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CAPITOLO SECONDO

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“Un vecchio ferro non riposa mai”

Proverbio degli artigiani

Il profondo silenzio fu interrotto da un rumore ben scandito di colpi metallici, portato dal vento fin dall’altra parte del cancello. Gihtar amava la pace notturna, anche quando doveva trascorrerla lavorando, come negli ultimi tempi.

Qualcun altro sta forgiando, pensò. Probabilmente si tratta di Mink lo Zoppo. Nel quartiere artigiano non vi era kas più laborioso, e gli altri maestri lo prendevano spesso in giro per il modo in cui lo storpio elogiava la propria merce. La sua abilità era sprecata – e la prodigalità ormai da tempo aveva portato la sua attività sull'orlo del precipizio. La parsimonia è metà della ricchezza, gli diceva spesso il suo padrone Kulu vantandosi del proprio patrimonio. Gihtar si accigliò con un’aria di disprezzo.

“Parli di nuovo da solo?”, udì una voce alle sue spalle.

“Non hai niente da fare, Lenora? Gli stampi non si laveranno da soli”.

La kasa stava appoggiata allo stipite e giocava con la sua ricca treccia, mentre i riverberi delle fiamme nella grossa fornace formavano delle ombre sul suo viso sporco. Forse potrebbe anche essere bella, se avesse modo di mettersi un po’ in ordine.

“Li ho già lavati da un pezzo, mio signore. Solo che non volevo interrompere i tuoi sogni ad occhi aperti”. Il fatto che fosse il primo apprendista non sembrava contare nel suo rapporto con Lenora. Aveva una mente fina e una lingua tagliente, e se ne serviva con gran gioia.

“Allora faresti meglio a sparire. A meno che tu non voglia finire sotto il martello”.

Uno sguardo carico di disprezzo fu l’unica risposta che ottenne. A volte la offendo senza alcuna ragione.

“Arrivo subito”, aggiunse contrito.

“Tranquillo. In ogni caso devo versare l’acqua nelle botti”.

Ho un gran bisogno di meditare. Anni di lavoro instancabile avevano instaurato una routine che garantiva la qualità del suo lavoro, ma poteva alleggerire la tensione accumulata sul collo e sugli arti solo con qualche ora di profonda concentrazione. L’intera Tarnek era diventata un pallido ricordo dei bei tempi andati, quelli del benessere, ma per Gihtar la cosa non voleva dire nulla. La vita nella bottega del maestro Kulu era la stessa da sempre, e non c’era alcuna possibilità che potesse cambiare in meglio. A differenza di alcuni apprendisti che conosceva, non coltivava illusioni che quell’egoista potesse mai apporre il suo timbro sul riconoscimento ufficiale che lui era progredito abbastanza da avviare la propria produzione. Di ereditare la bottega neanche a parlarne, soprattutto da quando Kulu aveva trasferito il diritto di proprietà alla sua compagna Sirmiona. Anche se si preoccupava solo di condurre una vita agiata, si sapeva che un giorno lei avrebbe ricevuto in eredità anche coloro che le sarebbero toccati in base al loro risveglio. Il suo carattere lo preoccupava ancor di più.

D’altra parte, per quanto le condizioni in cui si trovava fossero difficili, aveva acquisito un’abilità eccezionale nella lavorazione del metallo, e i suoi lavori potevano stare fianco a fianco a quelli dei maestri. Il risveglio gli aveva donato una forza inusuale, con cui poteva temprare anche i pezzi più duri di minerale, e il suo oppressore era anche colui che gli aveva infuso nelle dita una precisione e una sensibilità tali da poter formare con le materie più grezze spettacoli meravigliosi davanti ai quali i potenziali clienti rimanevano rapiti. Tuttavia, questa era una magra consolazione – al posto di rendersi indipendente e realizzare il proprio destino, era un ordinario prigioniero di una volontà superiore. Ti libererò solo quando mi supererai, gli aveva detto una volta il maestro, e per farlo ti serviranno due cicli. Purtroppo, Gihtar ne aveva a disposizione soltanto uno.

La luce di una torcia illuminò le finestre del padiglione all’altra estremità del cortile e lui si affrettò a tornare nella bottega. Kulu e Sirmiona di solito meditavano l’intera notte, e se uno di loro due avesse deciso di passare a controllare, sarebbe stato meglio che non lo trovassero con le mani in mano.

Lenora aveva appena versato l’ultimo secchio in un grosso barile di legno decorato in acciaio.

“Sembra che oggi avremo un controllo. Ho visto una luce”, le disse. Lenora si era risvegliata appena cinque anni prima e riponeva ancora una grande speranza nel proprio futuro.

“Perché vengono adesso?”.

“Come potrei mai saperlo?”.

“Non importa, saranno soddisfatti. Riusciremo a finire l’ordine prima dell’alba”.

“Come se me ne fregasse”.

“Non dire stupidaggini del genere. Ti sentiranno prima o poi”.

Senza degnarsi di risponderle Gihtar afferrò un pesante bollitore e gettò qualche sottile foglia di tellurio nella vaschetta con cui terminava. Le sue mani continuavano a bruciare a causa dei colpi di martello. Era uno dei materiali più difficili da preparare.

“Hai preparato gli stampi per i braccialetti?”.

“Eccoli là”.

“E le pietre? Sono lì dentro?”.

“Calmati”, imprecò lei sottovoce. Sapeva che la cosa la faceva impazzire, ma doveva punzecchiarla. Spesso sprofondava nei propri pensieri, diventando del tutto assente. In un turno precedente lei si era dimenticata di mettere le pietre preziose nelle apposite sedi negli stampi. Li aveva montati vuoti e lo aveva costretto a riempirli con una lega a caldo. L’ordine era enorme, e il risultato catastrofico. La nuova fusione ne aveva compromesso la qualità, e il peccato più grande era il tempo perso. Fuori di sé per la rabbia, Kulu si era rimborsato la perdita sottraendo loro il poco tempo che avevano per il riposo.

