione – ti prometto ch'io salterò in mezzo della sala per gridare a tutta voce: «Sappiate, signori minchioni illustrissimi e colendissimi, che questo bel mobile che ha suonato come nessuno sa suonare, si chiama il signor Bartolomeo Scannagatta, figlio e scolaro di Girolamo Scannagatta qui presente, quondam organista della cattedrale di Biella…

– E musicista, perdio! e maestro come ce ne hanno pochi nel mondo…!

– E poi torneremo insieme a Biella…

– A far della buona e bella musica, in mezzo a gente che se ne intende davvero, perchè ha cuore e buon gusto.

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