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CAPITOLO PRIMO

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“Abbi pietà dei deboli,

perché il loro risveglio può essere il tuo”

Dal Libro della Grazia

Sarius si ricordava bene il suo primo giorno sulla strada. Aveva subito prestato giuramento all’Eternorisorto per entrare nella Chiesa, e non dovette passare molto tempo prima che gli assegnassero una circoscrizione. Da allora erano trascorsi vent’anni, ma i cambiamenti erano così palpabili che gli sembrava che si trattasse almeno del doppio.

Un tempo aspettavo l’indomani con impazienza.

Dall’alba al tramonto i predicatori trascorrevano il loro tempo con i kasi, tempravano la loro forza di volontà e le loro virtù, si godevano i momenti trascorsi insieme e fugavano preoccupazioni e paure. Non molto tempo fa, i cittadini erano soliti andare loro incontro con un sorriso, discutere con loro di Dio e giungere a conclusioni tali da riempire il corpo di gioia. Un tempo avrebbe riconosciuto i loro volti, e si sarebbe fermato a parlare con loro e a benedirli. Oggi era diverso. Passo a passo era andato tutto in malora, non si sa bene come. Semplicemente, era successo.

Non ci sono più volti familiari.

La cosa lo angustiava. Le esistenze minacciate, i kasi avevano continuato a migrare da una zona della città all’altra, le loro attività erano sparite e il bisogno li aveva spinti a trovarne di nuove, buona parte delle quali non faceva loro onore. Se anche di tanto in tanto avesse incontrato nella massa un volto conosciuto, non lo avrebbe stupito l’assenza di cordialità. Quando il domani diviene incerto, una parola santa non può offrire una consolazione sufficiente.

È la stessa cosa dentro di noi.

Era un segreto di pulcinella. Anche se la Chiesa era una delle parti della società meno minacciate, nonostante la continua ricerca di quello o quell’altro balsamo fosse ormai roba ordinaria, molti fratelli avevano perso le forze e abbandonato il servizio divino. Sarius non lasciava che le voci di corridoio alimentassero i suoi timori, ma sempre più spesso nel suo ordine religioso si potevano sentire racconti che gli facevano venire i brividi.

Se i più devoti si allontanano tanto dalla retta via, cosa può mai succedere agli altri?

Qualche giorno prima, fratello Pion era rientrato dal servizio prima del previsto. Sarius non era riuscito a vederlo, ma – secondo quanto aveva sentito – aveva una brutta ferita nella zona delle spalle. Per qualche ragione si era rifiutato di parlare, e la cosa, unita al foro delle dimensioni di una mano che gli aveva quasi trapassato il corpo, aveva causato un’ulteriore inquietudine. Che cosa può terrorizzare tanto un servitore del Sarto dei sogni, del Dio Eternorisorto che senza fallo elargisce i destini? Quali forze oscure si erano moltiplicate tra le mura, e quando qualcuno si sarebbe messo sulla loro strada?

Anche l’Ordine, certo, ha i suoi problemi.

Sarius riteneva di possedere una buona capacità di giudizio. Non aveva mai dubitato della propria fede, forse proprio in virtù di questo dono. Una cosa però è credere, un’altra è agire. A che cosa servono le preghiere se non ti sforzi in prima persona di combattere per ciò a cui mirano i tuoi pensieri? Non vi era ragione di negare che erano ormai a un passo dal collasso, e non vi era più motivo di negare che la situazione era fuori controllo. Perché dunque nessuno reagiva? Anche se un piano fosse esistito, il tempo per metterlo in moto era agli sgoccioli. Almeno una parte, solo un piccolo segnale di unità di cui tutti avevano un gran bisogno, al di là del loro status sociale.

Certo, non si tratta di un unico problema.

Soltanto un kas stupido lo avrebbe presupposto. Se tutto era diventato evidente con la carenza di balsamo, ciò non significava necessariamente che fosse quello l’unico focolaio. Che cosa mai aveva portato al crollo definitivo della produzione? Per quale motivo le elargizioni dall’Anello Esterno si stavano praticamente estinguendo? Come mai quel suolo per secoli fertile era d’improvviso diventato sterile? E perché in nome di tutto il Consiglio Cittadino non si esprimeva a riguardo? Possibile che il Reggente non contattasse la Gilda dei Veggenti? Sarius era presente quando alla riunione annuale Tenej il Gioioso aveva chiesto al Santo Fratello Kalej la posizione ufficiale della Chiesa su tale questione. Sconsiderato nell’affrontare l’argomento, aveva gettato l’ombra del dubbio sul Sommo Sacerdote e sul suo impegno nella più alta struttura del potere. Fu ammonito all’istante. Sarius lo compativa, profondamente convinto che le sue intenzioni non fossero cattive. Un predicatore tanto rispettato, abbastanza da essere condannato alla rovina. Tuttavia, la decisione doveva essere rispettata, e in un certo senso poteva capirne i retroscena. I tempi erano tali da non permettere dubbi sulla forza e la correttezza dell’autorità, soprattutto negli ordini ufficiali.