Il calor bianco all’interno del forno garantiva una temperatura soddisfacente. Tenendosi a distanza di sicurezza, v’infilò il bollitore e lo spinse fino in fondo. Teneva le mani ben salde sul manico, per poter giudicare in base al calore quando la colata sarebbe stata pronta per essere versata. Era la parte più noiosa della lavorazione, ma anche quella in cui gli inesperti sbagliavano più spesso.

Anche se il lavoro fioriva, Kulu era sempre più spesso insoddisfatto. Il giorno prima aveva portato alcuni dei campioni migliori nel padiglione, e in base a ciò lui aveva immaginato che li aspettasse un lungo lavoro. Di solito i mercanti venivano nella bottega vera e propria o nello scantinato dove era depositata la maggior parte della merce, mentre solo i più seri avevano l’onore di essere accolti nelle stanze private del maestro. Non poteva non notare il panciotto decorato con piastrine di rame addosso al solitamente trascurato Tomul, che svolgeva il servizio di guardia del corpo, anche se era totalmente inutile e particolarmente sbadato. Con sua grande sorpresa, la porta fu aperta da Sirmiona.

“Che vuoi?”, gli chiese bruscamente, fingendo di non notare il contenuto della bisaccia che aveva in mano.

“Cerco il maestro”. Gihtar si sforzava sempre di essere gentile con lei, ma proprio non ci riusciva. Non era mica lei quella a cui doveva i beni che si era guadagnato e un tetto sulla testa.

“Il tuo maestro è uscito ad aspettare un ospite importante. Dimmi cos’hai lì”.

“Stamattina mi ha ordinato di portare questi campioni. Qui ci sono braccialetti incisi, collane di stihira e tellurio e qualche cammeo a bassorilievo”.

Sirmiona sbirciò con disprezzo la borsa senza neanche provare a prenderla.

“Di che bassorilievi si tratta?”.

“I cavalieri delle stelle, l’effigie del dodicesimo canto. E il banchetto dei serafini”.

“Mi sembra più materiale sprecato che un lavoro vero e proprio”.

“Se concedeste loro l’onore del vostro nobile sguardo, vi convincereste subito che state sbagliando”, non nascondeva l’ironia nella propria voce. Nessuno, neppure lei, aveva diritto di schernire il lavoro delle sue mani.

“Lascia tutto qui e sparisci”, sibilò l’arpia e lui con piacere obbedì a quella richiesta. “E sarà meglio che iniziate a lavorare! Dovete guadagnarvi ogni singola goccia del balsamo che versiamo sulle vostre inutili pellacce!”, gli gridò dietro, ma quelle parole non erano nient’altro che una vuota minaccia indegna della sua attenzione.

Le tenaglie divennero spiacevoli al tatto e Gihtar versò con destrezza la liquida colata in uno stampo cilindrico. Altre diciannove volte così. Guardò Lenora che in silenzio infilava perle variopinte su un cinturino perlaceo, osservando con attenzione ciascuna di esse prima di passare alle rimanenti che avrebbero formato la collana. Ne desidera mai qualcuna per sé? Tutte le kase, al di là dello status sociale, amavano la moda e gli accessori. Lei non poteva essere un’eccezione. Venti bracciali e altrettante collane, recitava l’ordine. Senza alcun ulteriore dettaglio. Dopo aver ricevuto le istruzioni, in un primo momento si era stupito. I braccialetti con la superficie liscia erano di uso comune, molto popolari tra il popolo per la semplice ragione che erano di facile fattura e avevano un prezzo abbordabile. Ordinare qualcosa che avrebbe potuto fare praticamente chiunque nel quartiere degli artigiani dal maestro Kulu era quantomeno irrazionale. Ricchi snob, non badano alla bellezza, ma al prezzo che devono pagare.

Si aspettavano la temuta visita appena all’alba, quando la maggior parte del lavoro sarebbe stata pronta. Gihtar pensò che fosse ancora troppo presto per chiamare il maestro, quando Kulu entrò nel laboratorio. Incredibilmente, era di buon umore.

“Come procede?”, domandò loro dalla porta. Il suo volto oblungo emanava soddisfazione. Prima ancora di ricevere risposta, posò un vassoio ovale sul tavolo e si sfregò con noncuranza le mani sull’elegante vestito di tela leggera. “È per voi, non sprecatelo”.

“Maestro, è tutto pronto. Pensavamo giusto di chiamarvi”, disse Gihtar.

“Vedo, vedo. Avete lavorato bene”. Guardò di sfuggita i gioielli e sorrise un’altra volta. “Hai scelto dei bei modelli. Hanno comprato tutto e pagato in anticipo per la merce ordinata. Ben più di quanto mi aspettassi”.

“Queste sono ottime notizie, maestro”, disse Lenora.

“Ottime, nientemeno. Potete liberamente ringraziarmi. Finché avrete me, la vostra vita sarà facile. Lavorare con successo al giorno d’oggi richiede grande fatica, ma io ho un gran fiuto per gli affari”.

“Grazie”, disse l’apprendista con aria sottomessa. Gihtar era infastidito dalla sua sottomissione. Senza curarsi della sua condiscendenza, Kulu si voltò verso il suo servo più anziano.

“È una bella giornata. Andiamo a fare due chiacchiere in cortile”.

Sei invidiosa, Lenora?, pensò con cattiveria, e si allontanò dietro al maestro senza controllare la sua reazione.

Il cortile era veramente bello. I viottoli fioriti si allungavano fino al padiglione, e perfino i muri di pietra della tenuta, ricoperti di vite vergine, avevano un’aria quasi tenera. Kulu gli mise una mano sulle spalle.

“Sono soddisfatto delle tue prestazioni”.

Gihtar rimase basito. Si prepara infine ad affrancarmi?

“Be’, hai ancora molta strada da fare”, le parole del maestro infransero le sue speranze. Come aveva potuto pensare che fossero finite le sue sventure? Il silenzio del suo interlocutore poteva essere male interpretato. “Non offenderti, qui potrai sempre sentirti al sicuro finché mi ascolterai. Mi ascolti, Gihtar, visto che siamo già in argomento?”.

