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II

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Alle sei sonate Luigi Miceni depose la penna e s’infilò il soprabito corto corto, alla moda. Gli parve che sul suo tavolino qualche cosa fosse fuori di posto. Fece combaciare i margini di un pacchetto di carte esattamente con le estremità del tavolo. Ci diede ancora una guardatina e trovò che l’ordine era perfetto. In ogni casella le carte erano disposte con regolarità che le faceva sembrare libretti legati; le penne accanto al calamaio erano poste tutte alla stessa altezza.

Alfonso, seduto al suo posto, da una mezz’ora non faceva nulla e lo guardava con ammirazione. A lui non riusciva di portar ordine nelle sue carte. Qua e là era visibile il tentativo di regolarle in alcuni pacchetti riuniti, ma le caselle erano in disordine; l’una era riempita di troppo e disordinatamente, l’altra invece vuota. Miceni gli aveva spiegato il sistema per dividere le carte secondo il loro contenuto o la destinazione e Alfonso lo aveva capito, ma, per inerzia, dopo il lavoro della giornata non sapeva adattarsi ad altra fatica non assolutamente necessaria.

Miceni già in atto di andare gli chiese:

– E ancora non sei stato invitato dal signor Maller?

Alfonso accennò di no; sfogatosi in quella lettera a sua madre, l’invito gli sarebbe stato una seccatura e null’altro.

Era Miceni la causa che Alfonso nella lettera alla madre aveva alluso alla superbia dei principali; gli aveva parlato spesso dell’invito mancato. Vigeva l’uso che ogni nuovo impiegato venisse presentato in casa Maller, e a Miceni doleva che Alfonso non ne avesse ricevuto l’invito, perché, con questa prima omissione, vedeva perdersi un’usanza cui egli sembrava tenerci.

Miceni era un giovine mingherlino con una testa straordinariamente piccola, fornita di capelli neri ricciuti che portava corti. Era vestito da persona che può permettersi qualche lusso, acconciato con accuratezza poi, come il suo tavolo.

Non solo nel vestire Alfonso differiva dal suo collega. Era pulito, però dal solino di bucato ma giallognolo, alla giubba grigia, tutto dinotava in lui il gusto poco raffinato e il desiderio di spenderli corti. Miceni, vanerello, gli rimproverava che l’unico suo lusso consistesse nei due occhi intensamente azzurri, l’effetto dei quali era scemato, sempre secondo Miceni, da una barba troppo abbondante di color castagno, tenuta senza cura. Alto e robusto, in piedi appariva troppo lungo, e tenendosi con tutto il corpo alquanto chino per innanzi quasi volesse assicurarsi dell’equilibrio, sembrava debole e incerto.

Entrò correndo Sanneo, il capo corrispondente. Era un uomo sulla trentina, alto e magro, i capelli di una biondezza sbiadita. Aveva ogni parte del lungo corpo in continuo movimento; dietro agli occhiali si movevano irrequieti gli occhi pallidi.

Chiese un libro d’indirizzi ad Alfonso, e, la parola non abbastanza pronta, con le mani cercava d’indicare la forma del libro, fremendo d’impazienza. Quando l’ebbe, già scartabellandolo nervosamente, guardò Miceni sorridendo con cortesia e lo pregò di rimanere perché doveva dargli ancora del lavoro. Miceni, pronto, si levò il soprabito, lo appese con cura, sedette e prese la penna in mano in attesa delle istruzioni.

Il signor Sanneo era antipatico ad Alfonso, perché brusco, ma era costretto ad ammirarlo. Di un’attività prodigiosa in un organismo debole, il signor Sanneo aveva una memoria ferrea, sapeva di ogni piccolo affare, per quanto remoto, le più minute particolarità. Sempre sveglio, maneggiava la penna con rapidità fulminea e non senza abilità. In certe giornate passava dieci ore di fila in ufficio, instancabile nel regolare e registrare. Per piccolezze, Alfonso lo sapeva dai copialettere che talvolta doveva leggere, sollevava polemiche accanite.

– Perché si sacrifica in tale modo? – si chiedeva Alfonso che non comprendeva la passione per quel lavoro.

Sanneo aveva un difetto che Alfonso apprese da Miceni. Era volubile, dava le sue preferenze a capriccio e sempre perseguitando i non preferiti. Sembrava davvero che in ufficio egli non potesse avere più di una simpatia alla volta. Allora prediligeva Miceni.

