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CAPITOLO TERZO

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“… All’interno della città, nostra è la giustizia!”

Giuramento dell’Ordine

Per un attimo aveva pensato di essere nell’Avamposto, ma quella supposizione si dissolse tanto facilmente quanto era comparsa. Era a casa, e si abbandonò a quella piacevole sensazione mentre la coscienza gli riempiva nuovamente il corpo. Giornata libera.

Quel che lo ritemprava era il rumore che veniva dalla stanza accanto. Aperti gli occhi, Nelgor diede un’occhiata all’uniforme appesa accanto alla porta. Un raggio di sole cadeva su un bottone levigato, facendo sembrare che fosse fatto d’oro. Monada. Deve averlo pulito lei. La notte precedente aveva avuto appena le forze di liberarsi dai vestiti e pulirsi con un asciugamano. Che brava kasa. Sembrava che avesse meditato a fondo, perché non l’aveva affatto udita alzarsi e uscire. Non l’ho neanche sentita. La stanchezza e lo stress facevano la loro parte. Un tempo quasi non vi era notte in cui non fosse cosciente della sua presenza, e non appena si stendevano la loro energia dava inizio alla loro danza, vorticando liberamente e selvaggiamente attorno ai corpi esausti. Notti d’amore. Grazie a quegli ardori tornava a essere più completo che mai, pronto a lavorare per giorni senza interruzioni. Purtroppo, situazioni del genere erano ormai sempre più rare, e anche quando accadevano erano più meccaniche che caratterizzate da una sincera sensualità. Probabilmente con gli anni certe cose erano diventate ordinarie. Nonostante tutto, la amava con lo stesso ardore.

Indossò velocemente la vestaglia e diede un’occhiata attraverso la finestra. La giornata è stupenda. Due kasi passeggiavano pigramente per la strada chiacchierando tra loro. Si fermarono di fronte a una vetrina e si misero a guardare dei tappeti sontuosamente decorati. Sulla porta si affacciò il proprietario e si scambiarono qualche parola che lui non poté sentire. Riconobbe Fenor; viveva al pianterreno e per quanto potesse essere scorbutico con i clienti era sempre cortese senza alcuna eccezione. Potremmo fare due passi oggi.

Avvistò Monada non appena mise piede nella stanza principale. Questa era l’unico altro spazio che insieme alla sala per la meditazione formava ciò che chiamavano casa. In ogni caso non potevano vantarsi della grandezza dell’appartamento, ma le loro esigenze erano pienamente soddisfatte. Sul pavimento accanto al tavolo si trovava un secchio; Monada, china su di esso, ne stava amalgamando il contenuto con grande impegno con un mestolo di legno. Quando lo sentì, sollevò la testa, lottando con una ciocca di capelli color porpora che dispettosamente le nascondeva lo sguardo. Quant’è bella.

“Sei tornato”, lo salutò. “Non volevo disturbarti, mi sarebbe dispiaciuto”.

“Avresti dovuto”, con un tenero gesto le allontanò i capelli dal volto. “Per poco non ti vedevo neanche oggi”.

Lei sorrise. “Che importa, dovevi riposarti”. Il suo sguardò si posò sulla scura mistura di cui si stava occupando. “Sono uscita in silenzio per non svegliarti. Ho portato il collante… pensavo che mi avresti aiutato a rattoppare quel…”.

Nelgor fece una smorfia. “Moni, perché continui a insistere? Poteva aspettare”. Qualche mese prima in un angolo del soffitto si era aperta una crepa. L’edificio era vecchio, ma comunque non era una cosa che sarebbe dovuta accadere. In ogni caso, non si era preoccupato troppo, i dispiaceri sarebbero comparsi solo se fosse iniziato a piovere e i rovesci erano tanto rari che non si poteva ricordare quand’era stata l’ultima volta che il cielo aveva bagnato Tarnek. D’altra parte, Monada non aveva smesso di frignare e la cosa lo irritava sempre più. Temeva che il buco potesse allargarsi, e l’umidità era quel che la preoccupava di più. Quando s’intrufola non hai modo di liberartene, gli aveva detto, e quando compare la cancrena allora è troppo tardi. Era la verità, ma le cose non erano poi così tragiche. La morte cancrenosa coglieva le sue vittime in molti modi, e non c’era un motivo razionale per una tale paura di tutto ciò che avrebbe potuto causarla.