“Certo, maestro”.

“Bene. La tua obbedienza significa molto per me, perché presto avremo un lavoro serio. Questo cliente è qualcosa che aspetto da mo’, e che potevo soltanto sognarmi”.

“Deve avere trattarsi di qualche riccone”.

Kulu sorrise. “Che apprendista ingenuo! Certo che si tratta di un riccone, ma non è tutto qui. Comunque, la cosa non ti riguarda. L’unica tua preoccupazione dev’essere di poter rispettare le scadenze che ti imporrò. Se non ne sei in grado, sta’ pur certo che ti manderò in rovina. Con la quantità di balsamo, vestiti e materiale con cui ti pago posso assumere anche una decina di kasi”.

“Spero che il mio lavoro valga la paga che mi date”.

L’altro fece un cenno con la testa. “Solo non pensare che io non possa farcela senza di te. Hai una mano esperta, ma Tarnek è grande. Nessuno è insostituibile”.

Neanche tu, pensò Gihtar tenendosi l’osservazione per sé.

“Farò tutto quel che mi ordinerete”.

“Allora ci siamo capiti. Ora ascoltami bene. Oggi tu e Lenora vi riposerete, vi lascio liberi fino a domani. Sirmiona pensa che sono troppo generoso, ma non posso andare contro la mia natura. Bada solo che questa non diventi un’abitudine, perché il giorno successivo sarà molto impegnativo”.

Desideroso di riposo, l’apprendista non mosse alcuna obiezione a quanto proposto. Accetta tutto ciò che ti viene offerto, questa era la regola che aveva da tempo fatto sua durante il suo servizio.

“Un’altra cosa. Sposterai immediatamente tutta la merce nello scantinato. Le porte della bottega devono essere costantemente chiuse a chiave, e non aprirai a nessun altro che a me. Nemmeno a Sirmiona. Se verrà a trovarti, fa’ finta di non sentirla. Non cedere neanche se alza la voce, e soprattutto non metterti a discutere con lei. Sta’ semplicemente zitto, e se facesse problemi come solo lei sa, fa’ appello alle mie istruzioni. Sono io quello che servi, non dimenticarlo”.

“Tutto chiaro, maestro”.

“Manderò via Lenora per qualche giorno, non voglio che neanche lei sia presente”.

Questa volta Gihtar non poté nascondere il suo stupore. Non gli sembrava strano lavorare da solo, ma un ulteriore paio di mani rappresentava un sollievo a cui rinunciava a cuor pesante. “Non guardarmi così, so bene quel che ti dico. Se tutto andrà secondo i piani, sarà un bene anche per te. Siamo alle porte di un affare molto serio, e non permetterò che niente ci minacci. Ho passato tutta la notte a trattare”.

La luce nel padiglione. Pensavo che saresti venuto a controllarci. Sembrava che neanche Sirmiona godesse di fiducia illimitata. Probabilmente avrebbe escluso anche me, se non gli fossi tanto necessario.

“Non vi deluderò”.

“Sarà ben meglio. E ora torna nella bottega e riferisci a Lenora che siete liberi. Dopo le spiegherò tutto, ma tu preparati bene per quanto ti aspetta. E non dimenticare, non una parola a nessuno su quel di cui abbiamo appena parlato”.

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In quello spazio spartano che a lui spettava, meditò a lungo e profondamente. Un tempo Gihtar aveva avuto il diritto all’intera baracca dietro la bottega, ma dopo l’arrivo di Lenora aveva avuto il compito di dividerla in due parti. Quel mattino, proprio come il maestro aveva promesso, lei non c’era.

Grato per il riposo, non si era lasciato abbattere dall’idea degli impegni che lo attendevano, ma si era un po’ stupito quando Kulu gli aveva riportato i suoi ordini e gli aveva mostrato due nuovi stampi comprati apposta per ciò che lo aspettava. Prima di allora, era già stata una novità il nuovo forno con un bacino per il combustibile più profondo e un’imboccatura più stretta. Ciò a cui era destinato richiedeva una temperatura elevata e costante.

La produzione di coltelli, per la quale si prospettava un lavoro faticoso e delicato, era illegale, a meno che non si trattasse di una produzione appositamente commissionata. Non era il caso della bottega del maestro Kulu. Era perfettamente comprensibile perché fosse meglio evitare testimoni non voluti.

Gihtar non dubitava della propria abilità. Anche se non aveva mai forgiato nulla del genere, i bozzetti e le istruzioni che si era ritrovato davanti gli fornivano una risposta a tutte le incognite che avrebbero potuto causare qualche problema. Ciò che lo preoccupava era invece il tempo a sua disposizione. Dodici coltellacci, nel periodo previsto, non erano affatto un compito semplice. Sapeva che lo attendeva un lavoro come mai prima.

E in effetti, aveva proprio ragione.

I giorni alla forgia si fondevano in una lunga agonia piena di forti colpi di martello, fusioni e riforgiature, e l’arsura del forno e il rosso calore erano l’unico sole che i suoi occhi potevano vedere. Alcune volte si ritrovò sull’orlo della disperazione, sconfitto dal colpo dei coltelli che a fatica stava forgiando. Anche quando completava con successo il processo di forgiatura, poteva succedere che non raggiungesse il bilanciamento desiderato, cosa che lo riportava al punto di partenza. Se non altro, poteva perlomeno lavorare indisturbato, non lasciava mai il laboratorio, il maestro lo aveva rifornito di una quantità più che sufficiente di balsamo, e si concedeva brevi meditazioni solo in caso di estrema necessità, su un lenzuolo scolorito vicino alla massiccia incudine.

Le rare visite di Kulu mostravano segni di comprensione al di là di ogni attesa. Non commentava i frantumi dei tentativi infruttuosi, cosa assolutamente insolita per il suo carattere. Tutto era indirizzato a confortarlo, e a spronarlo a perseverare nel lavoro. Anche se la ragione di tale comportamento lo faceva impazzire, la cosa faceva piacere a Gihtar.