Eternorisorto, dacci la forza per superare tutta questa follia.

Camminava a rilento attraverso un fiume di kasi. Li guardava in volto, e sembrava che fosse l’unico a farlo. Si spingevano e cadevano, strillavano e s’insultavano. Gli sembrò che a qualche metro da lui fosse scoppiata una lite ma non poteva esserne sicuro per il gran chiasso.

Un tempo non vi erano risse.

Strinse forte l’involto sul petto pensando al proprio compito. Quelli che oggi avevano bisogno di lui non si trovavano tra la folla. Si diresse verso il monumento alle stelle ed entrò nel Viale della Luna. La spazzatura non incenerita era ammucchiata attorno a una fontana inaridita. Una filigranetta ricoperta di polvere ne beccava inutilmente l’arida sommità. Gli uccelli sono creature fragili e hanno bisogno di acqua. In tempi più felici le fontane cittadine lavoravano solo per loro, e loro mostravano la propria gratitudine col canto. Da tempo non li vedeva più in stormi.

Sei rimasto solo, piccolo. Qui non placherai la tua sete.

Prese a destra all’incrocio successivo, e si fermò davanti a una baracca mezza crollata. Era solo una tra le tante in città che offrivano rifugio agli emarginati. Come se volesse assicurarsi di essere nel posto giusto, fissò attentamente la porta cadente prima di imboccarla e procedere all’interno.

“Che l’Eternorisorto vi porti la pace”, annunciò la propria presenza. In tutta risposta, qualcuno gemette. Rimase fermo sul posto per qualche istante, finché i suoi occhi non si abituarono all’oscurità. Poi, con un movimento che mostrava la sicurezza di quanto cercava, smosse il mucchio di stracci che si trovava vicino ai suoi piedi.

Era messa peggio del giorno prima, la cancrena si era diffusa più in fretta di quanto potesse immaginare. Era partita dal petto, ma come un fiore si era diffusa nell’intero torace e aveva preso tutti gli arti e parte del viso. Solo gli occhi potevano ancora muoversi, e lasciavano trapelare una tristezza infinita. Sta per morire, pensò, se la sposto andrà in pezzi. Coprì la poveretta, consapevole che ungerla sarebbe stato solo uno spreco della preziosa risorsa. Per lei non poteva più fare niente. Le chiuse gli occhi.

Sarto dei sogni, accorcia la pena della tua serva fedele e guidala verso il riposo eterno.

I due malati successivi non erano messi tanto meglio, e Sarius prese la difficile decisione di non ungerli col balsamo. La misericordia era una cosa, ma un inutile spreco di quel prezioso unguento su corpi immobili in cui si stava irrimediabilmente spegnendo la vita era tutt’altra cosa. Sperava che anche la loro coscienza fosse ormai andata, che gli infelici non fossero coscienti di cosa li aveva colpiti. Il corpo era la cosa più sacra per ogni kas, e la sua conservazione il primo dei propri doveri. Essere negligente nei confronti del proprio corpo o annientare quelli altrui erano peccati al di sopra di ogni peccato. Qualcosa per cui non vi era perdono.

Solo che loro non sono responsabili della propria rovina.

La morte cancrenosa, un’epidemia che devastava i tessuti, era diventata realtà. Il balsamo, un bene dato per scontato di cui la Gilda riforniva la città, e la ghiera che teneva insieme la società, era diventato un lusso. La sua scomparsa definitiva era ancora ben lontana, ma persino quei fortunati che continuavano a ricevere la razione regolare erano preoccupati per la sua efficacia. Le conseguenze di tale situazione giacevano di fronte a Sarius. L’unico kas ancora capace di muoversi, accanto a cui si era accovacciato, alzò con gran pena la testa e si appoggiò al muro.

“Come stai oggi, Kalon?”, domandò Sarius con dolcezza.