Il signor Maller aperse la porta e dopo d’essersi accertato che c’era Sanneo entrò nella stanza. Alfonso non ce lo aveva mai veduto. Era un uomo forte, grasso, ma alto di statura. Lo si sentiva respirare talvolta, non affannosamente però. La testa era quasi calva, la barba intiera aveva folta, non lunga, di un biondo tendente al rosso. Portava occhiali con filetti d’oro. La sua testa aveva l’aspetto volgare per il color rosso carico della pelle.

Non guardò i due impiegati che s’erano levati in piedi e non rispose al loro saluto. Consegnò un telegramma a Sanneo con un sorriso e gli disse:

– L’Ipotecaria? Siamo del sindacato!

Quel dispaccio dalla capitale, atteso da giorni, significava che veniva affidata anche alla casa Maller la sottoscrizione per la nuova Banca Ipotecaria.

Sanneo aveva compreso e impallidì. Quel dispaccio gli toglieva le ore di riposo sulle quali aveva contato. Con uno sforzo risoluto si dominò e stette a udire con attenzione le istruzioni che gli venivano impartite.

L’emissione si faceva due giorni appresso, ma la casa Maller doveva conoscere le firme dei sottoscrittori la sera della dimane. Il signor Maller indicò alcune case a cui gli premeva che l’offerta venisse indirizzata. Gli altri indirizzi dovevano essere dei medesimi clienti ai quali già s’erano fatte offerte consimili. Quella sera stessa bisognava spedire un centinaio di dispacci, preparati da giorni senza l’indirizzo e senza il numero delle azioni che dovevano variare secondo l’importanza della casa cui si dirigevano. Il lavoro però che aveva da allungare di tanto le ore di ufficio consisteva nelle lettere di conferma da scriversi e spedirsi subito.

– Ritornerò alle undici – concluse il signor Maller; – la prego di lasciare sul mio tavolo una lista delle case cui avrà telegrafato e l’indicazione della quantità di azioni offerte; firmerò allora le lettere.

Se ne andò con un saluto cortese ma non indicando con sufficiente chiarezza a chi lo rivolgesse.

Sanneo, che già aveva avuto il tempo di rassegnarsi, disse lieto ai due giovani:

– Spero che avremo finito per le dieci o anche prima, e che quando il signor Maller ritornerà, troverà le stanze vuote. Adesso, presto!

Ordinò a Miceni d’informare del nuovo lavoro gli altri addetti alla corrispondenza, e ad Alfonso, lo speditore, poi uscì correndo.

Miceni riaprì il calamaio chiuso, prese dalla casella un pacco di carta da lettera e lo buttò con violenza sul tavolo.

– Se me ne fossi andato diritto per i fatti miei, ce ne sarebbe voluto a pescarmi fuori, per farmi passare qui la notte.

Alfonso s’incamminò sbadigliando. Un piccolo corridoio angusto e oscuro univa la stanza al corridoio principale ai cui lati c’erano gli uffici, tutti ancora illuminati, dalle porte eguali, con le cornici nere e le lastre appannate. Quelle delle stanze del signor Maller e del signor Cellani, il procuratore, portavano i nomi in nero sopra una piastra dorata. Nella sua luce uguale, le pareti pitturate a imitazione di marmo, le lastre delle porte illuminate più fortemente, così, senza penombre, il corridoio deserto sembrava uno di quei quadri fatti a studio di prospettiva, complicati, ma solo di luce e di linee.

Una sola porta in fondo al corridoio era ad un battente e più piccola delle altre. Alfonso l’aprì e appoggiandosi allo stipite dalla soglia gridò:

– Il signor Sanneo avverte che per questa sera si rimane fino alle dieci.

– Comandi?

Tale domanda equivaleva ad una risposta. Alfonso entrò e si trovò faccia a faccia con un giovinotto tozzo, dai capelli crespi di color castagno, dalla fronte bassa ma regolare; erasi levato in piedi appoggiandosi in atto di sfida con i pugni chiusi sul lungo tavolo su cui scriveva.

Il signor Starringer aveva rinunziato a qualsiasi altro avanzamento per occupare il posto rimasto vacante di dirigente alla speditura, ottenendo in tale modo prontamente un emolumento maggiore di cui urgentemente abbisognava.

– Fino alle dieci? E a cena quando ci andrò? Ho lavorato tutto il giorno e ho diritto di andarmene. Io non resto!

– Ho da avvertire il signor Sanneo? – chiese timidamente Alfonso, sempre timido con persone che non lo erano.