Trascorse quasi un intero trimestre prima che portasse anche l’ultima arma ormai finita nello scantinato. L’orgoglio e il sollievo si mescolavano con una profonda spossatezza, e lui si sentiva rinvigorito dal ferro su cui posava lo sguardo. Un gran lavoro, e probabilmente la più grande sfida della sua vita, era ormai un’impresa fruttuosa alle sue spalle. Che qualcuno lo ammettesse o no, come mai prima di allora era certo del proprio posto nel mondo. Il maestro Gihtar.

Quella sera stessa Kulu si presentò nella bottega con un altro kas. Dunque, ecco il cliente.

Intorpidito dalla stanchezza, Gihtar era più rilassato che mai.

“Questo è il mio apprendista”, lo indicò il maestro con la mano. Non gli aveva chiesto di uscire, ma ogni traccia di amorevolezza era ormai svanita. “Porta qui la merce”, tagliò corto.

Di primo acchito il committente sembrava assolutamente ordinario, non si distingueva affatto da tutti gli altri che erano passati di lì. La camicia di seta, così comune ed economica, era sbottonata ai limiti del buoncostume, mentre i pantaloni erano infilati in alti stivali di pelle cotta. Persino io ne ho di migliori, un accenno di risata pervase Gihtar, ma riuscì a trattenersi. Il volto dello sconosciuto, quasi latteo come una pietra bianca, freddo e duro con le labbra tirate, faceva un’impressione ben più forte. Chiunque fosse, questo kas aveva attorno a sé un’aura di autorità: era quella la sensazione che provava, mentre l’uomo osservava in silenzio le dodici spade che, tornato dallo scantinato, Gihtar aveva riposto sul tavolo di fronte a lui. A giudicare dalla postura anche Kulu aveva avuto la stessa sensazione. Si tormentava nervosamente le dita, senza distogliere lo sguardo dall’acquirente.

“Sono fatti col metallo più raffinato, che ne pensate? Prego, prendetelo in mano… sentite com’è al tatto”.

Obbedendo al maestro, l’uomo afferrò l’elsa e fece qualche movimento agile e veloce attraverso l’aria. L’arma sembrò cantare nelle sue agili mani. L’ho fatto io, pensò Gihtar, io li ho forgiati e questo kas può uccidere con essi. Solo l’abilità poteva risvegliare la natura mortifera di un coltello. Guardando con quale abilità l’arma si muoveva nelle sue mani, Gihtar comprese che questa era l’ultima cosa che mancava al misterioso ospite.

“È un buon lavoro, maestro. Proprio come avevi promesso”.

Kulu prese a vantarsi.

“Il mio nome è noto in lungo e in largo. In tutto ciò che faccio lascio una parte di me”.

Il maledetto si fa bello del mio lavoro. Non che fosse una novità, ma questa volta la situazione era ben diversa. Se per tutti i braccialetti, le collane, le corazze, le piastre e tutte le altre cose gli era toccato creare senza nemmeno la parvenza di ricevere il benché minimo riconoscimento era riuscito a rimanere zitto, non aveva intenzione di lasciar correre con quest’ultima sua creazione. Le armi che aveva forgiato erano qualcosa di ben più serio – non erano orecchini e accessori che qualcuno avrebbe indossato nell’insensato tentativo di imitare la bellezza e la gloria. Erano la prova della sua maturità – come fabbro e come kas. È vero che una parte di qualcuno rimane impressa per sempre nel ferro lucente, ma questa parte non apparteneva a chi lo aveva dichiarato. Da dove si è preso un simile diritto? Gihtar aprì la bocca, pronto a difendere il proprio onore ad ogni costo, ma prima di riuscire a emettere un suono, rimase atterrito. Se l’impudente tentativo dell’apprendista aveva colpito il maestro, non era il caso del committente.

Il suo sguardo gli imponeva di trattenersi.

Non pensò neppure di mettere in discussione quanto gli avevano ordinato quei due occhi di un nero brillante nello spazio di un secondo. No. Il viso era privo d’espressione, ma gli occhi ardevano di vita.

“I miei servitori passeranno a ritirare la merce e ti porteranno la somma pattuita. Entro stanotte”, le labbra tirate si aprirono solo per far passare le avide parole.

Kulu chinò la testa. “Va bene, va bene. L’importante è che nessuno sospetti…”.

“Non preoccuparti. Piuttosto fa’ attenzione che la tua lingua non si spinga troppo oltre”.

“Non c’è di che preoccuparsi, la discrezione è il mio motto. Spero che lavoreremo a lungo insieme e che ne siate soddisfatto”.

Il suo interlocutore chinò la testa. “Per quanto riguarda il tuo inventario…”, ma non finì la frase. Kulu, con un’impazienza totalmente in disaccordo con il comportamento tenuto fino ad allora, alzò la mano bloccandolo a metà della frase.

“Questi sono solo inutili braccialetti, anelli e qualche altra robetta. Non li terrei nemmeno, se non mi ci avessero costretto i debitori. Ci sono kasi di ogni sorta – arrivano, ordinano la merce, la portano via e non pagano. E così io m’impoverisco, devo darmi da fare e prego Dio di riuscire a ripagare almeno un po’ le mie pene, almeno con questi ninnoli. Ecco il motivo per cui ce li ho”.

“Dunque non sarà un problema vendermeli”, rispose pacifico l’estraneo. Kulu fece un cenno di dissenso.

“Non vi arrabbiate, ve ne prego. Vi ho detto che non voglio farlo. La mia Sirmiona è solo una kasa, le ho dato la mia parola che questi gioielli sono suoi”.

“Sei un uomo d’affari. Ogni cosa ha un prezzo”.

Gihtar riusciva a percepire la pena del maestro. Non poteva immaginare di quali gioielli si trattasse, ma la consapevolezza della sua sottomissione alla kasa con cui condivideva il tetto lo divertiva. Era strano, lo conosceva bene e sapeva che per il giusto prezzo avrebbe venduto la sua stessa pelle. Come ha fatto quella lì a comprarlo?