Doveva immaginare che era questione di giorni prima che la donna prendesse in mano la situazione. Era ostinata e testarda. In reazione alla critica, i suoi occhi rivelarono un chiaro messaggio. Se vuoi metterti a discutere, accomodati pure. Forse si sarebbe sottomesso senza opporre resistenza, e avrebbe accettato il lavoro, ma la domanda che seguì s’impose da sé.

“Con che cosa hai pagato?”. Quell’anno era stato particolarmente pesante, e il terzo trimestre che stavano ora attraversando non infondeva speranze che si concludesse meglio di com’era iniziato. La grande domanda era che cosa avrebbe portato con sé il futuro. Aveva la fortuna di servire l’Ordine, ma poteva ringraziare solo la sua parsimonia per le scorte di balsamo che avevano accuratamente messo da parte. Allo stesso tempo, le ore di straordinario comportavano un ragguardevole profitto, e oggi non si sapeva se la norma ordinaria avrebbe portato frutto. Già tre volte al posto della paga avevano ricevuto una garanzia, un pezzo di carta con cui la città s’impegnava a trasformarlo in quello che si erano onorevolmente guadagnati non appena si fossero accumulate riserve sufficienti. Non avevano potuto rifiutare. Non le aveva mai imposto la propria volontà, ma aveva solo una preghiera, un’unica semplice regola che si aspettava venisse rispettata. Non rivendiamo il balsamo. Raramente avevano altri beni che potevano essere scambiati, perciò vivevano semplicemente, ma perlomeno a differenza di molti non dovevano preoccuparsi per la propria pelle.

“Ne ho preso appena un po’”. Nella voce c’era senso di colpa, ma non pentimento.

“Per l’amor di Dio, Monada!”, gridò lui. “Non posso credere che l’hai fatto!”.

“Ne ho preso un briciolo, non farne subito un problema!”.

“Ma questo è un problema!”. Dopo la prima volta ne sarebbe giunta anche una seconda, e l’eccezione in brevissimo tempo sarebbe diventata una regola. “Sprechi ciò da cui dipende la nostra vita per qualcosa di insignificante come il collante!”.

“Non è colpa mia se abbiamo solo quello da spendere”. La sua risposta la colpì come una lama. Non parlavano mai del fatto che solo il suo lavoro era retribuito. Monada era un’artista, una pittrice, e quella professione non era messa bene neppure in tempi migliori. Non aveva mai pensato di lasciarla per quello, era sottinteso che lavorava per entrambi. Era un colpo basso, e non era affatto degno di lui.

“Mi dispiace, ma è tutto quel che abbiamo”. Aveva abbassato i toni, trattenendosi dall’offesa. “Se pensi che dobbiamo rimanere anche senza quello, fa’ pure. Spendilo tutto”.

“Non lo farei mai!”. Il mestolo le cadde dalle mani e finì sul pavimento. “Come puoi non capire, volevo proteggerti. Quel buco… dobbiamo rattopparlo”.

“Sono d’accordo, ma non così. Sai quanti kasi non hanno la possibilità di permettersi nemmeno un unguento annacquato?”.

“Meglio di te. Il fatto che sei di servizio non significa che tu sia l’unico a vedere quanto accade”.

Non ne hai la benché minima idea, pensò lui, ma stette zitto. Il giorno prima durante il turno era scoppiato un focolaio. Un criminale era fiorito, e per qualche ragione i più deboli si erano trovati a portata di tiro del bandito. Li avevano inceneriti ancora morenti, nascosti in un angolino, come se la cancrena non avesse già abbastanza amareggiato il loro destino. Era impossibile rintracciarli, la ricerca si era trasformata in un circolo vizioso. I pochi testimoni erano troppo spaventati per dare una qualsiasi informazione, e nuovi focolai germogliavano quasi ogni notte.

Conscio che una qualsiasi parola di troppo avrebbe solo potuto far scoppiare una lite aggiunse con più calma: “Puoi promettermi che non farai più cose del genere?”. Non voleva trascorrere nell’ira i pochi momenti liberi insieme a lei. Quel che era stato fatto non poteva più essere corretto.