– Sì… anzi lo avvertirò io stesso! – Il sì era risoluto, significava che voleva andarsene e nasca quello che sa nascere; il resto pronunziò a voce più bassa. Improvvisamente, dopo di aver capito che non poteva liberarsi da quella nuova seccatura, scoppiò in un’ira veemente. Disse ch’egli comprendeva essere colpa degli impiegati alla corrispondenza, che gli toccava quel terno; a suo tempo, gridava, quando era lui impiegato (alludeva a quell’epoca spesso), si lavorava di un lavoro battuto durante la giornata ma alla sera si andava a casa alle ore volute. Quel giorno aveva veduto chiacchierare Miceni sul corridoio, lavorare intorno ad una serratura Ballina. Perché perdevano in tale modo il loro tempo? Rosso in volto, ingrossate le vene della fronte, s’era avanzato verso Alfonso. Parlando degl’impiegati tendeva il braccio e con l’indice accennava esattamente alla corrispondenza. Alfonso gli spiegò che non si ritardava per il lavoro della corrispondenza, ma che all’ultima ora era stato commesso loro un nuovo lavoro. L’ira di Starringer non cessò ma non la sfogò più con parole. – Ah! così! – e si strinse sdegnosamente nelle spalle con movimento esagerato, volendo esprimere molto.

Sul tavolo giacevano le lettere scritte nella giornata, alcune già sigillate. Senza più curarsi di Alfonso, il signor Starringer ne prese una, si sedette e in un libro che aveva dinanzi ne copiò l’indirizzo con mano tremante.

Nel corridoio era venuto a sedersi il giovinetto Giacomo, entrato alla banca il giorno dopo di Alfonso. Aveva quattordici anni, ma la sua carne abbondante bianca e rosea da bambino e la statura bassotta gli davano l’aspetto di decenne appena. Quantunque lo vedesse tutto il giorno ridere e scherzare con gli altri fanti, Alfonso si ostinava a crederlo dispiacente d’essere lontano dal suo Magnago donde veniva, e gli voleva bene.

– Questa sera fino alle dieci – gli disse accarezzandogli il mento.

Il giovinetto gli sorrise lusingato.

Il signor Maller uscì dalla sua stanza. Aveva indossato il cappotto, e il cappuccio gli pendeva dalle spalle. Così vestito spiccava maggiormente l’altezza della sua figura e ne era attenuata la grossezza. Alfonso salutò e il signor Maller rispose col medesimo cenno a lui e a Giacomo. Faceva sempre dei saluti collettivi.

Il servo del signor Maller, Santo, seguì il principale lungo tutto il corridoio per aprirgli la porta d’uscita. Era un ometto non vecchio, con un barbone biondo e qua e là incolore, la testa precocemente calva. Faceva la bella gamba, a quanto se ne diceva, non avendo da fare altro che servire il signor Maller, mentre gli altri fanti erano addetti agli uffici.

Ritornato nella propria stanza, Alfonso trovò Miceni che già accanitamente scriveva. Costui alquanto corto di vista, per scrivere col naso quasi toccava la carta.

Sul tavolo di Alfonso c’erano i dispacci autografati, mancanti degl’indirizzi; una lettera di scrittura del signor Sanneo da copiarsi in conferma del dispaccio e infine un bollettino con cinque nomi, quelli delle case a cui era da indirizzarsi l’offerta.

– Cinque soltanto?

– Sì – rispose Miceni; – scrivono anche i contabili. Per le nove e mezzo circa avremo finito.

Non aveva alzato la testa; la sua penna aveva continuato a scorrere sulla carta.

Alfonso appose un indirizzo su un dispaccio, poi lo trascrisse su una carta da lettera. Si mise a leggere il dispaccio: conteneva l’indicazione succinta dello scopo a cui la Banca Ipotecaria veniva fondata, toccava con discrezione dell’appoggio promesso dal governo e accennava alla difficoltà di poter avere parte nel sindacato: «è dimostrazione di nostra preferenza che offriamovi…» e seguiva uno spazio in bianco che Alfonso riempì col numero delle azioni offerte. La lettera si estendeva a maggiori particolari. Parlava della necessità dell’istituzione di grandi banche in Italia, quindi della certezza che aveva la nuova banca di trovare lavoro proficuo.

Miceni gli disse di scrivere rapidamente la prima lettera perché doveva servire poi di copia agli altri scrivani, ma Alfonso non sapeva scrivere presto. Gli toccava rileggere più volte prima di saper trascrivere una frase. Fra una parola e l’altra lasciava correre il suo pensiero ad altre cose e si ritrovava con la penna in mano obbligato a cancellare qualche tratto che nella distrazione gli era venuto fatto disforme dall’originale. Anche quando gli riusciva di rivolgere tutta la sua attenzione al lavoro, non procedeva con la rapidità di Miceni perché non sapeva copiare macchinalmente. Essendo attento, correva sempre col pensiero al significato di quanto copiava e ciò lo arrestava. Per un quarto d’ora non si udì che lo stridere delle penne e di tempo in tempo il rumore fatto da Miceni voltando le pagine.