“Vi prego”, continuò Kulu quasi implorandolo, “posso farvi delle copie identiche. Le farò per metà del prezzo che farei a chiunque altro, cosa ne dite? Come gesto dalla mia buona volontà, in vista dei lavori futuri”.

“Non dubito della tua abilità”. Il suo sguardo si soffermò appena un attimo su Gihtar. “Sono certo che le copie sarebbero persino meglio degli originali. Tanto buone che neanche l’interessata si accorgerebbe della differenza”.

Pur messo con le spalle al muro, il maestro non si arrendeva. “Non sono in vendita”, la sua voce era secca ma decisa. Come se non fosse successo nulla, il suo interlocutore s’inchinò velocemente e si avviò verso la porta.

“Non serve che mi accompagni, conosco la strada”.

Kulu si trattenne ancora un po’ nella bottega, senza accennare a quanto era appena successo. Fissava l’inventario con aria assente, borbottava fregandosi la barba e scrutava quasi impaurito in ogni angolo. Poi si tranquillizzò e ordinò a Gihtar di riposarsi fino all’indomani, regalandogli un sorriso amichevole in segno di riposta quando quegli gli chiese altro tempo libero. Erano trascorsi tre mesi di lavoro sanguinoso, e a giudicare dalle parole del maestro tutto si sarebbe dovuto concludere così. L’apprendista lo maledisse tra sé e sé e poi, dopo lungo tempo, si diresse verso la propria baracca.

La stanchezza accumulata fece la sua parte. Non appena ebbe incrociato le gambe e appoggiato le spalle al freddo muro, gli occhi si chiusero da soli. Il silenzio lo inondò, e iniziò a cullarlo dolcemente. Le emozioni gli inondarono il corpo e lo attraversarono fino alla punta delle dita, dalla quale fuoriuscirono in lontananza e tornarono depurate. Da lì tutto si sfogava, e lui sentì un piacevole flusso di tensione che presto sarebbe sparito dagli arti. Finalmente.

Quando una voce iniziò a parlare, cercò invano di sobbalzare.

“Lo odii?”, nel silenzio più assoluto il sussurro risuonò come un tuono.

“Chi va là?”, il corpo non obbediva, gli occhi continuavano a restare chiusi, ma almeno la voce non si rifiutava di obbedire. “Chi va là?”, domandò nuovamente. Conosceva la risposta prima ancora di ottenerne una.

“Calmati, non avere paura. Puoi chiamarmi Set”.

“Pensavo… pensavo foste uscito”.

“Sono tornato per dare il giusto riconoscimento al tuo lavoro. Da molto tempo non m’imbattevo in un simile ferro. Dimmi, lo odii?”.

Qualcosa nel suo tono, nell’atmosfera in generale, lo liberò dalla paura e gli fece provare un’inspiegabile vicinanza. Gihtar sapeva di non poter mentire. E non voleva mentire.

“Lo odio”, rispose.

“Anch’io lo odierei, se fossi al tuo posto. Sei più in gamba di lui, più in gamba di molti altri. Eppure, sei un semplice prigioniero. Sei uno schiavo, Gihtar”.

“Sono solo un apprendista”.

Il riso riempì lo spazio avvolto dalle tenebre. “Sei solo quel che vuoi essere. Ognuno sceglie il proprio destino, artigiano”.

“Faccio ciò che Dio mi ha donato con il mio risveglio”.

“Dio ti ha assegnato il ruolo di maestro, ma lui non te lo permetterà mai. Perciò lo odii. Tu non sei un maestro”.

“Posso creare ciò che m’immagino. Sono un maestro”.

“E il suo schiavo. A che serve l’abilità se non puoi godertela?”. Set aveva colpito un punto delicato. Perché non riesco a calmarmi?

“Che cosa volete?”, domandò. L’assenza di paura era assolutamente incredibile. Mi ha stregato. In qualche modo ci è riuscito.

“Te l’ho già detto. Sono qui per darti il giusto riconoscimento, ma anche per farti un’offerta. Desideri la libertà, Gihtar?”.

Non rispose subito. Forse è tutto un tranello, forse Kulu mi sta mettendo alla prova. Che sia un esame della mia maturità? Non aveva mai sentito di una pratica simile, ma il suo padrone era uno che si discostava spesso dalla norma. Qualcosa accanto a lui frusciò, e lui comprese che non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Non ora, non dopo tutto quel che aveva passato. Se Set se ne fosse andato, avrebbe potuto perdere per sempre ogni possibilità. Sarebbe andato fino in fondo, senza curarsi dell’esito.

“La voglio”.

“Quanto?”.

“Più di ogni altra cosa”.

La voce si fece più vicina. “Posso dartela, ma dovrai fare alcune cose, e farle esattamente come te le dirò. L’unica cosa che voglio è che tu sia risoluto nella tua decisione. Non c’è prezzo per quanto ti viene proposto, ma dovrai essere pronto a batterti”.

“Sono pronto”, rispose Gihtar. Lo era davvero, più che mai.

“Allora ascoltami con attenzione e cerca di ricordarti ogni mia parola. Un’occasione migliore, caro apprendista, non l’avrai mai”.

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Mancava ancora qualche ora all’alba, e Gihtar si sentiva comunque più stanco di quanto fosse stato da molto tempo. Anche se non c’era rischio che lo sentissero, scivolò silenziosamente attraverso la porta socchiusa della baracca, e tenendo d’occhio le ombre sgattaiolò fino al muro della bottega. Nella stanza aveva qualche metro di tela morbida, ottenuta in pagamento, e vi avvolse le suole rinforzate delle sue scarpe. Nel silenzio notturno si muoveva senza fare alcun rumore.