Lei chinò lo sguardo sul pavimento, come se la risposta si trovasse vicino alle loro gambe. Quando lo guardò, seppe che aveva placato la sua rabbia e inghiottito il rospo.

“Lo giuro”. Agli angoli della sua bocca c’era qualcosa che poteva sbocciare in un sorriso. “Non avevo intenzione di sprecare quel che abbiamo, ma credo davvero che sia una necessità. Volevo solo il meglio”.

“Lo so”. La abbracciò e la stanza si riempì di un piacevole silenzio.

“Ci mettiamo al lavoro o continuiamo a ciondolare?”. Il sussurro di Monada gli solleticò l’orecchio.

“Al lavoro. Ma dopo dobbiamo goderci questa giornata insieme”.

Come la maggior parte delle cose che si potevano acquistare a Tarnek, neanche il collante era particolarmente di qualità. Monada teneva il recipiente mentre lui si sforzava di mantenere l’equilibrio sull’instabile sedia e riempiva il buco con il miscuglio che si asciugava più lentamente di quanto previsto. Proprio quando pensava che il lavoro fosse ormai terminato, parte del miscuglio crollava, scoprendo nuovamente un pezzetto di cielo sereno. Quello che sarebbe dovuto essere pronto in meno di un’ora, ne richiese due, e quando finalmente fu terminato entrambi guardarono con soddisfazione il proprio risultato.

“Finalmente”, disse lei. “Il venditore mi aveva assicurato che era di prima qualità. Che sia maledetto!”.

“Dove l’hai comprato? Al mercato?”, domandò Nelgor.

“In Via Argentata. Mi dava fastidio andare tra la folla”.

“Non sapevo che ci fossero dei venditori anche lì”.

“Già da un po’, non sono in molti, giusto due o tre. Principalmente di materiali da costruzione. Anch’io li ho visti per la prima volta qualche giorno fa, quando sono andata a trovare Kartagona. Le loro bancarelle sono proprio accanto a casa sua”.

“Mi stupisce che non ci abbiano ancora mandati a cacciarli via. È un quartiere troppo ricco perché trasformino anche quello in un mercato. Che cosa dice Kartagona, non hanno fatto rapporto?”. Era una kasa pignola, con degli sguardi piuttosto irritanti sulla società, che non perdeva occasione per imporre il proprio pensiero persino nelle situazioni in cui nessuno glielo aveva chiesto. Eppure, rispettava il fatto che fosse amica di Monada.

“No. Per loro è meglio che si trovino accanto a casa che andare tra la folla. Vorrebbero anzi che l’offerta si ampliasse”.

“Sono diventati così pigri?”.

“Non è quello il punto. Hanno paura”.

La risposta non gli fece piacere. I kasi ricchi da sempre avevano un’alta opinione di sé e amavano ostentare il proprio prestigio. Probabilmente lo trova più degradante di quello che teme. Tuttavia, e se fosse questa la verità? E se fossero infino giunti al punto in cui anche i potenti avevano paura? Per le strade c’erano kasi di ogni tipo e non si era mai trattato di una questione di carattere, ma del loro livello di prepotenza. Quanto siamo diventati impotenti?

“Penso che esageri”, disse. Monada fece solo un cenno con la testa. Valutare le ragioni altrui non la interessava.

“Ti ricordi che ti ho parlato della vicina di Kartagona, Jotaka?”.

Lui annuì.

“Beh, stamattina le ho incontrate entrambe mentre facevo compere e mi hanno invitato a casa loro”.

“Un po’ di chiacchiere tra amiche”. Non aveva intenzione di essere ironico, ma Monada in ogni caso non vi avrebbe rivolto grande attenzione. Voleva condividere qualcosa con lui.

“Quella Jotaka un tempo era insegnante di filosofia, ma ha lasciato il lavoro. Forse per mancanza di interesse si sono fuse due scuole, e così si è formata una folla troppo grande. Dice che non aveva intenzione di andare fino all’altro capo della città per una lezione alla settimana”.

“Tenendo conto della situazione, è molto responsabile da parte sua”.

“È ricca, può permetterselo”.

“Incredibile per un’insegnante di filosofia”.