La porta si aprì con fracasso e sul limitare, ove rimase impalato per qualche istante, si presentò Ballina, l’impiegato che attendeva da Alfonso la lettera di Sanneo per farne altre copie.

– E questa lettera?

Era un bell’uomo dallo sguardo intelligente alquanto furbesco, un paio di mustacchi alla Vittorio Emanuele, la barba però non fatta. Fumava e il fumo non soffiato via, – lo avrebbe volontieri riassorbito per goderne di più, – riempiva i mustacchi e saliva coprendogli il volto fin sotto agli occhi. La sua giubba da lavoro doveva essere stata di color bianco, era giallognola ora, salvo che le maniche, adoperate per nettare le penne, all’avambraccio del tutto nere. Lavorava in una stanzetta che aveva l’entrata sul piccolo corridoio come quella di Miceni.

Miceni alzò il capo con un sorriso amichevole. Ballina veniva veduto sempre volentieri perché buffone, il buffone della banca. Quella sera non aveva voglia e si lamentava. Aveva lavorato fino allora nel suo ufficio di informazioni ed ora doveva lavorare dell’altro; per la sera poi non si sapeva se c’era da cena. Affettava maggiore miseria di quanta ne avesse. Fece una volta trasecolare Alfonso il quale, come Ballina stesso si esprimeva, era spugna, col raccontargli che alla fine del mese si nutriva di Emulsione Scott regalatagli da un medico suo parente. Aveva parenti benestanti che dovevano aiutarlo perché ne diceva sempre bene.

Entrò Sanneo come sempre correndo; lo seguiva Giacomo col volto da adolescente serio, un grande fascio di carte sulle braccia, al quale per eccesso di zelo teneva rivolto anche lo sguardo.

Con accento ruvido Sanneo chiese a Ballina perché ancora non scrivesse.

– Ma… – fece Ballina alzando le spalle – attendo di ricevere la lettera da copiarsi.

– Non l’ha ancora ricevuta? – Rammentandosi ch’era Alfonso che doveva dargliela: – Non ne ha fatta ancora neppur una?

Alfonso s’era alzato in piedi interdetto dallo sguardo bieco che gli veniva lanciato. Miceni rimanendo seduto osservò che neppur lui non ne aveva ancora finita alcuna. Sanneo voltò le spalle ad Alfonso, guardò la lettera di Miceni e lo pregò di consegnarla a Ballina non appena terminata. Uscì con la medesima fretta, preceduto da Ballina che voleva fargli vedere d’essere subito ritornato nella sua stanzetta, e seguito da Giacomo, impettito, che batteva i piedi per terra per dare importanza al suo piccolo passo.

Pochi minuti dopo Miceni consegnò a Ballina la lettera per la copia e Alfonso udì dalla stanza vicina le bestemmie che Ballina mandava con voce grossa d’ira al vedere che la lettera era di quattro facciate.

In un’oretta all’incirca Miceni terminò il suo lavoro. Con tutta calma rifece teletta, mise anche il cappello in testa con tanta cura come se non avesse avuto da levarlo più mai, prese seco le sue lettere e i dispacci che passando voleva deporre dal signor Sanneo, vi unì per compiacenza due lettere scritte da Alfonso e uscì canticchiando.

Nella quiete assoluta il lavoro procedette più rapidamente. Non trovandoci altro più forte interesse, Alfonso, per legare l’attenzione al lavoro, usava quand’era solo di declamare ad alta voce la lettera, e quella si prestava alla declamazione essendo rimbombante di paroloni e di cifre enormi. Leggendo ad alta voce la frase e ripetendola nel trascriverla, scriveva con meno fatica perché bastava il ricordo del suono nell’orecchio per dirigere la penna.

Si ritrovò con sorpresa di aver finito e andò immediatamente da Sanneo temendo già di aver fatto tardi. Costui trattenne i dispacci e gli ordinò di porre le lettere sul tavolo del signor Maller.

D’inverno il pavimento della stanza del signor Maller era coperto di tappeti grigi. Anche i mobili avevano un colore oscuro grigio, e i bracciali e le gambe, di legno nero. Dei tre beccucci a gas uno solo era acceso e semichiuso. Nell’oscurità la stanza diveniva più seria. Alfonso vi stava sempre a disagio. Depose le lettere su un altro pacco che c’era sul tavolo per la firma e uscì con cautela senza far rumore come se il principale fosse stato presente.