Questa volta la bottega non era la sua destinazione. Era uno scarto rispetto alla pratica ormai da anni consolidata, ma era un nonnulla rispetto a quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Per quanto fosse il simbolo della sua sofferenza e dell’ingiustizia subita, amava quel posto. Là da qualche parte mi attende qualcosa di meglio e di più bello, pensò mettendosi a cercare la risolutezza dentro di sé. Le istruzioni erano chiare, presto tutto ciò sarebbe stato soltanto una parte del suo difficile passato. Per sempre alle mie spalle.

Il giardino era inondato dalla luce lunare. All’altra estremità si trovava il padiglione, che – come un fiore – si levava in alto su uno zoccolo di pietra. Da qualche parte laggiù meditavano Kulu e Sirmiona, incuranti della propria insolenza, sicuri della certezza di cui godevano immeritatamente. Non farò più parte di tutto ciò.

In pochi passi Gihtar si trovò accanto al muro che cingeva la proprietà, ma non si diresse verso il cancello principale. Non ancora. Il terreno dietro la baracca non era così ben ordinato, ma rappresentava piuttosto l’altro lato della vita nella proprietà di Kulu, di cui lui stesso faceva parte. Pezzi rozzi di minerali e materie prime non lavorate erano accatastati in grosse pile nell’attesa che mani esperte dessero loro forma. La loro quantità non era conseguenza di un’attenta raccolta delle riserve, ma il frutto di un insensato acquisto di tutto ciò che si poteva avere con la minima spesa. A volte per mesi si accumulava solo legname, mentre vi erano periodi in cui ogni cinque giorni vi si scaricavano i metalli più svariati, spesso perdendo la possibilità anche solo di registrare quanto era stato così depositato. Ogni tanto accadeva che una pila crollasse, e se presagiva tale possibilità, il maestro la preveniva esortandoli a lavorare come dei forsennati e a riversare articoli già pronti nell’immenso magazzino sotterraneo.

Ciò che lo interessava era il portone di servizio, e notò con felicità che era vuoto. Il compito di Tolum prevedeva tra le altre cose di montarvi la guardia durante la notte, ma la pigrizia riempiva ogni parte del suo essere. Probabilmente per la gran mole di lavoro e perché conducevano esistenze separate, Gihtar non aveva mai avuto l’occasione di conoscerlo meglio e anche i pochi contatti che avevano avuto non avevano suscitato in lui un desiderio più serio. La guardia era un’armatura vuota, tanto priva di personalità e tanto ordinaria che gli dava fastidio anche solo dedicargli i propri pensieri. Un tempo si era interrogato sul suo rapporto con il maestro, se anche lui condividesse la grave pena di un arduo servizio, ma alla fine si era stancato di tutto ciò. Se qualcuno meritava un superiore come Kulu, quello era Tolum.

Come sempre, l’ampio portone era ben sbarrato. Gihtar dubitava che qualcuno se ne fosse occupato mentre lui era impegnato alla forgia. Aveva avuto indicazioni di svolgere tutti i lavori pesanti e probabilmente proprio una serie di incarichi era l’unica ricompensa che lo attendeva nei giorni successivi. Bussò con calma sul portone al ritmo del segnale concordato, e due ombre passarono come un fantasma presso il muro e si appostarono sulla sua sommità senza compiere più alcun movimento. Persino a una tale vicinanza era difficile distinguerle dall’ambiente circostante. Sicuramente per loro non è la prima volta.

Doveva procedere oltre.

Mentre lasciava i cumuli delle scorte alle sue spalle, gli sembrò di vedere un movimento sul muro opposto, ma non riuscì a capire se era solo la distanza a prendersi gioco di lui. Tieni conto solo di quanto ti dico di fare, gli era stato chiaramente indicato, e fermamente deciso ad attenersi a tali istruzioni si avvicinò alla dimora di Kulu. Si fermò solo quando avvistò Tolum.

Era un kas grande e grosso, e ciò che impediva alla sua figura intera di essere armoniosa erano di fatto le mani – innaturalmente piccole in rapporto alla sua altezza, indubbiamente funzionali e tuttavia troppo impacciate per poter possedere qualche qualità più nobile della forza bruta. Lo stemma maldestramente ricucito del maestro Kulu, un martello da fabbro circondato da quella che sarebbe dovuta essere una collana, s’intravedeva appena sulla stoffa scadente della tunica che persino sotto il manto della notte appariva sporca. Se non riesco a convincerlo, sarò in guai grossi. Tastò il pezzo di carta rilegata e lo strinse forte. Le cose erano ormai andate troppo oltre, non poteva più tornare indietro e tutto quel che poteva fare era riporre la speranza nell’attendibilità delle promesse di Set. Nella tasca troverai un messaggio. Non leggerlo per nessuna ragione, ma dallo al guardiano quando arriverai sul posto.

“Tolum”, lo chiamò sottovoce. Non vi fu alcuna reazione. Quanta devozione al proprio dovere. “Tolum”, tentò un po’ più forte, temendo per le possibili conseguenze. Anche se il guardiano era duro d’orecchi, i due dentro il padiglione no. Per fortuna, riuscì a strapparlo al suo sonno e lui alzò lo sguardo. Gihtar fece un passo avanti, facendogli segno con le mani di non fare rumore.

“Che ci fai qui?”, sussurrò il guardiano.

“Sono venuto a portarti questo”, gli porse il rotolo. Tolum lo fissò guardingo.

“Che cos’è?”.

“Una lettera per te”.

“Una lettera? Sai che ora è?”.

“Prendila e leggila, su”.

“Non dovresti essere qui”, continuò l’altro, si guardò attorno, poi aggiunse più piano: “Da parte di chi?”.

“Ti prego, prendila”.

Tolum infine obbedì, e sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscisse infine a sciogliere la cinghia con cui era avvolta. Gihtar poteva distinguere le spesse linee che formavano le poche parole, ma il guardiano dovette avvicinarla al volto. Per fortuna, sa leggere. L’alfabetizzazione non era affatto una rarità, ma nel caso di Tolum non lo avrebbe sorpreso il contrario.

