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Autobiografia di un ex-cantante

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Or fanno trentadue anni, io era il più bel ragazzo della Valassina. Al paese mi chiamavano il Pirletta, perchè nei balli non v'era alcuno che mi vincesse. Mio padre era fattore del conte Bavoso, e poteva, nella sua condizione, chiamarsi un uomo agiato.

All'età di diciotto anni, l'organista del paese, sentendomi cantare le litanie, scoperse che io aveva una bellissima voce di tenore – una di quelle voci – diceva egli – che possono rendere in un anno da cento a duecentomila franchi.

Una tale scoperta, riferita a mio padre, non destò in lui veruna emozione; ma un giorno, mentre io stava nel giardino ripiantando dei cavoli e cantando alla distesa un'aria paesana, la contessa Bavoso si fermò estatica ad ascoltarmi.

La contessa era maniaca per la musica, e suonava il pianoforte come sanno suonare le contesse. Quando ebbi finito di ripiantare i miei cavoli, sentii chiamarmi a nome.

– Pirletta – mi disse la contessa – l'organista non mi ha ingannata – tu possiedi realmente una voce delle più rare… Tutto sta che alla voce si accoppino le altre disposizioni indispensabili a ben riuscire nell'arte: Quanto alla figura (e mi squadrava dal capo al piede attraverso l'occhialino) non c'è malaccio; ma ho timore che tu manchi di orecchio…

Portai ingenuamente le mani alle orecchie – la contessa sorrise, e, avviandosi verso la villa, mi invitò gentilmente a seguirla, chiamandomi non so ben quante volte imbecille.

Entrati nella gran sala, la contessa Bavoso andò a sedere al pianoforte. «Vediamo, mi disse, fin dove sai montare…»

Io non osava avanzarmi. La contessa si diede a percuotere il cembalo, e, dopo avermi raccomandato di spalancare per bene la bocca, mi invitò a riprodurre colla voce i suoni dei tasti.

Il mio orecchio era perfetto, e la contessa fu talmente sorpresa della mia intonazione, che volgendosi al conte, il quale era entrato nel salotto in sul finire dell'esperimento: «Sarebbe un peccato, gli disse, che tanto tesoro andasse perduto!» Bisogna assolutamente che questo ragazzo si dedichi al canto – e noi penseremo a farlo entrare nel Conservatorio.

Figuratevi la mia meraviglia, la mia gioia! Riferii a mio padre quanto era accaduto – egli crollò la testa di mal garbo, esclamando: «Purchè ci pensino loro!.. purchè io non abbia a sborsare un quattrino!» E quando seppe di là a pochi giorni, che il conte e la contessa si incaricavano di farmi istruire a loro spese, il buon uomo lasciò fare. Dopo tutto, egli avrebbe preferito che io fossi rimasto al paese a dirigere l'allevamento dei bigatti e la fabbricazione dei formaggini.

Io era al colmo della felicità. L'idea di recarmi a Milano, rivestito e ripulito, a fare la mia bella figura di zerbinotto elegante – la speranza di potere, nello spazio di pochi anni, realizzare una bella fortuna, e tornando al paese, acquistare delle possessioni, fabbricarmi un palazzo e menare splendida vita; tutto ciò mi esaltava lo spirito a tal segno, che io correva l'aperta campagna, misurava coll'occhio le terre coltive, sceglieva le posizioni più acconcie per edificarvi i miei castelli – cantava, gesticolava tutto il giorno, pregustando colla mia imaginazione di diciotto anni tutte le voluttà di un avvenire dorato.

E davvero c'era in me la vocazione, c'era la stoffa dell'artista. Vi basti il sapere che già da due anni io era innamorato. Fra le cameriere della contessa Bavoso c'era una brunetta chiamata la Savina, una strega di bellezza e di furberia. Era nata al paese, e da fanciulli avevamo giuocato insieme a gatta cieca, al dammelo e prendilo, al fuori e dentro e ad altri sollazzi innocenti. Ma dopo un anno passato a Milano al servizio della contessa, aveste veduto che arie da gran dama! Quand'ella tornava alla villa, nei due mesi dell'autunno, ci guardava tutti con un fare da sultana come volesse dire: ve' là questi zotici… questi bifolchi!.. Appena degnava rispondere al mio saluto; ed essendomi una volta arrischiato ad offrirle un mazzetto di garofani, mi volse la schiena esclamando: «Levati dalle mani quei guanti di letame se vuoi che le signore accettino i tuoi fiori!»

Orbene: non appena si sparse la nuova che il conte e la contessa Bavoso si erano incaricati di condurmi a Milano per farmi educare nella musica, la Savina mutò improvvisamente di modi a mio riguardo. Una mattina, mentre tutti dormivano ed io era disceso nell'orto a fantasticare sul mio brillante avvenire, quella strega mi venne incontro tutta bella e sorridente per congratularsi della mia buona fortuna. – Spero che a Milano ci vedremo – diss'ella, frugandomi nell'anima colle sue ladre pupille. Naturalmente, tu verrai a trovare la contessa… e poi… Milano è grande. Tutto sta che una volta divenuto gran signore, ti degni ancora di scambiare un saluto con noi… gente bassa… persone di servizio…

Io mi sentiva una maledetta voglia di saltarle al collo e di rassicurarla energicamente del mio amore e della mia eterna fedeltà. Non osai tanto in quel primo abboccamento; ma le occhiate e le assicurazioni di simpatia ch'io m'ebbi dalla scaltra figliuola posero il colmo alla mia esaltazione.