“Meglio, predicatore. Ero convinto di poter fare una bella corsetta, ma le gambe mi hanno stranamente tradito”. La gola di Kalon emise un suono stridente, un misero tentativo di risata. Sarius era stupito dalla combattività del suo spirito.

“Fammi vedere”. Sollevò la coperta sporca temendo ciò che avrebbe trovato. La situazione era tutt’altro che buona. La gamba destra sembrava quasi non appartenergli più, giusto un paio di strisce di pelle secca la teneva attaccata al resto del corpo. Delle bolle di un azzurro sbiadito non lasciavano spazio alla speranza che l’altra potesse sfuggire al destino della sua vicina.

“Sembra un po’ meglio”, mentì senza pensarci troppo su.

“Sembra, niente più”, rispose il malato. “Se si potesse ancora curare la cancrena, le probabilità di guarigione sarebbero ben più alte”.

Sarius avvampò per la vergogna. “Volevo dire che l’abbiamo un po’ rallentata”.

“Lo so, predicatore. Voi siete un buon kas, le vostre intenzioni sono pure. Una rarità, al giorno d’oggi”.

“Sono solo un servitore dell’Eternorisorto, il merito è suo”, rispose, slacciando il telo cerato che copriva l’involto. L’unguento diluito iniziò a gocciolare, e lui lo carpì velocemente con le dita e iniziò a sfregarlo sul punto dolente.

“L’Eternorisorto… avete ancora le forze per credere in lui?”.

Stupito dalla domanda, Sarius lo fissò. Prima che riuscisse a formulare una risposta, Kalon continuò.

“Stanotte ho pensato di strisciare fino a quei poveretti e di porre fine alle loro sofferenze. Sarebbe bastato tuffare le mani nella carne incancrenita e li avrei fatti a pezzi”.

“Perché dovresti voler fare una cosa del genere? Non ti hanno fatto nulla di male”, ribatté Sarius.

“Farmi del male?”, sorrise Kalon. “Oh, non mi hanno fatto nulla. Né a me, né a Dio. Eppure, lui li ha premiati con una morte lenta. Penso che avrebbero di gran lunga preferito il mio dono”.

“Uccidere un corpo è il più grave dei delitti”.

“Ma lui li uccide comunque. Perché?”.

“Abbiamo tutti un destino, ci svegliamo con esso, lo viviamo e alla fine ci avviamo verso il riposo. Al di là del destino, però, esistono circostanze che in esso si possono manifestare in modo diverso. La morte cancrenosa è solo una di esse. Quando ci sono favorevoli, le chiamiamo fortune. Quando non lo sono, ci arrabbiamo con Dio e diciamo che è ingiusto”.

“Le circostanze giustificano le mie intenzioni. Non sarebbe forse sensato abbreviare la loro sofferenza? I corpi non sentiranno l’invito nella Torre di Cristallo”. Kalon non si arrendeva.

Anche se era perfettamente consapevole di parlare con un morente, Sarius decise di essere sincero.

“Forse sembra sensato a te e a quelli che ti somigliano”, iniziò. “Al momento, non per tua colpa, la portata di ciò che ti turba si trova tra le mura questa stanza. Non è neanche più una malattia, perché è diventata parte di voi. Questa è la morte, Kalon, e tu per questo pensi che il culto del corpo non abbia senso. Quel che mi preoccupa, al di là dello spazio che al momento condividiamo, è quanto succede agli altri kasi che si trovano nella mia circoscrizione, e al di fuori di essa. Sono queste le mie mura. Tra di esse risiedono le mie speranze per un domani migliore, e per questo m’importano. Ora immagina una coscienza i cui confini non esistono, una cui singola scelta sbagliata possa sconvolgere l’ordine perfetto in cui anche noi siamo stati creati, immagina le sue mura e le sue speranze, poi dimmi – abbiamo il diritto di innalzarci al suo stesso livello?”.

Kalon taceva. L’ho offeso, pensò Sarius, ma proprio allora arrivò la risposta.

“Parli con saggezza per essere un predicatore. Posso parlare apertamente?”.

“Certo”.

“Puoi immaginare perché non ho portato le mie intenzioni fino alla fine?”.

“Hai onorato la regola? Alla fine hai riconosciuto di peccare?”.

“No, idiota! Temevo che mi si staccasse la gamba!”. Kalon scoppiò in un altro impeto di riso spezzato, e questa volta anche Sarius si unì a lui. Qualcosa in quel kas era degno di ammirazione.