Qualsiasi cosa vi fosse scritta, ebbe un certo effetto. L’uomo nascose in tutta fretta la carta sotto la cintura, e si passò le mani impacciate tra i radi capelli.

“Spero che non sia un qualche trucchetto. Se mi prendi in giro, te ne pentirai”. Benché dovesse suonare come una minaccia, dalla forte apprensione nella sua voce risultò quasi buffa. Gihtar aveva la risposta pronta e sperava che servisse allo scopo.

Occhio di Luna, non ho altro da dirti”.

Tolum rimase di stucco, come se non potesse credere a quanto aveva appena sentito. Poi si mosse di scatto e iniziò ad allontanarsi a passi veloci verso la bottega. Proprio quando iniziava a pensare di essersene sbarazzato, quello si fermò, si voltò verso di lui e fece qualche passo avanti.

“Non muoverti da qui. Finché non torno”.

“Non c’è fretta. Ma non fare rumore”.

Il guardiano chinò la testa e riprese ad affrettarsi. In breve tempo di lui vide solo i contorni, e poi le tenebre si chiusero attorno a lui. Gihtar si sentiva a disagio. Non si sentiva alcun rumore.

Ancora un po’ e tutto sarà compiuto. Ora che l’ostacolo principale era stato aggirato, il pericolo di essere colto sul fatto era di gran lunga inferiore. Combattendo con l’agitazione si trascinò fino all’ingresso principale e tirò la maniglia che apriva il battente. Il cigolio del meccanismo squarciò la notte, finché l’ultima difesa della sicurezza di Kulu non si aprì per lasciare spazio a ciò che doveva accadere.

Tutto si svolse come un lampo.

Preoccupato che il rumore potesse risvegliare i proprietari, Gihtar si diresse verso il padiglione, giusto in tempo per vedere delle figure ombrose scivolare abilmente sulla rampa e prendere posizione accanto al portone indifeso. Mentre cercava rifugio al riparo del muro, attraverso il silenzio riecheggiò un’esplosione e lui con un malevolo piacere di cui non avrebbe mai neppure immaginato di essere capace capì che avevano fatto irruzione. Sirmiona lanciò un urlo acuto quando la luce di una fiaccola illuminò l’ambiente. Farà loro del male? Dalla distanza a cui si trovava non poteva vedere l’interno, ma i rumori portati dal vento gli fecero comprendere che nelle stanze del suo padrone non stava succedendo niente di piacevole.

Alla sua destra si sentirono delle voci e un’ala del cancello aperto colpì con forza il muro quando attraverso ad esso irruppero nella proprietà un gran numero di persone, cadendo una dietro l’altra. Con terrore riconobbe l’uniforme dell’Ordine su una di esse. È la fine, sarò catturato. La legge era giunta da sé, come aveva potuto essere tanto stupido da accettare la proposta di Set? Dalla posizione in cui si trovava era difficile passare inosservato, e soprattutto sembrava che gli intrusi come per dispetto avessero illuminato le stanze di Kulu con tanta luce che ogni tentativo di nascondersi sotto il velo delle tenebre era vanificato.

La bottega, devo riuscire a raggiungerla. La profonda cantina sarebbe potuta servire come nascondiglio, avrebbe avuto abbastanza tempo per organizzare una difesa, una volta nascosto. O quello – o tentare di fuggire di lì e trovare asilo nelle strade di Tarnek. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lo trovassero? Si trovava di fronte a una scelta tutt’altro che facile. Avrebbe potuto raggiungere la bottega per la stessa strada con cui era arrivato fino lì, ma laggiù si aggiravano delle ombre. Non riusciva a immaginarne il numero. L’altra strada s’insinuava tra il padiglione e l’ingresso principale, ma lì ora si trovava l’Ordine, e se lo avessero preso si sarebbe dovuto fare largo tra i giustizieri. Si trovava di fronte allo stesso dilemma anche se avesse scelto la fuga. Posso far finta di essere una vittima. Li manderò al piano di sotto e fuggirò.

Prese una decisione. Non si sarebbe mai permesso di rinunciare alla libertà, per quanto poco potesse durare. Non ora che ce l’aveva tra le mani. Forse non mi noteranno affatto, pensò, e che cosa potrebbero mai farmi in nome di Dio? Preso dal panico, rimase quasi accecato da quanto accadeva intorno a lui, registrandolo solo con gli occhi e non con l’intelletto. Uno dei guardiani della legge ruotò su sé stesso e quasi gli cadde sui piedi quando un kas con una corazza di cuoio lo colpì con un’enorme mazza. Gihtar scoppiò a ridere, reso folle dall’improvvisa consapevolezza. L’Ordine era lì, ma non era solo. Quelli con cui tentavano di combattere erano due volte di più. Riecheggiò un suono acuto quando uno di loro brandì la spada e un braccio avvolto nell’uniforme prese il volo nell’aria. Il mio lavoro, pensò, è così che taglia quel che io forgio, e appena un attimo dopo si trovò faccia a faccia con un altro proprietario dell’opera a cui si era tanto a lungo dedicato. Mi colpirà. C’era qualcosa di selvaggio nell’idea che sarebbe stato ferito da una lama che lui stesso aveva creato.