Nel paese, già tutti mi trattavano con rispetto e devozione. L'organista andava ripetendo che di là a dieci anni sarei tornato milionario. Io gli prometteva che, qualora i suoi pronostici si fossero realizzati, avrei fatto costruire un nuovo organo nella chiesa parrocchiale a tutta mia spesa.

Da molti anni si agitava nel consiglio comunale e nella fabbriceria il progetto di un nuovo e grandioso campanile; si aspettava, per mandare ad effetto quel vasto disegno, che il comune e la fabbriceria adunassero il denaro occorrente. Il Sindaco, uomo di larghe vedute, dopo avermi interpellato sulle mie disposizioni, propose al consiglio di differire l'impresa fino a che io fossi in grado di concorrervi co' miei capitali. I consiglieri, non avendo di meglio a suggerire, riconobbero che il sindaco aveva pienamente ragione, e votarono unanimi il seguente ordine del giorno:

«Noi sottoscritti.

»Considerando che le casse del comune e della fabbriceria sono affatto vuote pel momento; abbiamo deliberato di prorogare per dieci anni la erezione del grandioso campanile già da sei lustri ideato e discusso, nella fiducia che in questo lasso di tempo un nostro illustre e benemerito concittadino, il quale fin d'ora si mostra animato dalle migliori intenzioni a tale riguardo, possa adunare e fornire la somma occorrente acciò il grandioso monumento riesca degno in tutto e per tutto della nostra e della ammirazione dei posteri.»

La notizia di questa deliberazione suscitò delle polemiche tra i villani. I più, affidandosi alle promesse dell'organista e d'altri personaggi autorevoli, si tennero persuasi che di là a dieci anni i loro voti sarebbero esauditi. Altri invece accolsero la notizia con una significante crollatina di capo. «Oh! sta a vedere – dicevano – che sarà lui… proprio lui… a fornirci il denaro pel campanile – il Pirletta!..»

Al primo di novembre, si doveva partire per Milano. Il mio equipaggio era completo. Il conte Bavoso mi aveva ceduti i suoi abiti usati, che ridotti pel mio dosso dal sartore del villaggio, mi andavano a meraviglia Abbracciai mio padre colle lagrime agli occhi: mi congedai pulitamente dal curato, dal sindaco, da tutte le autorità del luogo, e salii fra le acclamazioni dei villani dietro la carrozza della contessa. Imaginate il mio tripudio quando vidi la Savina collocarsi al mio fianco, e pensai che durante un viaggio di otto ore avrei potuto intrattenermi con lei nel più stretto dei colloqui possibili!

Non vi descrivo le emozioni di quel viaggio. La Savina mi diè tante prove di amabilità, che io le promisi di sposarla non appena avessi compiuta la mia educazione musicale.

All'indomani del nostro arrivo a Milano, la contessa iniziò le sue pratiche per farmi entrare al Conservatorio. Quella donna otteneva ciò che voleva, ed io venni ammesso senza difficoltà. Il mio primo maestro era un uomo in sui cinquant'anni, e godeva fama di insuperabile nell'arte di formare le voci.

– Vieni qua, il mio bravo giovinotto – diss'egli assidendosi al pianoforte – la tua nobile protettrice mi vuol far credere che tu possegga una bellissima voce. Probabilmente la signora contessa ha voluto dire che i tuoi organi non hanno difetti cardinali. Belle voci non si danno in natura; starei quasi per dire che in natura non esistono voci. I suoni sono opera dell'arte; e l'arte, figliuol mio, è frutto dello studio e di un ben regolato esercizio. In ogni modo, vediamo la tua estensione.

Il maestro prese a toccare il pianoforte, ed io mi diedi a vociare di tutta lena.

La mia voce timbrata e sonora saliva dal do basso al si bemolle acuto con ammirabile facilità. Terminato l'esperimento, il maestro mi rivolse una strana domanda:

– Ebbene?.. Che cosa intendiamo di fare? Vogliamo cantare il tenore, il baritono o il basso profondo?

– A dir vero, signor maestro, l'organista del paese e la illustrissima signora contessa Bavoso mi avevano fatto sperare che cantando da tenore, in pochi anni mi sarei fatto milionario o qualche cosa di simile. Ho promesso al signor sindaco di contribuire per diecimila franchi all'erezione del nuovo campanile…

– Caspita! hai delle idee molto elevate, figliuol mio!.. ma poichè la signora contessa vuole un tenore; tanto fa, le daremo ciò che le abbisogna.