Un colpo deciso alla porta raggelò il riso sulle loro bocche. Un’onda di luce abbagliante lo colpì negli occhi e Sarius scorse il contorno di un kas imponente. La sagoma fece qualche passo in avanti. Era straordinariamente corpulento e indossava la scadente imitazione di un’uniforme, rattoppata usando pezzi di diverse divise. I pantaloni sembravano fatti con la fodera delle uniformi dell’Ordine, sbiadite e probabilmente raccolte dalla spazzatura. I lunghi capelli neri erano raccolti in un codino unto che pendeva moscio sul petto. Aveva un’aria tanto sgraziata nella sua altezza che pareva si tenesse in equilibro bilanciandosi mentre teneva con entrambe le mani un bastone a due bracci con delle lame al posto delle estremità. Sarius non aveva il minimo dubbio sulla sua professione ancora prima che iniziasse a parlare.

“Mi scuso con vostra santità per aver interrotto così la festa!”. La risata di Kalon era musica in confronto al rumore che veniva dalla sua gola. “Vi prego di benedirmi, io sono Herek!”, fece una brutta imitazione di un inchino e senza attendere risposta strappò via il mucchio di stracci sotto a cui giaceva il malato.

Sarius si alzò, conscio che il balsamo vitale che era rimasto sul pavimento avrebbe presto iniziato a riversarsi al di là dell’orlo dell’involto che avrebbe dovuto contenerlo.

“Vattene di qui. Non abbiamo niente per te, qui ci sono solo malati”.

Il bruto si accigliò, poi fece qualche passo avanti.

“Ti sbagli, santità. Qui non c’è più nulla per i cadaveri di cui ti prendi cura”. Lo allontanò con sgarbatezza e il predicatore si tenne a fatica in piedi. Il bandito si chinò, quindi afferrò e annusò il balsamo. “Pensate di curarli con questa risciacquatura?”. Il suo sguardo si abbassò su Kalon, che in silenzio osservava la scena. Con una mano enorme avvicinò lo stracciò al suo volto e gli premette la testa contro il muro, finché la crema biancastra lì rimasta grondò per la pressione. “Eccolo qui, ti senti meglio, cadavere?”. Rise sguaiatamente, evidentemente soddisfatto del suo sadico gioco. Il malato non emetteva più alcun suono.

“Smettila immediatamente o ne pagherai le conseguenze!”, gridò Sarius.

“Pagare le conseguenze a chi, verme? A chi? Alla Chiesa? A Dio? All’Ordine?”, urlò il bandito puntandogli la punta del bastone nel petto. “A chi?”.

“Di questi malati mi occupo io e loro sono il mio dovere. Ogni impedimento intenzionale all’adempimento del mio dovere sullo spazio pubblico è considerato insubordinazione civica e come tale è trattato in accordo con la legge”. Neppure lui sapeva da dove gli fosse venuta l’idea di citare le dichiarazioni del compendio per le situazioni critiche, ma per qualche strano caso questo aveva placato un briciolo il bruto. Tuttavia, le parole che seguirono non erano meno sinistre.

“Ascoltami bene. Questo spazio appartiene ai sani, ficcatelo bene nella tua santissima zucca. Me ne sbatto dell’asta e della legge e dell’Ordine e della Chiesa intera se serve. Vogliamo che spariate, e se ti trovo un’altra volta qui, farò in modo che la punta del mio bastone ti finisca in un occhio”. Senza attendere la risposta, Herek si voltò e se ne andò.

Sarius attese un paio d’istanti, quindi tentò di aprire la porta. Per fortuna, era ancora integra. Poi tornò indietro e si chinò accanto a Kalon. L’infelice lo guardava con un triste sorriso e Sarius sentì dolore e impotenza come un colpo allo stomaco.

“Stai bene?”, gli domandò, e la mano si mosse da sola per spalmare i pochi rimasugli di balsamo che gli erano gocciolati sul volto e sul collo.

“Sì. E come potrei stare dopo un simile trattamento?”.

“Erano già venuti?”.

“No”, rispose Kalon. “È la prima volta che vedo uno di loro”.

Non vi erano parole con cui avrebbe potuto esprimere tutto ciò che provava in quel momento. Avrebbe quasi desiderato ammalarsi e giacere accanto ai sofferenti rimasti.

“Ascoltami, Kalon, ascolta bene. Chiederò all’Ordine di mandare già stasera qualcuno a proteggervi”.