“Lui è con noi”, riecheggiò una voce ferma e il suo aspirante assalitore si spostò, alzando la lama in alto sopra la testa, pronto a calare il colpo su chi lo avesse meritato. Prima che riuscisse ad abbassare il braccio, una punta di ferro con precisione quasi chirurgica fece breccia nella corazza di pelle dura sulle sue spalle e appena un attimo dopo furono tutti bersagliati dai rimasugli di quanto un tempo componeva il suo torso. Rabbia e soddisfazione brillavano sul volto del guardiano della legge, che gettò a terra il trinciante usato e di scatto estrasse un pugnale correndo verso Gihtar. Mi ucciderà, pensò, e tentò di difendersi alla bell’e meglio. Sarebbe stato tutto di gran lunga più facile se avesse avuto un’arma qualsiasi. Non c’era quasi spazio di manovra, il mondo attorno a lui era diventato una massa di grida e colpi e lui pensò al fatto che era un vero miracolo che fosse ancora in piedi. Pochi istanti lo dividevano dal suo assalitore e lui con ammirazione pensò all’energia del colpo che ne sarebbe inevitabilmente seguito. Vuole uccidermi. Il suo boia, ormai a un passo dal suo scopo, inciampò sui resti di qualcosa, e se non avesse avuto un’aria di stupore sul volto Gihtar non si sarebbe accorto della situazione salvifica che gli si era inaspettatamente presentata. Guidato da un istinto di cui in precedenza non era mai stato cosciente, si spostò abilmente di lato e con un forte colpo placò per sempre l’ira del suo aspirante carnefice. Sembra che ora io possieda un’arma. Sconvolto dalla vista del cranio deformato del kas, tento di valutare quanto balsamo sarebbe stato necessario per curare lo sfregio che i frammenti d’osso avevano procurato alla sua mano. Lo strappò dallo stato di trance una mano che lo scuoteva stringendogli forte una spalla. “Maledetto, gli hai fatto saltare la testa con un pugno!”, urlò un volto rozzo ricoperto dalla barba scoprendo allegramente una serie di denti affilati. “Lo hai spappolato come se fosse una torta di zucchine!”.

Si guardò attorno, barcollò, tentando di allontanarsi dal cadavere accanto al quale stava in piedi. Aveva ucciso un kas – per quanto fosse una questione di difesa, l’aveva comunque ucciso. Un altro Gihtar dentro di lui pensò quant’era bizzarro trovarsi dentro il Gihtar criminale. Gihtar l’assassino. La proprietà era illuminata a giorno, e lui comprese che il padiglione era in fiamme. Le figure oscure, ora radunate alla base del gigantesco falò, non erano più ombre – la torcia aveva scoperto le loro nere uniformi, per niente meno spaventose di prima. Il cadavere di qualcuno bruciava mentre gli altri trafficavano intorno a dei supporti di legno sui cui era riposta una cassa. Tutto attorno si trovavano i resti di quelli che non si sarebbero più risvegliati. La battaglia presso il cancello era giunta al termine.

“Andiamo!”, gridò qualcuno, e la folla si affrettò verso l’uscita. Gihtar si lasciò trascinare dalla massa, e ben presto correva completamente disorientato per le strade vuote della città. Camminando al ritmo dei passi dei suoi inattesi commilitoni, si guardava attorno disorientato – le mura, i tetti, la notte che pian piano spariva lasciando spazio al suo primo mattino di libertà, così forte e impressionante da ubriacarlo e da sembrargli che quella che fino a ieri pareva vita fosse così lontana da non essere mai successa. Correva come un pazzo, selvaggio e sregolato, sorbendo ogni dettaglio con un entusiasmo per via del quale il suo corpo ardeva. E adesso, all’improvviso, come tutto ciò che era accaduto quella notte, il suolo sotto i suoi piedi svanì e lui cadde nelle tenebre.

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Quando recuperò i sensi, si accorse di essere in un’immensa sala senza finestre, piena di kasi che parlavano allegramente tra loro, ridendo e scherzando sotto la forte luce della fiamma che ardeva in un focolare in muratura al centro della stanza. Era seduto a un tavolino in un angolo, e di fronte a lui si trovava un barile di legno pieno di balsamo. I suoi vestiti erano per la maggior parte strappati, e gli vennero alla mente le sue cose, che aveva lasciato probabilmente per sempre nella baracca nella proprietà del maestro Kulu.

Quando tentò di alzarsi per osservare meglio l’ambiente attorno a sé si accorse di essere troppo debole per reggersi in piedi. L’esperienza inattesa aveva preso il suo dazio, e lui con sofferenza richiamò alla memoria l’ultima volta che era riuscito a compiere una meditazione completa. Era un vero miracolo che fosse riuscito a reggere tanto a lungo. Una voce si distinse tra tutte altre, ma non poté distinguere cosa avesse detto. Chiuse gli occhi. Come se fosse importante, pensò. Tutto era compiuto, non avrebbe mai più dovuto sopportare la tortura, e qualsiasi cosa lo attendesse non poteva essere peggio di quanto si era lasciato alle spalle. Quella consapevolezza lo tranquillizzò.

“Ti piace la libertà?”. A differenza degli altri, la fonte dell’inattesa domanda era nota e Gihtar con stanchezza sollevò la testa. Set sorrideva. Anche lui sembrava spossato mentre con una mano si appoggiava a un kas più basso il cui volto era nascosto da un cappuccio nero. “Abbiamo avuto qualche piccolo problema con l’Ordine, ma alla fine è andato tutto bene. Qualcuno quaggiù dice che hai la mano pesante”.

“Ho agito secondo le istruzioni”.

“Sì. Sono felice di non essermi sbagliato quando ti ho affidato questo compito”.

“Kulu e Sirmiona…”.

“Sono morti. Non opprimeranno più nessuno. Devi esserne felice”.

Gihtar tuttavia si sentiva più vuoto che felice. In ogni caso, la cosa gli faceva piacere.

“E Tolum?”, domandò sottovoce. S’immaginava che anche a lui non fosse toccato un destino migliore.

“Il guardiano non è stato un problema. Fino all’ultimo istante non si è potuto rassegnare al fatto che lo attendeva la nostra fratellanza, invece di quel che si era aspettato dopo aver letto la lettera”.

“Che stupido kas…”.

“E di natura assai amorosa, se posso fare un’osservazione”, aggiunse Set quasi con allegria. “Visto che siamo già in argomento, permettimi di presentarti il suo Occhio di Luna”.

Se il guardiano volesse controllare, digli solo questo nome, ancora si ricordava le istruzioni di Set. La figura accanto a lui si abbassò il cappuccio e Gihtar ne vide il volto.

“Lenora…”.

“Mio signore apprendista”, prese parola lei fingendosi umile, “benvenuto nella Fratellanza Nera”.

Le Mura Di Tarnek

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