“Ha avuto un qualche kas, credo si trattasse di un giudice. Quando la Torre di Cristallo lo ha chiamato al riposo, già da tempo le era stato intestato tutto”.

“Ora si spiega tutto”, sbuffò lui.

“Ma questo adesso non importa ai fini del racconto. In generale, abbiamo chiacchierato un po’ anche l’altra volta, ma oggi abbiamo continuato. Sai, dopo che ha lasciato il lavoro, si è completamente dedicata alla religione”.

“Filosofo un giorno, filosofo per tutta la vita. Lo studio della religione non contribuirà granché alla società. Ma probabilmente ci penserà quando perderà tutto quello che ha ereditato”.

“Non essere così negativo”. Monada con un dolce gesto gli diede un colpetto sotto il tavolo. “Non è affatto male”. E poi aggiunse, abbassando il tono: “E non studia la religione. Voglio dire, la studia, ma non è l’unica cosa che fa”.

“Oh?”. Ora la cosa iniziava a interessarlo. Fino a che punto l’ozio degli individui è pronto a spingersi?

“Predica anche”. Sul viso di lei si poteva leggere un sincero stupore. Nelgor trattenne a fatica il riso, non volendo essere interpretato male.

“Non sapevo che la Chiesa permettesse alle kase di predicare. Moni, sei sicura che qualcuno non si stia prendendo gioco di te?”.

“Certo che lo sono. Dovresti sentirla”.

“La religione è piuttosto esplicita quando si tratta di certe cose. Lo è da sempre”.

“Lo so… ma…”. Si fermò, esaminandolo insicura con lo sguardo. Ha qualcosa in serbo per me.

“Ma cosa?”.

“Qui non si tratta… di quella religione”.

L’unica fede che Tarnek riconosceva era rappresentata dalla Chiesa. Nelgor venerava il Dio Eternorisorto nella misura in cui ciò era normale, astenendosi da ogni cieco fanatismo e inutile superstizione. Capiva molto bene quello che Monada aveva appena condiviso con lui. Era un’altra delle follie causate dalla crisi. Sfortunatamente, c’erano cose ben peggiori con cui l’Ordine doveva fare i conti. La Chiesa potrebbe fare qualcosa almeno quando i problemi sono nel suo campo, pensò.

“Non vorrai dirmi che hai ascoltato una settara?”. Nella sua voce non c’era rabbia. Era deluso.

“Sì, e allora? Hai mai sentito qualcuno di loro?”.

“No, perché ho abbastanza cose più intelligenti di cui preoccuparmi”. I colpi bassi ora erano parte del suo repertorio. “Per quanto lo neghi, non hai idea di come si vive nelle parti più povere della città. Pertanto ti prego di comprendere che considero le farneticazioni degli eretici una perdita di tempo”.

Incredibilmente, questa volta lei rimase calma. “Si chiamano Predicatori della Verità”.

“Oh, e pare che chi si fregia di un nome simile probabilmente dica soltanto la verità. Dimmi, le sue predicazioni erano gratis, o le hai pagate come la riparazione del soffitto?”.

“Non ho pagato niente. La tua reazione è completamente comprensibile, Jotaka dice che…”.

“Non m’interessa qual che dice Jotaka! Mi fai davvero impazzire se penso che sei seriamente impazzita per simili cose”. L’ultima cosa che voleva era una kasa fanatica religiosa in casa.

“Non sono impazzita, volevo solo chiacchierare un po’”.

“Di cosa, in nome di Dio?”.

“Di quel che ho sentito da lei. Penso… so che non può essere la verità, ma d’altra parte…”.

“Non c’è un’altra parte, Moni. È una massa di gente da nulla che vuole approfittarsi della paura delle persone”.

“Predicano solo”.

“E creano il panico. Qualcuno all’Avamposto mi ha raccontato di aver ascoltato quelle stronzate nel Parco di Pietra. La fine del mondo e altre idiozie. Non capisci cosa c’è dietro? Raccolgono adepti per poi spennarli, è un vecchio trucco da impostori. Prima ti faccio impazzire gratis, e poi sei in mio potere”.

“Forse è così, però… se avessi sentito come parla…”.

Le prese la mano nella sua e la guardò negli occhi.