Il maestro serbava nel parlarmi la maggior serietà, ma forse nell'intimo del cuore si burlava de' fatti miei.

Cosa strana! questo professore autorevole e stimato, che aveva la pretesa di creare le voci a totale beneficio dei suoi allievi, mancava affatto di voce.

– Un tenore, diceva egli, colle opere che si scrivono in giornata, non può fare a meno del si naturale, del do ed anche del do diesis. Convien dunque, figliuol mio, che ci mettiamo di proposito a procurarci queste note essenziali. Per conquistare gli acuti non vi è che un solo mezzo: rinvigorire le note più basse, le quali rappresentano nella scala armonica le fondamenta dell'edifizio. Credi tu che si possa elevare una casa di cinque o sei piani quando non si pongano innanzi tutto delle basi massiccie?

Con questa logica da capo mastro il professore mi impose di esercitare quotidianamente le mie quattro note più basse.

Do re mi fa, fa re mi do– tale fu il vocalizzo obbligatorio de' miei primi esercizi. Di là a tre mesi io perdetti il si bemolle; a metà del semestre il la acuto scomparve affatto; alla fine dell'anno, da tenore divenni baritono.

Non debbo tacervi che il mio autorevole maestro si preoccupava mediocremente di questi miei progressi. La sua lezione durava ordinariamente dieci minuti e si chiudeva colla formola di congedo: Bravo! molto bene! benissimo!

Le lezioni delle allieve duravano più a lungo.

Ho notato che tutti i professori del Conservatorio ponevano una cura speciale nella educazione delle ragazze. Allorquando il mio maestro inculcava il solfeggio alle future regine della scena, prendeva la posa di un ispirato e mostrava il bianco degli occhi. – Quelle lezioni lo affaticavano assai. Contuttociò la più parte delle allieve perdevano anch'esse la voce, ed altre cose.

Alla fine dell'anno, il mio sol acuto minacciava di ecclisarsi – il maestro se ne avvide, fece un rapporto al direttore dogli studi, ed io fui sottoposto ad un consiglio di professori, i quali fra gli sbadigli firmarono il verdetto della mia assoluta impotenza a proseguire negli studi.

Immaginate la mia sorpresa, il mio disappunto, la mia desolazione!

Mi recai dalla contessa Bavoso. Il sindaco del paese, venuto a Milano per certi suoi affari, era in quel giorno dalla contessa. Mi presentai trepidante come un reo che va incontro al suo giudice – la presenza del sindaco raddoppiava le mie angoscie.

– Bravo! molto bene! benissimo! – cominciò la contessa. – Il bell'onore che vi fate! Ecco la lettera del vostro professore – leggete se vi dà l'animo… E poi… abbiate ancora il coraggio di comparirci davanti!

Io lessi, e rimasi oltremodo meravigliato in vedere le strane cose che in quel foglio si dicevano sul conto mio. Mi si accusava di poca assiduità alle lezioni; si attribuiva il progressivo e non logico deperimento della mia voce a qualche vizio secreto, a qualche disordine organico prodotto dalla crapula o da altri abusi più gravi.

Fui preso da indignazione. – Signora contessa! esclamai coll'accento più vivo – mi meraviglio che questi signori mettano in giro tali calunnie… Io non ho mancato mai alle lezioni, e la mia condotta fu sempre quella di un onesto figliuolo. Il maestro pretendeva fabbricarmi una voce da tenore, rinforzandomi i bassi – io mi sono uniformato a' suoi consigli, e mentre lavoravo a consolidare i fondamenti dell'edifizio, il tetto è crollato. Quel signor fabbricatore di voci non ha fiato in corpo per sè – ed io, quando entrai al Conservatorio, ne aveva tanto da gonfiarli tutti quanti… Insomma…

– Insomma! Insomma! mi interruppe la contessa. – Voi siete un disgraziato., voi tornerete al paese a zappare le rape… Non si perdono il si bemolle e il la naturale senza qualche sconcerto dell'organismo, prodotto dai disordini e dai vizi. – So quello che mi dico… so quello che voi stesso ignorate… Il signor sindaco qui presente porterà la notizia a vostro padre… e voi partirete quando vi farà comodo.

Ciò detto, la contessa mi fece cenno d'uscire. Il sindaco, per rinforzare l'apostrofe della contessa, mi annichilì con un motto spietato: – Avremo un bel campanile… al paese!

Attraversando l'anticamera sentii afferrarmi pel soprabito da una mano tenace.

Mi volsi – era la Savina.

– Ho inteso tutto… Cos'è questo bemolle che hai perduto? Voglio saperlo…

– Lasciami in pace… Savina…

– No!.. voglio saperlo… Dio sa quante ne hai fatte!..

– Savina… ti dico!..

– Sento gente… va pure… Ci rivedremo domenica… all'ora della dottrina.

Uscii dalla casa Bavoso coll'animo in tempesta.