“Lasciate perdere, predicatore. Hanno lavori più importanti che occuparsi dei cadaveri. Come avete detto anche voi, questa regione è abitata da molti kasi, e un gruppetto di morti viventi è solo un granello di sabbia nell’infinito”:

Non pensavo che suonasse così, pensò Sarius, messo in trappola dalle sue stesse parole. Ognuno aveva il diritto alla pace. Persino la follia avrebbe dovuto riconoscere dei limiti.

“Manderanno qualcuno, è sicuro”, fu tutto quel che riuscì a rispondere.

Come se volesse confortarlo, Kalon con fatica gli toccò la mano. Come ho potuto credere che avesse veramente le forze per strisciare?

Mentre tornava con passo affrettato in chiesa, Sarius si sentiva più malato di lui.

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Il torrione della Chiesa della Speranza si stagliava altero contro il cielo serale. Le teste in pietra dei Quattro guardavano la città da ciascun lato dell’antico campanile, rappresentando le emanazioni basilari dell’Eternorisorto – il Sarto, il Pensatore, il Creatore e il Messaggero. Proprio di fronte all’arco del portone, Sarius levò lo sguardo su di essi. L’assenza di reazioni fu reciproca.

Nel cortile sedeva una ventina di predicatori. Il tempo del servizio si avvicinava alla fine e si erano lentamente raccolti prima di andare a meditare nelle celle comuni. Parlavano in gruppetti e alcuni di loro chinarono la testa in segno di saluto. Non volendo unirsi a loro, procedette oltre. Gli eventi a cui aveva assistito lo avevano scosso profondamente, e doveva adempiere alla promessa data prima di ritirarsi per raccogliere le proprie idee e prepararsi a una nuova alba.

Una sorpresa lo attendeva giusto di fronte all’ingresso. Non aveva ancora messo piede nel cortile quando sentì la voce del sovrintendente Rel.

“Sarius! Che bene che sei tornato!”. Gli si avvicinò a piè sospinto, senza rispondere all’inchino formale che il predicatore gli aveva rivolto.

“Il Sacerdote desidera parlare con te!”.

Preso in contropiede dall’invito, di primo acchito non sapeva che cosa rispondere. La Chiesa della Speranza contava circa duecento fratelli, cosa che la rendeva la terza per dimensione a Tarnek. Non era raro incontrare il Sacerdote Tios nell’edificio e neppure scambiare qualche parola con lui sul servizio. Tuttavia, gli incontri privati erano tutta un’altra cosa, e un predicatore qualsiasi che si fosse ritrovato in simili circostanze avrebbe difficilmente potuto sperare in bene.

“Quando?”, domandò sconcertato Sarius. Forse in qualche modo è venuto a sapere degli eventi odierni, pensò. Se si trattava di quello, non aveva motivo di preoccuparsi. Ho agito correttamente.

“Subito!”. Negli occhi del sovrintendente si leggeva un rimprovero. Poi, come se volesse stemperare la tensione, aggiunse in fretta: “So soltanto che è urgente”.

“Volete annunciarmi?”.

“Va’ da solo”, gli rispose. “Ho da fare, e non vi servirà la mia presenza”. Senza attendere altre domande, il sovrintendente gli diede una pacca sulle spalle e si avviò verso l’uscita. Il discorso era chiuso.

Che altro devo aspettarmi da questa giornata?, si domandò Sarius, e si affrettò verso il tempio per adempiere al proprio dovere. Non c’era nessuno, i servizi si svolgevano soltanto all’alba. Per la prima volta nel suo ciclo mise piede al di là dell’altare e socchiuse la porta finemente intagliata di legno rosso. Un corridoio piuttosto lungo terminava in una scalinata. Dunque da qui si accede al Torrione Orientale, pensò. I cardini cigolarono, e il passaggio si richiuse alle sue spalle.

Le scale in pietra erano strette, ma per tutta la loro lunghezza sporgevano dalle pareti dei corrimani in ferro. Anche se la luce delle torce era sufficiente, pensò che ci andava particolare attenzione, soprattutto durante la discesa. Tutto traspirava un’estrema ordinarietà. Non c’erano rilievi o altro che indicasse la peculiarità del posto verso cui si era incamminato. Terminata l’ascesa, si ritrovò di fronte a una porta solitaria, quasi identica a quella che si era lasciato alle spalle, con un battente eccezionalmente pesante a forma di quadruplice occhio. Lo stesso simbolo gli pendeva sul petto, lo portavano tutti coloro che avevano subordinato la propria esistenza a Dio. La superficie metallica era piacevole al tatto e lui bussò.