“Vedi, sai che non do molta importanza a cose del genere. E non penso che ci sia qualcosa di terribile nel fatto che hai iniziato ad ascoltare questa follia. Tuttavia, ti ho sempre considerata razionale e saggia”. Monada lo guardava abbattuta, evidentemente anche lei incerta di dove volesse andare a parare. “Non vorrai mica permettere che qualcuno che conosci appena ti riempia così facilmente quella bella testolina?”.

“Nessuno ha riempito la mia testolina. Ho solo riflettuto su quel che ho sentito, tutto qui”.

“Questo è bene. Ma ti prego, t’imploro, non pensarci troppo perché mi preoccuperò seriamente. Idiozie del genere non meritano l’attenzione di una persona normale”.

“Te l’ho detto, non è proprio come…”.

Si sentirono dei colpi alla porta. Monada s’interruppe, e lui tra sé e sé ringrazio il vero Dio per questo. Il giorno si era avviato in una direzione totalmente sbagliata. Quando lei aprì, lui riuscì a vedere solo l’orlo della manica dell’ospite inatteso, e ciò fu più che sufficiente per sapere di cosa si trattava. Aveva riconosciuto l’uniforme.

Senza attendere che glielo dicessero, si alzò e andò nell’altra stanza a cambiarsi d’abito. Uscendo si salutò con Monada, facendo finta di non essersi accorto del suo disagio. Tuttavia, ciò che lo attendeva alla porta lo colse completamente alla sprovvista, e lui borbottò una scusa, confuso. Si aspettava uno dei colleghi giustizieri, di solito qualcuno di loro notificava quelli liberi di tornare in servizio non appena ve n’era l’esigenza. Simili pratiche non erano frequenti, ma capitava che i Pugni annunciassero un controllo o una retata inattesa. Le uniformi si distinguevano solo per le spalle e le cinghie. Maledetta kasa, lo ha lasciato sulla strada. Non distingue i gradi?

Sul volto del capitano si poteva scorgere solo impazienza.

“Tutto a posto, giustiziere, sbrigati solo”, gli rispose. “I Pugni hanno ordinato una riunione straordinaria all’Avamposto”.

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Il Quinto Avamposto era una delle organizzazioni più rispettate dell’Ordine di Tarnek. Anche se non era così attrezzato come il Primo, era importante per la presenza di giustizieri che erano tradizionalmente tra i meglio valutati nei resoconti annuali.

Non appena oltrepassò il portone di controllo, si trovò nel cortile d’addestramento strapieno di colleghi. Non aveva senso farsi strada verso l’edifico, ottenne una spiegazione dal primo a cui si rivolse. La riunione si sarebbe svolta all’aria aperta. Non poteva essere altrimenti, sapeva che non c’era uno spazio tanto grande da poter accogliere tutti i giustizieri radunati. Il capitano si era affrettato a richiamare anche gli altri, ma a lui non servivano indicazioni per capire che la questione era più che importante. Cercando il posto più comodo tra la folla, avvistò Nostros, il giustiziere con cui al momento usciva di pattuglia.

“Sei qui”, lo salutò quello.

“Sono appena arrivato. Il capitano è venuto a prendermi, avevo la giornata libera”.

“Mi hanno trovato per strada. Aspetto già da un’ora”.

“Sai di cosa si tratta?”.

Nostros scrollò le spalle. “Non hanno detto niente, ma sembra che stanotte ci siano stati problemi nel Quartiere degli Artigiani. L’ho sentito oggi quando ho preso servizio”.

C’erano sempre problemi, ma non era un motivo per convocare praticamente tutte le unità. Soprattutto perché la zona della città interessata non era di loro competenza.

“Che cos’è successo?”.

“Non so proprio immaginarmelo, sai come sono le voci di corridoio. Alcuni dicono che sia scoppiato un incendio, altri invece affermano che ci siano addirittura dei morti”.

Nelgor ruotò la testa. “Qualcuno incenerisce i barboni ammalati. Ieri ho intravisto alcuni focolai, non so cosa li ha sopraffatti”.

“È terribile. Ma non si tratta di questo”.

“In ogni caso non è un bene”.

“Concordo. Non mi piace più andare in certi quartieri. Ho anche un po’ paura”.