Avrebbe ora potuto andarsene, ma una grande stanchezza lo fece rimanere. Si propose di fare ordine sul suo tavolo ma rimase là inerte, seduto a sognare. Dacché era impiegato, il suo ricco organismo, che non aveva più lo sfogo della fatica di braccia e di gambe da campagnolo, e che non ne trovava sufficiente nel misero lavorio intellettuale dell’impiegato, si contentava facendo fabbricare dal cervello dei mondi intieri. Centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava. Non gli bastava fare di sé una persona sovranamente intelligente e ricca. Mutava il padre, non facendolo risuscitare, in un nobile e ricco che per amore aveva sposato la madre, la quale anche nel sogno lasciava quale era, tanto le voleva bene. Il padre aveva quasi del tutto dimenticato e ne approfittava per procurarsi per mezzo suo il sangue turchino di cui il suo sogno abbisognava. Con questo sangue nelle vene e con quelle ricchezze si imbatteva in Maller, in Sanneo, in Cellani; naturalmente le parti del tutto invertite. Non era più lui il timido, erano costoro! Ma egli li trattava con dolcezza, davvero nobilmente, non come essi trattavano lui.

Santo lo avvertì che il signor Maller chiedeva di lui. Sorpreso ed anche alquanto allarmato, Alfonso ritornò nella stanza ove era stato poco prima. Ora era completamente illuminata; la luce densa faceva brillare la testa nuda del principale e la sua barba rossa.

Era seduto e poggiato con ambedue le mani sul tavolo.

– Ho piacere di vedere ch’ella è ancora qui; ciò mi dà prova della sua diligenza, della quale del resto non avevo mai dubitato.

Alfonso, rammentando la sfuriata ricevuta poco prima da Sanneo, lo guardò temendo che parlasse ironicamente, ma la faccia rosea del principale era atteggiata a serietà; gli occhi azzurri guardavano il canto più lontano del tavolo.

– Grazie! – mormorò Alfonso.

– Mi obbligherà venendo da me domani a sera a prendere il tè.

– Grazie! – ripeté Alfonso.

Tutt’ad un tratto Maller, quasi avesse penato risolversi, parlò con meno noncuranza e guardandolo:

– Perché fa disperare sua madre scrivendole che è malcontento di me e io di lei? Non si sorprenda! Lo so da una lettera scritta da sua madre alla signorina. La buona signora si lagna di me, ma di lei anche e non poco. Legga per accertarsene!

Gli porse una carta che Alfonso riconobbe derivante dalla bottega del Creglingi. Vi gettò un’occhiata ed erano proprio i cari caratteri della madre. Arrossì; si vergognava di quella brutta scrittura e di quel brutto stile. C’era in lui qualche cosa di offeso per quella lettera resa pubblica.

– Ora ho mutato di opinione… – balbettò, – sono contento! Sa… la lontananza… la nostalgia…

– Capisco, capisco! ma via, siamo uomini! – e ripeté più volte questa frase. Poi di tutto cuore assicurò ad Alfonso che in ufficio gli si voleva bene e che cominciando da lui e dal signor Cellani, il procuratore, fino al capo corrispondente, il signor Sanneo, tutti desideravano di vederlo progredire rapidamente. Congedandolo ripeté: – Siamo uomini – e lo salutò con un cenno amichevole; Alfonso uscì tutto confuso.

Dovette confessare che il signor Maller aveva l’aspetto di persona buona, e, facilmente impressionabile, la sua posizione alla banca gli sembrò migliorata: alla fine qualcuno si curava di lui!

Era però pentito di non essersi contenuto con maggior franchezza e con maggior sincerità; perché aveva smentito quelle verità confessate alla madre? Avrebbe dovuto corrispondere alla bontà del principale con una franca esposizione dei suoi desideri e ne avrebbe forse avuto il vantaggio di vederne soddisfatto qualcuno, certo il vantaggio di aver incamminato col principale una relazione amichevole, perché non è offesa chiedere protezione. Si tranquillò proponendosi di essere più franco in altra occasione, la quale, dopo la prima, non poteva tardare a presentarsi.

Intanto, per non lasciar sussistere contraddizione fra quanto aveva detto al signor Maller e quanto aveva scritto alla madre, riscrisse a quest’ultima avvisandola che le viste alla banca si miglioravano per lui e che rinunziava per allora all’aria aperta, alle quercie, al riposo. Sarebbe ritornato in patria ricco o non vi sarebbe ritornato mai più.

Una vita

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