“Entra”, riconobbe la voce del Sacerdote.

L’ambiente era tanto grande quanto il diametro della torre, ma le pareti non erano abbastanza per accogliere tutti i tomi rilegati in pelle che quella tesoreria ospitava. L’eccedenza era disposta ordinatamente in pile che senza un criterio visibile spuntavano in diversi punti, in particolare intorno a un massiccio tavolo la cui parte anteriore era decorata con dettagli che non riusciva a riconoscere. Quando fece un passo sul sontuoso tappeto che ricopriva il pavimento, la morbidezza sotto i suoi stivali fu tale che per un attimo pensò di togliersi le scarpe. Stregato dal calore, si accorse della presenza del Sacerdote solo quando quegli gli rivolse nuovamente la parola.

“Ti piace quel che vedi?”. Era stato tutto il tempo accanto al tavolo, ma Sarius non lo aveva neppure notato. Devo sembrare uno stupido.

“È stupendo… vostra santità”. Per la forte agitazione per poco non si era dimenticato a chi si rivolgeva.

Il Sacerdote sorrise. “Condivido la tua osservazione. Ogni kas sapiente prova venerazione di fronte alla conoscenza che ci suggeriscono i libri”. Un grande occhio di giada pendeva sopra di lui, quasi vivo alla luce delle candele che bruciavano su quattro candelabri di acciaio nero. “Avvicinati, Sarius, avvicinati senza timori”.

Obbedì, ma non osò parlare.

“Immagino che t’interessi sapere perché ti ho chiamato?”.

Il predicatore chinò la testa in un cenno d’assenso. “Vostra santità, spero che siate soddisfatto del mio servizio”.

“Più che soddisfatto. Sai, anche se non sembra, seguo con attenzione il lavoro di ognuno”.

“Non ne ho mai dubitato”.

Il Sacerdote sorrise. “Tu no, ma altri probabilmente sì”.

È una domanda o un’affermazione? Sarius di solito non si faceva problemi a esprimere il proprio pensiero. Tuttavia, la situazione in cui si trovava non era ordinaria. Come se avesse percepito quel dilemma, il suo interlocutore continuò.

“Non preoccuparti, il dubbio è cosa buona. Ci rende attenti, e se siamo attenti vuol dire che peccheremo di meno. Al giorno d’oggi l’attenzione non basta mai, concordi?”.

“Concordo, vostra santità”.

“Questo è bene”.

Tios si mosse gentilmente di lato, senza distogliere lo sguardo da Sarius, e mosse la mano in direzione di un simbolo che si trovava sul muro. “Predicatore, dimmi, cosa vedi qui?”.

“Un occhio… vedo il quadruplice occhio”.

“L’occhio dell’Eternorisorto, simbolo del nostro Dio e della nostra fede”. Si toccò d’istinto il medaglione sul petto, come se cercasse una conferma della correttezza della risposta.

“Esatto. Non molto fantasioso, ma esatto”. Evidentemente soddisfatto di quanto aveva sentito, si avvicinò nuovamente al suo interlocutore, allargando le braccia. “E cosa vedi qui?”.

Sarius era confuso. Il miscuglio di tensione e di enigmi lo rendeva nervoso. L’esito di tutto ciò dipende da me?

“Non capisco, vostra santità”.

Sembrava che tutto ciò divertisse il kas davanti a lui. “Hai capito, predicatore. Non lasciarti tormentare dalle paure, ma rispondi così come hai risposto alla mia domanda precedente. Che cosa vedi qui, attorno a noi?”.

“Vedo… vedo… una stanza, santità. Il vostro alloggio”.

“E poi? Che altro?”.

“Vedo un tavolo, vedo dei libri… dei libri sugli scaffali… sul pavimento… vedo delle pergamene sul vostro tavolo…”.

“Altro?”.

Sarius si guardò più liberamente attorno. “Vedo delle matite sul tavolo, due… tre, una è caduta a terra… la vostra collana cerimoniale è appesa allo schienale della sedia… laggiù accanto alla porta una pila è inclinata come se stesse per cadere…”.

“Non è un esempio di ordine? Questa mia stanza?”, domandò il Sacerdote aggrottando la fronte.

L’ho offeso, Sarius fu preso dall’inquietudine. Anche se avrebbe voluto esserne capace, non aveva intenzione di mentire. Andrà come deve andare, ma se è tutto un suo gioco, giocherò onestamente.