Dopo essermi aggirato per le vie di Milano, dibattendo molti progetti, entrai in una bottega da caffè dov'erano soliti a convenire alcuni artisti e studiosi di canto a me noti. Vedendomi accorato, mi interrogarono. Narrai ciò che mi era accaduto. Un signore di età matura che aveva prestato orecchio al mio racconto: «un altro Maccabeo!» esclamò con biblica amarezza – poi, voltosi a me direttamente: «Io conosco la contessa Bavoso, mi disse-è una pianista di gran talento e una dama di cuore – peccato ch'ella viva sotto la pressione del Conservatorio! – in ogni modo io non ho ancora disperato di convertirla… Chi sa! sareste voi disposto, figliuol caro, a fornirmi i mezzi per un'ultima prova?»

La mia situazione era tale che le parole di quell'uomo, tuttochè enigmatiche, mi apersero il cuore alla speranza.

– Se ti rimane un filo di voce, proseguì egli, a cui si possano riannodare dieci o dodici note, io mi incarico di restituirti in sei mesi ciò che i Bramini del Conservatorio ti hanno rubato nel corso di un anno.

Ciò detto, mi porse il suo biglietto di visita, e mi fece promettere che il dì seguente, verso le dieci ore del mattino, mi sarei recato da lui. Immaginate la mia gioia, quando uno degli astanti, un certo Zilgo, tenore in aspettativa, mi avvertì che quel mio nuovo protettore era il più insigne maestro di canto dell'Italia e dell'Universo, il solo che sapesse realmente creare le voci o ridonarle al primiero stato in caso di deperimento.

All'indomani fui esatto al convegno. Venni introdotto in una grande sala debolmente rischiarata. Il maestro sedeva al pianoforte – una dozzina di allievi d'ambo i sessi lo circondavano in vario atteggiamento. Al mio entrare, il maestro si levò in piedi, e, additandomi ai circostanti con un gesto da Geremia, si diè a cantarmi l'antifona: Venite ad me, vos qui egrotatis; hic salus! hic vita! hic bonum!

Gli allievi di canto replicarono in coro la salmodia – ed io ristetti ombroso a guardarli, credendomi vittima di una crudele burletta.

Il maestro mi mosse incontro, mi prese per mano, e mi condusse al pianoforte.

– Come vedi, figliuol caro, tutti si rallegrano con te… La pecora smarrita si è rimessa sul buon cammino… Volgiti intorno… Tutte queste signorine avvenenti e intelligenti, tutti questi giovani bene organizzati e predestinati, non rappresentavano, pochi mesi sono, che dei naufraghi, respinti, come tu lo fosti, dall'arca fatale del Conservatorio, e abbandonati semivivi alle branche voraci dell'oceano. – Io ho raccolti questi naufraghi nel mio battello da salvataggio; ho riscaldati questi morenti colla fiamma dell'arte unica e vera – dell'arte divina!.. Quelli che ieri gemevano, oggi cantano – quelli che starnutivano, oggi trillano – i ranocchi divennero usignuoli – le cicale si mutarono in capinere. – Lasciamoli dunque in pace. – Abbandoniamo questi avventurati che già toccano le porte del cielo, per soccorrere all'ultimo arrivato, all'infelice che stava per soccombere. – Vieni qui, figliuol caro – e voi altri, schieratevi in giro – voglio che tutti assistiate alla diagnosi… Egli è sul cadavere che si studiano i problemi dell'esistenza; gli è dai morenti che si imparano i segreti della conservazione.

Gli allievi si scostarono dal pianoforte, e andarono a sedere in una specie di anfiteatro all'estremità della sala.

Il maestro cominciò a palpeggiarmi la testa – quindi scese colle mani alle altre parti del corpo parlando di tal guisa:

– Abbiamo un occipite pronunziatissimo… buon principio!.. Sviluppo massimo di sensualità… di forza procreatrice! l'arte non è che amore – non si può essere artisti veri, artisti grandi, senza una straordinaria suscettività, o dirò meglio, irritabilità dell'organo simpatico. Gli è ciò che ho detto più volte a mademoiselle Guardinaire: – tu diverrai la Cleopatra delle cantanti in grazia del tuo occipite. – Sui parietali non c'è che dire – il frontale è in ottimo stato! Questo solido ripercussore delle note acute presenta tutte le condizioni desiderabili – abbiamo un edmoide ed uno sfenoide pienamente conformi a quelli di Rubini e di Zilgo – larghe narici, canali ampi, torace adiposo, clavicola ferma, scapula rilevata, osso sacro sporgente – in una parola lo scheletro di Lablache, di Filippo Galli e di… Zilgo. Vediamo ora (ed è quello che più importa) come si sta di visceri… Esaminiamo prima di tutto se i mantici funzionano, e qual grado conservino ancora di forza coibente e deprimente.

Ciò detto, il professore tirò il cordone di un campanello e una grossa domestica entrò nella sala con un soffietto nella mano, domandando: «c'è forse qualcuno che ha bisogno di fiato?»

– No – rispose il maestro seriamente – apporta gli ordigni per la prova dei mantici.

