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3.3 Strategia a “parole e paradigmi”
ОглавлениеL’organizzazione del piano paradigmatico della lingua di arrivo da parte degli apprendenti, in particolare dei paradigmi dei tempi verbali, si può ricondurre a tre strategie principali.
La prima strategia è caratterizzata dall’uso di parole polifunzionali tra cui si suddivide lo spazio semantico di un paradigma della lingua di arrivo, con la conseguenza di frequenti sovraestensioni, p. es.:
In base alla disponibilità e alla frequenza di forme dell’input, diverse a seconda dei singoli tipi lessicali, un paradigma viene così costruito come un puzzle, specializzando via via il significato grammaticale delle singole forme con l’aggiunta di nuovi elementi. Questa strategia ricorda l’impostazione a “parole e paradigmi” della teoria morfologica (Matthews 1975 tra gli altri) in quanto non comporta alcun processo di segmentazione da parte dell’apprendente, come mostra il caso di apprendenti eritrei di italiano1, che per il presente indicativo sovraestendono persone diverse a seconda dei lessemi, come mostra lo schema seguente:
Si noti che presso questi apprendenti non si hanno retroformazioni del tipo *anda, in sé plausibili per il grande numero di forme alla 3a sg. della prima coniugazione.
Nelle fasi più precoci le parole polifunzionali in questione coprono lo spazio semantico sia delle persone che delle distinzioni temporali-aspettuali e modali più basilari, cioè quelle tra presente abituale e atemporale, passato risultativo e modo di non-attualizzazione2.
Ciò è attestato dall’esempio (6), dove andate (pres. indic., 2a pl.) è di fatto in conflitto con andato (part. pass. m. sg.)3 e dagli enunciati in (7), che sono stati prodotti a poca distanza l’uno dall’altro nello stesso contesto di narrazione al passato.
In questa fase l’Aktionsart dei singoli tipi lessicali determina ovviamente, per la frequenza nell’input, la comparsa delle prime sovraestensioni (p. es. lavorare vs. finito vs. parla, hai, andate) e il loro uso in qualsiasi contesto temporale, cfr.:
La differenziazione delle tre forme del protosistema verbale di italiano lingua seconda è inferibile dall’uso, p. es. di presente e participio passato, in coerenza con le distinzioni temporali all’interno di una narrazione. Nei dati esaminati compare comunque una prova formale della costituzione di questo primo paradigma nell’uso di fini/si-fini opposto a finito in T a circa 3 m. di permanenza in Italia. Cfr.:
La forma fini probabilmente va ricondotta sia a una retroformazione da finito, che come abbiamo visto è, per la sua Aktionsart risultativa, estremamente disponibile per frequenza nell’input; sia al sostantivo fine (cfr. alla fini nell’esempio 9). La i finale che si ritrova sia nella versione del sostantivo che in quella del verbo va a sua volta ascritta a ipodifferenziazione di /i/ e /e/ finali atone nelle prime fasi nel caso del sostantivo e all’uso molto caratteristico di questo apprendente della desinenza di 2a sg. (cfr. sotto ess. 15, 16)4. È comunque evidente dagli esempi riportati che finito e (si-)fini per T si oppongono come parlato – parla (e parlare).
La strategia di costruzione a “parole e paradigmi”, per l’italiano, si esplica in modo particolarmente interessante nell’organizzazione delle persone del presente indicativo, che pur comincia in fasi relativamente precoci. Le sovraestensioni sembrano essere governate da principi generali (p. es. tutte le persone del singolare vengono sovraestese su persone del plurale, ma le poche sovraestensioni delle persone plurali rimangono nell’ambito di questo numero)5. Cfr.:
La frequenza nell’input di certe persone (solitamente la terza e la seconda singolari) può indurre presso certi apprendenti la prevalenza di una sola forma sovraestesa. A questo proposito, per l’italiano, la frequenza di sovraestenzioni della seconda singolare del presente indicativo è connessa con l’uso molto diffuso del tu impersonale nel parlato colloquiale, anche in contesti non del tutto appropriati, come mostra l’esempio (14), tratto dai materiali raccolti da Cereia (cfr. Cereia Fuso 1988).
In questo brano l’intervistatore racconta all’apprendente una sua esperienza passata e l’uso del tu impersonale, per quanto denotativamente inappropriato, è pur sempre adatto a “coinvolgere” l’interlocutore nel punto di vista del parlante.
L’uso di forme impersonali da parte dei nativi è probabilmente la fonte della frequenza di forme di seconda singolare spesso accompagnate da si in proclisi in T6, cfr.:
(15) | (T, 2 m.) | |
io non lo so, dove dove si-giochi | ||
“non so dove si gioca” | ||
(16) | (T, 3 m. circa) | |
il capoto, si-meti la capoto – non hai – io meti solo le *T-shirt* | ||
“il cappotto, (si) mettono il cappotto – non ce l’ho – (mi) metto solo le | ||
T-shirt”7 |
Occorre poi ricordare, anche se qui se ne può fare riferimento solo marginalmente, una certa permeabilità categoriale di queste forme, in parte indotta dalla omonimia dei più frequenti morfi nominali e verbali dell’italiano (p. es. -a: femm. sg. e terza singolare). Cfr.
La realizzazione estrema di questo tipo è esemplificata dai pidgin e dai creoli, che di solito adottano una sola forma verbale della lingua lessificatrice ed esprimono sull’asse sintagmatico le distinzioni di tempo-aspetto-modo e persona rilevanti.
Ciò è provato soprattutto dai creoli derivati da lingue con ricca morfologia, come il nubi (a base araba sudanese) i cui lessemi verbali lasciano tuttora trasparire la forma originaria: p. es. dakalu “entrare” < ar.sud. daxalu “essi entrarono” (ar. cl. daxaluu); gata “tagliare” < ar.sud. gataʔ “tagliò” (ar. cl. qaṭaca); ašrubu “bere” < ar.sud. ašrubu “bevete” (Imper.) (ar. cl., ʔ išribuu), cfr. Owens (1985:254)8. Il nubi, come i più noti creoli a base inglese e francese, distingue però solo a livello sintattico le categorie verbali, cfr.
Uno stadio poco più avanzato, che ricorda in parte la situazione di interlingue di italiano e di tedesco è quello dell’afrikaans, che ha due sole forme nel paradigma verbale, cfr. skryf – geskryf (PRES. – PART. PASS.), delle quali la seconda si usa sempre insieme all’ausiliare het, p. es. ek het geskryf “ho scritto/scrivevo”. Analoga situazione si ritrova nel poco studiato italiano d’Etiopia (Habte-Mariam 1976), che ha due sole forme verbali: lëwrare (PRES. E PASS. DURATIVO; FUT.; IMPER.) e lëwrato (PASS./RISULTATIVO).