“Non lo è, vostra santità”.

Quel che seguì fu una risata calda e rumorosa.

“La tua sincerità è una gioia per le mie orecchie. Penso che gli altri fratelli avrebbero accettato di farsi strappare gli arti prima di ammettere che negli alloggi personali del loro Sacerdote regna il caos. Neppure il mio sovrintendente avrebbe avuto il coraggio di farlo. Esatto, Sarius, qui attorno a noi si può vedere solo un gran disordine, ma ciò che ora vorrei che m’illustrassi, e prometto che non ti tormenterò più, è che cosa secondo te può esserne la causa”.

Questa volta rispose senza indugi.

“I vostri impegni. Sembra che siate sempre di fretta. Forse la mancanza di tempo per riportare le cose al proprio posto?”.

Senza smettere di guardarsi attorno, notava sempre più dettagli. Praticamente non c’era spazio in cima al tavolo che non fosse uniformemente ricoperto di polvere, e i pochi mucchietti di quest’ultima erano ulteriormente smossi dalle cose che venivano portate e rimesse a posto. Anche le pile di libri, a differenza di quelli sulle pareti, non erano disposte in ordine per colore o dimensione. Se fossero messe lì per mancanza di spazio, probabilmente avrebbero un qualche ordine. Ma mentre stava ancora formulando quest’ipotesi, si accorse del numero considerevole di fessure scure sugli scaffali. Non sono a terra perché non c’è spazio per loro, sono qui perché li sta leggendo. Era mai possibile? Ce n’era almeno qualche centinaio.

Mantenendo la promessa, il Sacerdote corroborò la sua affermazione.

“Il lavoro, predicatore, hai detto bene. Attorno a noi puoi vedere il lavoro”.

“Il lavoro”, ripeté Sarius.

“Proprio così. Qui ci sono dei simboli che ci ricordano chi serviamo. Eppure, il semplice simbolo o la divisa che indossiamo non ci rende suoi degni strumenti. Un Sacerdote incapace di comprenderlo non è più messaggero di Dio di un qualsiasi ignorante a cui li abbiamo dati perché li indossi. Solo il lavoro, un lavoro difficile e solerte, una completa dedizione e un’assidua ricerca della verità ci rendono ciò che siamo stati destinati a essere nel risveglio. Dalla Torre di Cristallo escono solo le ombre di ciò che deve diventare un’immagine dell’Eternorisorto. L’ombra di nulla deve diventare ombra delle sue idee, solo così siamo realizzati, solo così possiamo ottenere la perfezione. Ciò vale per noi come per tutti gli altri kasi”.

“Così è, vostra santità”.

“Purtroppo”, continuò Tios, “oggi siamo più persi di quanto non siamo mai stati. Lascio di rado lo spazio della chiesa e ne sono grato. Questo nulla che ha messo radici tra noi… è… è difficile trovare la parola giusta”.

“Rovinoso”. Sarius si era quasi liberato.

“Inammissibile!”, gli occhi del Sacerdote s’illuminarono. “Dobbiamo lavorare più che mai. Se vogliamo diventare almeno un pallido ricordo di quanto eravamo un tempo”.

Il predicatore chinò la testa. “Concordo perfettamente con vostra santità”.

“Allora siamo in due, caro mio. E per una stanza come questa è uno stato delle cose più che buono”. Come se aspettasse di trovarvi dei capelli, passò la mano sulla nuda pelle della testa, poi rassettò gli orli del mantello che oltre a lui in tutta Tarnek solo in quattro avevano l’onore di indossare. “Dimmi, com’è andata la tua attività odierna?”.

Lo sa, pensò Sarius, e ne fu grato. La situazione inattesa in cui si era ritrovato aveva quasi completamente scacciato il pensiero di quanto accaduto al rifugio. Riferì al Sacerdote ogni dettaglio, proprio come, inconsapevole di cosa lo attendeva al suo ritorno, aveva pianificato di fare di fronte al sovrintendente Kal. L’altro ascoltò il rapporto con grande attenzione.

“Hai agito bene, predicatore. Tenendo conto delle circostanze oserei dire con gran coraggio. Già stasera informerò l’Ordine”.