“Non temere, Nostros”. Nelgor gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. “I delinquenti non osano colpirti. Hai quello sguardo pericoloso, e anche il trinciante a portata di mano”. La lama era una dotazione standard dell’equipaggiamento, ma circa un giustiziere su venti aveva la possibilità di portare il tubo distruttivo. Nella pratica, lo estraevano di rado. L’annientamento del corpo era una cosa seria, rigidamente regolata dalla legge. Per farla breve, un giustiziere persino in quelle situazioni in cui la sua esistenza personale era messa in discussione doveva pensarci bene prima di utilizzarlo. Una cosa era disabilitare un kas, tutt’altra togliergli il diritto di recarsi un giorno nella Torre di Cristallo ed essere nuovamente risvegliato come una persona migliore. Un tempo la necessità di eliminare quasi non si presentava. Tuttavia, le cose erano probabilmente cambiate sul serio.

L’osservazione dell’amico non confortò Nostros…

“Neanche le armi bastano più a salvarci la pelle. Hai sentito di quello sfortunato del Terzo Avamposto?”.

“Quello che è dato per scomparso?”.

“Sì”.

“Per quanto mi riguarda, qui non dovrebbe essere successa una cosa del genere. Non capisco tutto questo nervosismo, probabilmente ha disertato”. Purtroppo, simili cose accadevano, e non facevano onore al servizio. Il suo interlocutore sorrise tristemente.

“I due che erano di pattuglia insieme a lui giurano che non poteva fuggire da nessuna parte, l’edificio non aveva uscite secondarie ma solo un unico ambiente. Il disgraziato è solo entrato per un controllo di routine. Quando la cosa è diventata sospetta sono andati a cercarlo ma dentro non c’era nessuno. Tutto ciò che hanno trovato erano le sue armi, l’uniforme e brandelli di vestiti. Per quanto ti ci sforzi, non c’è una spiegazione logica”.

“La paura ha grandi occhi, e anche i racconti possono assumere dimensioni prodigiose quando passano di bocca in bocca”.

“Non so, amico mio, da quando mi sono risvegliato, non ce ne sono mai state così tante. E se anche solo la metà è vera…”.

All’improvviso risuonò un gran chiasso, e Nelgor avvistò un kas sul balcone dell’edificio. Osservava tranquillo aspettando che tutti si accorgessero di lui e dopo qualche istante calò un silenzio completo. Il tempo delle chiacchiere facoltative era finito, tutti i giustizieri presenti rivolsero la propria attenzione a ciò che era proprio necessario che fosse condiviso con loro. Il Pugno sembrava quasi ieratico mentre reggeva con la mano un pesante mantello di piastrine metalliche, mentre un vento leggero giocava con le pieghe della sua uniforme marrone. Nella pace del cortile, la sua voce profonda riecheggiò forte e distinta.

“Colleghi giustizieri, dichiaro aperta la riunione straordinaria del Quinto Avamposto dell’Ordine di Tarnek”. Tacque qualche istante e, evidentemente soddisfatto di quanto vedeva, continuò.

“Nelle prime ore mattutine, il comandante superiore dell’Ordine, il Condottiero Tonas Minar, mi ha convocato insieme ai Pugni degli altri Avamposti nel Palazzo del Comando per condividere con noi delle notizie tutt’altro che buone. Oggi nel Quartiere degli Artigiani si è giunti a una seria infrazione della giustizia quando due pattuglie di giustizieri si sono scontrate con dei banditi numericamente superiori. I fuorilegge hanno manifestato un comportamento apertamente aggressivo, ed è con dolore che v’informo che nessuno dei nostri commilitoni è sopravvissuto”.

I presenti rimasero scioccati. Nelgor guardò Nostros in cerca di una conferma di quanto aveva realmente sentito, ma tutto ciò che ottenne fu uno sguardo febbrile. I giustizieri parlottavano sottovoce, sconvolti da quanto avevano sentito. La cosa superava anche le voci più ardite. Vi erano casi di ferimento durante il servizio, ma di conseguenze mortali si poteva leggere solo negli archivi. Un sestuplice omicidio era qualcosa che nella lunga storia della città non era mai stato registrato. Che cos’è successo, in nome del mondo?

Le Mura Di Tarnek

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