Non comprendo, ripensandoci adesso, come io fossi in allora tanto ebete da prestarmi a quelle buffonesche esperienze. – Di lì a poco, la grossa fantesca rientrò nella sala, recando sulle braccia una dozzina di volumi. Il maestro mi ordinò di sdraiarmi supino sovra un canapè, soprappose al mio stomaco quattro volumi, e in quella difficile posizione mi fece ripetere più volte la scala ascendente e discendente. Mademoiselle Guardinaire, il tenore Zilgo, una giovane inglese assai brutta, e da ultimo, tutti gli scolari mi si fecero d'attorno, per istudiare, com'essi dicevano, il grande fenomeno della respirazione. Tutti parevano sorpresi della potenza straordinaria de' miei polmoni; la fantesca batteva le mani dalla meraviglia, esclamando: scommetto che se io gli monto sopra, costui con un do di petto mi slancia alla soffitta!

Ciò che vi narro vi parrà inverosimile; eppure a quell'epoca c'erano in Milano dei maestri di canto che spingevano più oltre la ciurmeria. – E credete voi che oggigiorno le cose sieno mutate? Chiedetene notizia a quelle tante infelici, che dopo avere dal rigido settentrione trasmigrato in Italia per apprendervi la bell'arte del canto, ritornano in patria senza voce, senza quattrini, senza professione, senza… tutto quello che hanno dovuto immolare ai maestri, agli agenti teatrali ed ai giornalisti.

In seguito alle esperienze ginnastiche che vi ho descritte, e ad altre di cui vi taccio per brevità, il mio nuovo maestro espose la sua ferma convinzione che in meno di sei mesi, seguendo il suo regime, io avrei ricuperata la mia bella voce di tenore, e di là a due anni, persistendo nello studio, sarei stato in grado di esordire con lieto successo alle scene. Queste promesse suonavano abbastanza lusinghiere; ma l'ispirato missionario dell'arte non pareva disposto a darmi lezione gratuitamente. Fu convenuto che io avrei diretto una supplica alla contessa Bavoso, onde ottenere qualche sussidio nei sei mesi di esperimento; il maestro si sarebbe egli stesso incaricato di presentare la mia lettera, perorando a voce la mia causa e magnificando le mie ottime disposizioni musicali. Ogni cosa riescì per bene. Scorsa una settimana, la contessa mi fece chiamare al palazzo, e dopo una lunga ammonizione che io ascoltai col massimo raccoglimento, mi diede il grato annunzio che ella medesima si assumeva di pagare le mie lezioni, fissandomi altresì un piccolo assegno mensile ond'io vivessi decorosamente a Milano. In seguito a questa nuova fortuna, io potei riannodare le mie relazioni colla Savina, la quale in un precedente colloquio mi aveva fatto capire che il cocchiere della contessa le avea inoltrate seriamente delle proposte di matrimonio.

Il signor Minassi1 (tale era il nome del mio maestro) per circa due mesi mi esercitò alla emissione delle note, obbligandomi sempre, durante le lezioni, alla incomoda e ridicola giacitura di cui vi ho parlato poco dianzi. Tanto egli, come i colleghi di scuola e la grossa fantesca si mostravano stupiti dello straordinario sviluppo che la mia voce andava acquistando di ora in ora, di minuto in minuto. Mademoiselle Guardinaire, che per ordine del maestro si era fatta strappare due denti, i quali rendevano un po' ottuse le sue note di mezzo, mi animava a subire la medesima operazione, assicurandomi che ne avrei ottenuto un immenso benefizio. Il tenore Zilgo era d'avviso che io mi facessi levare le tonsille – e il maestro aggrottava le ciglia borbottando: «vedremo se sarà il caso – c'è sempre tempo a correggere la natura – ed io non dubito che il nostro futuro Donzelli sacrificherà all'arte, quando l'arte lo esiga, quelle superfluità dell'organismo che possono compromettere la libera emissione della voce.»

Pur troppo l'ora del sacrificio non tardò a suonare. In seguito ai violenti esercizi di respirazione, la mia voce si era ridotta a tale che ogni nota si rompeva in uno scrocco. Tutta la scolaresca fu chiamata a consiglio – il maestro produsse una chiara e minuziosa diagnosi del fenomeno patologico, concludendo col dichiarare di urgenza l'amputazione delle glandule tonsillari.

Sulle prime, mossi qualche difficoltà – ma avendo tutti in massa gli scolari spalancate le bocche per mostrarmi che non uno era andato esente dalla operazione, mi lasciai vincere dall'esempio.

Al taglio delle tonsille successe una allarmante infiammazione – per circa una ventina di giorni non mi fu concesso di emettere una nota – quando tornai dal maestro per riprendere il corso delle lezioni, con somma sorpresa di tutti si notò che da baritono io era divenuto basso profondo.