“Vi ringrazio”, s’inchinò Sarius. Voleva sentire il rapporto, voleva assicurarsi che avessi agito correttamente. A Tarnek tutti i muri hanno occhi e orecchie, ma voleva sentire cosa avevo da dire prima di credere alle voci di corridoio. Gli faceva piacere l’onore che gli era stato dimostrato ricevendolo personalmente. Per la prima volta da quando era tornato alla chiesa, provò un sincero sollievo. Durò appena un istante, finché il Sacerdote non prese nuovamente la parola.

“Passiamo ora al dunque. Non ti ho chiamato senza motivo”. Tios si avvicinò al tavolo e iniziò a frugare tra le pergamene sparpagliate qua e là.

Pensavo che desiderasse sentire il mio rapporto. Che stupido che sono.

“Stamane è arrivata una lettera”. Gli porse un involto mezzo arrotolato. Il timbro che lo proteggeva da occhi indiscreti era stato spezzato, ma Sarius lo riconobbe all’istante. Tre occhi disposti a piramide, il simbolo della Santa Fratellanza. Il simbolo dei Tre.

Non dovrei guardarlo.

“Leggila. Non morde”. Il Sacerdote sprofondò nella sedia. “T’inviterei volentieri a sedere, ma come vedi lo spazio scarseggia”.

Sarius srotolò con attenzione la lettera, tenendola per le estremità. La grafia era fitta, ma leggibile.

Il giorno dodicesimo del trimestre del Pensatore dell’anno 1989 la Santa Fratellanza della città di Tarnek ha tenuto una seduta straordinaria ed è giunta alla conclusione di cui venite informati per grazia dell’Eternorisorto:

Il Sacerdote Galanor, priore della Chiesa Vecchia di Tarnek, dopo un devoto adempimento quarantennale del proprio dovere, e dopo settantadue anni di servizio nella Chiesa, è stato richiamato dal Sarto dei sogni ed è entrato nella Torre di Cristallo, lasciandoci a ricordare il suo fruttuoso ciclo, le cui tracce serviranno in eterno come base su cui proseguire la costruzione della nostra dottrina.

Seguendo la santa legge della Chiesa, che impone che i sacerdoti non possano essere nuovi risvegliati ma solamente scelti tra le schiere dei kasi che hanno fatto voto a Dio, i Tre hanno intrapreso un’analisi approfondita dei candidati adatti, sui quali erano stati informati per grazia delle vostre santità tramite i resoconti annuali.

Basandosi esclusivamente sul valore delle virtù, dopo una seduta di nove ore, i Tre hanno preso una decisione unanime.

Come sacerdote della Chiesa Vecchia si nomina il predicatore Sarius, fratello della Chiesa della Speranza, risvegliatosi nell’anno 1979 nel quinto giorno del trimestre del Sarto.

La Santa Fratellanza informa della propria decisione il Sacerdote della Chiesa dello Sguardo Divino Logon, il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios, il Sacerdote della Chiesa di Beanor Kudor, nonché il sovrintendente della Chiesa Vecchia Vandor. S’invita il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios a informare tempestivamente al ricevimento della presente lettera il neoeletto Sacerdote della decisione dei Tre.

Che l’Eternorisorto Vi porti la pace!

Le braccia di Sarius ricaddero pesanti accanto al corpo e lui rivolse uno sguardo silente alla figura che lo osservava in silenzio. Il sorriso sul volto di Tios non diminuiva la serietà della situazione che gli era crollata come un muro sulle spalle, mentre lottava senza successo per placare la tempesta dei suoi pensieri. Era impossibile collegare le righe che aveva letto alla realtà.

“Vuoi leggere ancora una volta?”, gli domandò gentilmente quello che fino a qualche istante prima era il suo priore.

“Questo… questo è…”, porse la lettera al Sacerdote. Come se si aspettasse una simile risposta, quello rispose al suo posto.

“Questa è la decisione dei tre Santi Fratelli. Riguarda la nomina del nuovo Sacerdote della Chiesa Vecchia. Galanor ha concluso il suo ciclo e si è avviato verso un nuovo risveglio”.

“C’è scritto che hanno scelto… io… c’è scritto che io sono …”.

“Il neoeletto Sacerdote. E in nome di Dio, contieniti. Sembri un predicatore qualsiasi”.

Se la battuta doveva tranquillizzarlo, ciò non avvenne. Fece un passo avanti, poi si fermò, poi ne fece un altro. Tios si alzò velocemente dal proprio posto, e gli andò incontro a braccia aperte.

“Vostra santità…”, incominciò Sarius.

“Chiamami Tios, fratello. E concedimi l’onore di essere il primo a complimentarsi”.

Le Mura Di Tarnek

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