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Conclusioni

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I dibattiti che hanno animato in ambito storiografico gli ultimi decenni del secolo scorso hanno aperto la strada a un ripensamento di molti assunti che erano dati per acquisiti. Se la periodizzazione può essere vista per certi aspetti come una trappola fatale, essa al tempo stesso può tuttavia costituire un aiuto a pensare il passato che più che essere ciò che gli uomini hanno fatto o che è accaduto in un tempo precedente si configura come l’immagine creata da coloro che sono venuti più tardi rispetto a un determinato momento storico.67 Appare dunque evidente l’importanza di riflettere sul tema della periodizzazione affinché essa non si riduca all’innalzamento di confini granitici e invalicabili tra le fasi della storia ma che al contrario tenga conto degli elementi di continuità e differenziazione, che segua dunque il fluire delle trasformazioni nel corso del tempo. Tutto ciò tenendo comunque ben presente i limiti intrinseci a tale operazione e riconoscendone tuttavia al tempo stesso l’utilità per il lavoro storico, che forse risiede proprio nel poter mettere in discussione le scansioni temporali rigide e mostrare la porosità dei supposti netti confini. Una data simbolica, d’altro canto, potrebbe essere immaginata proprio come un indicatore che aiuta a far chiarezza, a fissare un punto attorno al quale si percepisce che qualcosa è mutato per tornare più volte a esplorare a fondo e da varie angolazioni i tratti di analogia e differenziazione tra due fasi della storia che per alcuni elementi vengono percepite come distinte. L’indagine può portare a scoprire che per molti aspetti gli eventi legati a una data, rilevante ad esempio per un fatto politico come la conquista franca del regnum Langobardorum o la morte dell’ultimo discendente di Carlo Magno per linea maschile, non comportino stravolgimenti in alcuni ambiti, mentre per altri la realtà che emerge dalle testimonianze scritte e materiali risulta chiaramente mutata. Si tratta dunque di tenere conto il più possibile di tutte le facce del poliedro che emerge dall’indagine per giungere a una comprensione dei fenomeni storici che in ogni caso è difficile immaginare come qualcosa di certo e immutabile poiché nuove sfumature potrebbero contribuire alla ridefinizione del quadro.

Si è potuto dunque osservare come l’indagine di un particolare strumento di relazione come il beneficium, derivato da elementi già presenti nella tradizione giuridica romana della tarda antichità, necessiti di una scansione cronologica parzialmente diversa da quella tradizionalmente proposta. Il beneficio si presenta, infatti, come uno strumento già presente in età longobarda in alcune aree del regno, come la Tuscia, conoscendo comunque una diffusione significativa dopo la conquista franca del 774, con attestazioni che emergono in particolare a partire dai primi decenni del secolo IX. Allo stesso modo il termine fissato per l’indagine all’anno 924 ha consentito di ampliare il campo di osservazione coinvolgendo anche una fase della storia d’Italia che tradizionalmente viene intesa come altra rispetto all’età carolingia. I decenni a cavallo del secolo X paiono, tuttavia, ancora strettamente connessi con quel mondo e sono dominati dalla figura di Berengario I, che a tutti gli effetti si presenta come appartenente alla dinastia carolingia per il tramite della madre. I casi presentati, dunque, hanno consentito l’osservazione di uno strumento creatore di relazioni che si muove spesso nella dimensione dell’oralità, ma non sono assenti nemmeno documenti in cui la concessione viene esplicitamente indicata come beneficium, presentando in alcuni casi un rapporto di sinonimia con la precaria e confermando quindi anche per alcune aree del regno italico le riflessioni di Brigitte Kasten relative alle regioni transalpine. Agli inizi del secolo IX si concentrano infatti in Sabina attestazioni di concessioni beneficiarie di beni monastici che in precedenza erano stati in parte o integralmente donati al cenobio farfense per essere poi richiesti dagli stessi donatori in beneficio, mutati dunque nel loro status e aumentati nel loro valore iniziale dal momento che la donazione al luogo sacro comportava per il donatore l’ingresso nella famiglia spirituale del monastero. Emergono tuttavia anche casi, come ha mostrato il diploma di Carlo Magno, in cui le assegnazioni beneficiarie vengono solo evocate con l’intento di marcare la differenza rispetto al nuovo modo di intendere determinati beni per i quali il sovrano disponeva un nuovo impiego, non più concessi per un tempo limitato ma alienati in via definitiva attraverso una donazione.

A tale riguardo, i contributi offerti dall’antropologia hanno fornito utili suggestioni per poter osservare dinamiche che sembrano adattarsi molto bene al paradosso di keeping-while-giving indagato da Annette Weiner. Il beneficio, infatti, si presenta come uno strumento molto duttile, particolarmente adatto all’assegnazione di beni che si vogliono mantenere inalienabili e che vengono dunque concessi per un tempo limitato per tornare poi nelle mani del detentore originario, che su di essi non ha alcuna intenzione di perdere il controllo. In ciò si distingue dalle donazioni vere e proprie che comportano il trasferimento dei diritti sui beni concessi e la loro alienazione definitiva. Tradizionalmente inteso come una forma di concessione strettamente legata al vassallaggio, esso tuttavia risulta un agile mezzo per creare reti di relazioni e rapporti di fedeltà con individui che spesso non hanno nulla a che vedere con la sfera militare; tra i beneficiari emergono infatti preti, semplici gestori di porzioni del patrimonio abbaziale come lo scario Crescenzio o ancora donne come l’ancilla Dei Helina. Uno strumento che tuttavia porta con sé degli elementi ambigui proprio per la sua natura duttile e adattabile a varie situazioni, nonché per la predilezione all’oralità, e tali aspetti emergono bene dai casi conflittuali legati all’assegnazione di porzioni del patrimonio monastico o dell’intero monastero in beneficio, come si è potuto osservare per il caso nonantolano, senza il consenso dell’abate e della comunità monastica. Il caso del marchese Radaldo ha mostrato in particolare come l’assenza di un atto scritto che comprovi l’assegnazione beneficiaria, unita all’impossibilità di presentare in sede giudiziaria testimoni che potessero sostenere le ragioni del beneficiario, comporti per quest’ultimo la perdita tanto della causa quanto del beneficio. Nell’analisi di uno strumento di relazione come il beneficium pare dunque necessario riflettere sulla base di periodizzazioni dettate dagli stessi contesti regionali in cui tale forma di concessione è osservabile, operando poi un confronto con altre aree e altre scansioni cronologiche. A tali aspetti si aggiunge, infine, la necessità di liberarsi al tempo stesso delle sovrastrutture legate alla questione del feudalesimo e dalle prospettive retroattive, per procedere senza i famosi occhiali da sole feudali nel tentativo di restituire un quadro un po’ meno fosco di quanto si è presentato finora agli studi.

Geschichte und Region/Storia e regione 29/2 (2020)

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