Quella scoperta produsse un cataclisma. Il Minassi improvvisò sulle rivoluzioni delle voci un erudito discorso che produsse la più viva commozione nella scolaresca; ma la contessa Bavoso, informata della metamorfosi che si era operata nel mio organo, mi avvertì per lettera che non intendeva continuarmi il sussidio, consigliandomi al tempo stesso di far ritorno al paese dove la mia voce da basso profondo sarebbe riuscita opportunissima per richiamare dai pascoli le giovenche. A quella lettera, dissuggellata dall'infida Savina, era aggiunto un poscritto in pessima calligrafia, che diceva testualmente: Dopo quelo che tano talliato, non sperare mai più nel mio amore; io sposerò quest'autunno il carozziere Pacicco.

Che fare? che tentare? – Dietro ordine della contessa, mio padre venne a Milano, mi colmò di rimproveri e mi intimò di seguirlo al paese. All'ora del mio arrivo, una ventina di villani stavano sulla piazza attendendomi. – Immaginate la mia vergogna, allorquando una voce acuta, emergendo dal crocchio, annunziò il mio ingresso colle parole: «In pèe tucc! à l'è scià el campanin!»2

Ed ecco in qual modo compensavano quei bifolchi la buona disposizione che io aveva manifestata di concorrere coi miei guadagni alla erezione del campanile! – Le buone intenzioni non hanno sconto sul mercato della vita.

Non volli più uscire di casa – mi resi invisibile. Io attendeva ai lavori dell'orto ed al governo della stalla, mutolo sempre e ingrugnato. Mio padre temendo che io cadessi ammalato, andò a consultarsi col veterinario.

Un giorno l'organista del paese si recò a visitarmi – Pirletta, mi disse – eppure io non so capacitarmi che la tua bella voce sia proprio svanita! Se ci provassimo… così per spasso?.. Farò trasportare nella tua camera da letto la mia spinetta… Ricomincieremo dalle scale – e chi sa? – le scale conducono in alto…

Che volete? mi lasciai vincere dalla tentazione, e ripresi, colla scorta del dabbene organista, gli esercizi del solfeggio. La mia voce da basso non era delle più ingrate; io studiava con moderazione, senza violentare la natura, e apprendeva, ciò che i professori di Milano avevano sdegnato insegnarmi, i principii fondamentali della musica. Io comprendeva i miei progressi, e il mio cuore si riapriva alla speranza, la mia mente si irradiava di nuove illusioni.

Dopo due anni di studi regolari ed indefessi, l'organista mi avvertì solennemente che a lui non restava più nulla da insegnarmi, a me più nulla da apprendere. – Sei maturo, mi disse; non ti resta che salire il bosco e fare la tua galletta.

Mio padre mi fornì cinquanta lire e la sua benedizione perchè andassi a Milano in cerca di una scrittura. Il parroco, il sindaco, il veterinario e l'ottimo organista ingrossarono il mio peculio di qualche spicciolo e di molti consigli. – Uscii dal paese due ore prima dell'alba, e volgendomi al famiglio che aveva attaccata la bestia al biroccino: tornerò fra cinque o sei anni, gli dissi; e quando il campanile sarà compiuto, andrò lassù a sputar sulla testa di quei buffoni che si fecero giuoco di me.

Ma in cielo non era scritto che io donassi un campanile alla ingrata mia patria. Prima di ottenere una scrittura, rimasi a Milano due anni – e furono due anni di patimenti, di umiliazioni, di angoscie indescrivibili. Io faceva regolarmente ogni giorno il giro di tutte le agenzie teatrali; i corrispondenti mi davano delle promesse e sempre mi congedavano col ritornello: lasciatevi vedere! – All'indomani, quando io mi presentava, fingevano di non vedermi.

I miei abiti si aprivano sui gomiti e parevano ricambiare dei sorrisi alle scarpe che mostravano i denti. Non vi parlo dei miei lunghi digiuni, delle notti passate all'aria aperta o sulle panche del caffè Martini. I miei amici erano una dozzina di cantanti in perenne disponibilità – i quali mi confortavano affermando che gli agenti teatrali erano una masnada di assassini, il pubblico una massa di imbecilli, e gli artisti più lautamente pagati una camorra di intriganti privi di voce e talento.

Finalmente (e in quell'istante vidi aprirsi il paradiso) un agente teatrale mi invita per lettera a recarmi premurosamente da lui. – Accorro ansante dalla gioia – precipito nella sala d'uffizio e interrogo collo sguardo il mio destino.

L'agente era un certo Cinguetta, un uomo di sinistro aspetto e di fama perduta; eppure, all'idea ch'egli intendesse offrirmi una scrittura, mi parve un cherubino.

– Sei tu disposto – mi chiese con brusca amorevolezza – a fare una campagnata di venti giorni cantando nel Nabucco la parte di Zaccaria?

– Se le pare… se lei crede…

– Si tratta, come dissi, di una campagnata– dunque molta allegria, grandi applausi e pochi soldi… non è vero? Gli esordienti – regola generale – non hanno diritto a compenso, e dovrebbero anzi, a rigore di legge, sborsare all'impresario una somma, pel grave rischio a cui questi va incontro esponendo sulle scene un artista sconosciuto e di dubbio talento. Ma io ho fede in te; so che possiedi una bella voce e conosco del pari le tue strettezze. Vedrai dal presente contratto che ho cercato di aiutarti – apponi dunque la tua firma, e domani partirai per Arona, ove, non dubito, farai onore alla mia agenzia.

Così parlando, il Cinguetta mi porse la scrittura che mi obbligava a cantare per una ventina di rappresentazioni al teatro di Arona, a recarmi alla piazza in tempo debito onde intervenire alle prove di cembalo e di orchestra, nonchè a provvedermi a mie spese del basso vestiario in perfetto costume. In compenso delle mie prestazioni, l'impresario mi avrebbe pagata la somma di lire sessanta, suddivisa in quattro rate, giusta le consuetudini teatrali, restando a mio carico le spese di viaggio e la provvigione dei cinque per cento devoluta al mediatore.

Naturalmente, apersi il labbro per muovere qualche obiezione; ma il Cinguetta, strappandomi il foglio dalle mani e facendo atto di lacerarlo: – tutti di uno stampo! esclamò con mal piglio – quando siete a spasso, mille suppliche, mille transazioni; – vi si offre una scrittura, eccovi tosto colle grandi pretese! – Figliuol mio… non faremo nulla. Non ho che a battere il suolo coi tacchi per veder sorgere una legione di bassi profondi, pronti e disposti a cantare per l'amore dell'arte!

Non era il caso di discutere – io segnai la scrittura con mano tremante, la piegai, la chiusi nei taschetti del soprabito e atterrito della mia nuova situazione, presi commiato dall'agente teatrale ringraziandolo colla voce ed imprecandogli col cuore. Il Cinguetta mi accompagnò fino alla porta, e come uomo ispirato subitamente da una idea luminosa:

– A proposito, mi disse; non sarebbe bene che noi regolassimo tosto i nostri conti? di tal guisa ti risparmieresti l'incomodo e la spesa di spedirmi il danaro per la posta… La somma che mi devi è tanto meschina…

Io compresi che si trattava della provvigione. Non aveva indosso la somma di dieci soldi, e la mia mente già cominciava ad affannarsi nella ricerca di uno spediente qualunque, pel quale mi fosse dato di trasferirmi alla piazza. Esposi francamente al Cinguetta la mia triste posizione; gli feci capire che, aiutandomi la fortuna, lo avrei più tardi compensato largamente. Le mie parole esprimevano la più viva commozione.

– Non importa! – disse l'agente con un suo risolino di ipocrita benevolenza – io amo gli artisti e so investirmi delle loro circostanze… Se non puoi darmi danaro… vedi… sarei anche disposto ad accettare qualche segno di riconoscenza… per esempio… vediamo un poco… Così parlando, portò la mano alla catenella di argento che mi scendeva nel taschino del gilet, e ne trasse fuori un gramo orologio di argento, unico ricordo di mia madre che io aveva religiosamente conservato fino a quel giorno in onta delle urgenze più calamitose. Quel Cinguetta aveva la mano così disinvolta, e la mia resistenza era così debole e impacciata, che l'orologio in un attimo divenne sua preda. Io finii col ringraziarlo di avere accettato in benemerenza dei suoi grandi favori, un dono così meschino.

Il mio debut al teatro di Arona fu abbastanza fortunato, ma avendo dovuto respingere venticinque giornali che mi erano stati inviati da varie città d'Italia con invito all'abbonamento, nessuno fece parola di me, e se alcuno parlò, fu per dire che io era un cane della peggiore specie. In ogni modo la campagnata si chiuse colla solita catastrofe. A metà della stagione l'impresario si assentò dalla piazza e si rese irreperibile – io perdetti l'ultimo quartale, e dovetti tornare a Milano colle mie gambe, lasciando in ostaggio al padrone di casa la barba ed i sandali del profeta Zaccaria.

Per una decina di anni venni sobbalzato da teatro a teatro. Le estorsioni dei corrispondenti, i ricatti del giornalismo, le frodi degli impresari cooperarono siffattamente al perfetto equilibrio delle mie finanze, che al finire di ogni stagione non mai ebbi ad inquietarmi per l'impiego de' miei sopravanzi. Le scritture del carnevale e dell'autunno pagavano regolarmente gli arretrati della disponibilità precedente – la perdita di uno più quartali, già preveduta nel bilancio, frenava i miei appetiti, e mi imponeva la più rigida soppressione delle superfluità. L'unico rimorso che ancora mi pesa sull'anima è quello di aver sprecato una piccola parte del mio peculio nello sfamare quattro o cinque giornalisti teatrali, non saprei dirvi se più scimuniti o bricconi. Una tale debolezza era frutto di inesperienza; ma dacchè a Firenze mi avvenne di applicare una dozzina di nerbate sul grugno di un certo Montâsino fabbricatore di riviste, ebbi a convincermi non esservi miglior espediente di questo per insegnare ai bèceri del giornalismo la morbidezza dello stile.

Vi fu un'epoca nella quale, per un bagliore inusitato di promesse, io credetti di aver finalmente afferrate le chiome della fortuna. Dopo quattro lunghi mesi di disponibilità, mi venne offerta una scrittura pel teatro di Lima. Il mandatario dell'impresa, un personaggio tutto fulgido di diamanti e d'altre pietre inqualificabili, si faceva chiamare Don Diego y Gonzalez y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás. – Il di lui nome non mancava di sonorità e le paghe ch'egli offriva agli artisti non erano meno sonanti. Vi basti sapere che l'emolumento a me fissato si traduceva nella somma di franchi cinquantamila all'anno, più due serate di benefizio, assicurate in diecimila franchi cadauna.

Innanzi di salpare pel nuovo mondo, scrissi una lettera al sindaco del paese annunziandogli la mia buona fortuna e assicurandolo al tempo stesso che le mie intenzioni a riguardo del campanile non erano punto cangiate.

Ci imbarcammo a Genova in un pessimo legno da vela, e dopo tre mesi ai navigazione disastrosa, toccammo la meta. Il rappresentante dell'impresa ci aveva accompagnati fino a Lima, ma all'indomani dello sbarco, non si ebbero più traccie di lui. Immaginate quale scompiglio, quale sgomento nella compagnia lirica! Eravamo circa sessanta, fra cantanti, suonatori e ballerine – e spremendo le nostre tasche non ne sarebbero usciti tanti spiccioli da formare un marengo —

Dopo una settimana di ansie inenarrabili, un certo Arnaldo Sesini, negoziante di gomma elastica, si presenta al nostro albergo, e dopo aver biasimato col più energico accento la condotta di Don Diego y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás, si annunzia disposto ad assumere l'impresa in sua vece ed a sborsare immediatamente il primo mensile a tutti gli artisti, purchè rinnovino le scritture, assentendo al ribasso del sessanta per cento sulle paghe stabilite. Non era il caso di fare delle obiezioni. Il nome di Arnaldo Sesini ispirava poca fiducia; ma a qual nome affidarci, dacchè un Don Diego y Gonzalez y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás ci aveva così ignobilmente abbandonati? Noi piegammo la fronte alla necessità; le transazioni vennero accetate, e di là a poche settimane il teatro di Lima si aperse a spettacolo d'opera e ballo.

C'è a scommettere che di quella colonia di artisti italiani ben pochi ebbero la fortuna di rivedere la patria. Molti morirono di febbre gialla trasmigrando ad altre coste degli Stati Uniti – i suonatori si sbandarono per suonare nei caffè e in altri luoghi di pubblica ricreazione; le coriste e le ballerine sopravvissute alle febbri e ad altre epidemie, non trovando più adoratori, si procacciarono dei mariti. Io corsi l'America per dodici anni, sempre intento ad economizzare su' miei scarsi stipendi onde mettermi in grado di far ritorno in Italia. E Dio sa quanto avrei dovuto attendere prima di adunare il capitale occorrente, se la prepotenza della nostalgia non mi avesse spinto ad un partito… americano.

Mi recai ad una grossa borgata del litorale in compagnia di una corista e di un pessimo accompagnatore di pianoforte – feci affiggere dei cartelloni dov'era annunciato che il celebre Mario e la insuperabile Grisi avrebbero dato un concerto, cantando una quindicina di pezzi a scelta del pubblico. – Quei buoni borghesi accorsero in massa, applaudirono ai miei ruggiti, si estasiarono ad ogni strillo della mia audace compagna, e raccolta una buona messe di dollari, io mi imbarcai felicemente il giorno appresso sovra un legno mercantile genovese.

Dalle mie lunghe e disastrose pellegrinazioni io non riportavo in Italia che un centinaio di lire, due papagalli ed una scimia. – Rientrando al mio albergo a Genova per levare i bagagli onde proseguire il viaggio, trovai la gabbia rovesciata. – I due papagalli si erano svincolati, e, profittando della libertà, avevano preso il volo per ignota direzione.

Giunto a Milano, mi recai al palazzo della contessa Bavoso per offrirle la scimia, ma la contessa era morta da un pezzo. Tornato al paese, venni a sapere che il sindaco, il veterinario, la Savina, l'organista, tutte infine, o quasi tutte le persone di mia conoscenza, avevano cessato di esistere. Mio padre istupidito dagli anni, appena mi riconobbe – e quando gli mostrai la piccola scimia ch'io teneva fra le braccia, mi chiese da quanto tempo ero ammogliato, e se quello fosse il mio primogenito.

Sono scorsi dieci anni dacchè tornai al paese. Ho ereditato da mio padre una casuccia ed un orto, e campo la vita in qualche modo, accordando i pianoforti nelle ville dei signori e cantando qualche mottetto nelle chiese. I miei compaesani mi vogliono bene e cercano di aiutarmi; ma ogni qual volta nel Consiglio Comunale torna in campo il progetto di erigere un nuovo campanile, la discussione viene troncata con questo tratto di spirito: Aspettiamo il denaro di Pirletta.

1

Anagramma di un maestro notissimo a Milano, il quale anni sono insegnava il canto col metodo qui descritto.

2

Alzatevi tutti; è arrivato il campanile!

Racconti e novelle

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