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VIII

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Alchieri agitato e smanioso, un fascio di carte in mano, correva verso la cassa quando vide Alfonso che col cappello in mano entrava da Sanneo ad annunziargli che ritornava all’ufficio. Diede un grido di gioia, volle fermare Alfonso che passò oltre senza accorgersi di lui, poi, immediatamente tranquillato sedette accanto a Giacomo, d’ispezione sul corridoio e tutto intento a compitare a mezza voce un giornale. Non trovando altri, fu a lui che Alchieri raccontò che da quindici giorni era la prima volta che egli si sedeva per riposare e non per scrivere.

Sanneo salutò Alfonso con cordialità e ritornando ad un enorme registro su cui gettava i suoi larghi caratteri gli chiese se stesse bene. Senz’attendere la risposta, a frasi interrotte dal lavoro che ad intervalli richiamava tutta la sua attenzione, gli parlò di alcune lettere che aveva lasciato in sospeso ma cui bisognava rispondere quanto prima possibile. Poi gliene consegnò alcune accompagnandole di spiegazioni che Alfonso non comprese che a mezzo. Sanneo si riferiva a cose avvenute prima della sua assenza, epoca che ad Alfonso sembrava lontana ben più di quindici giorni. Lo congedò con una buona nuova:

– Continuerà a farsi aiutare dal signor Alchieri che lavora benino… mi pare.

Alchieri lo fermò sul corridoio. Voleva abbracciarlo per ringraziarlo ch’era ritornato precisamente come aveva promesso:

– Non ne potevo più.

Poi anch’egli si mise a spiegargli degli affari e là, sul corridoio, gli consegnò tutte le lettere che egli aveva in mano per guardare dei saldi di conti o per avvisare delle tratte. Non vedeva l’ora di liberarsene.

Con quelle lettere in una mano, il cappello nell’altra, Alfonso andò a salutare Cellani.

Lo trovò che stava aprendo la posta. Con delle enormi forbici, con un solo taglio, apriva una parte della copertina, ne toglieva il contenuto che gettava da una parte e, prima di deporre la copertina, per prudenza, la guardava contro la luce. Anch’egli continuò a lavorare pur parlando con Alfonso, ma quando questi, sempre con la sua abituale timidezza, disse un grazie rammentando che il permesso lo doveva a lui, si alzò, e sul volto pallido un sorriso amichevole, andò a stringergli la mano. Sembrava che la sua figura lunga da sportsman in riposo, elegante ma debole, venisse portata più che muoversi da sola, tanto poca energia c’era nei suoi movimenti e tanto esattamente, senza esitazioni, passò per un piccolo spazio fra tavolo e sedia.

– Lei ha una cera bellissima – disse ad Alfonso guardandolo quasi con invidia nel volto toccato dal sole. Aveva fretta di ritornare al suo posto. Stringendogli ancora una volta la mano, gli disse ridendo: – Adesso… – e con la penna nella sinistra accennò di scrivere con grande rapidità.

Alfonso trovò che Alchieri aveva diminuito i suoi sospesi e sedendo al suo posto incuorato dalla gentile accoglienza di Cellani si propose di definirli e di non lasciare che altri se ne accumulassero. In soli quindici giorni, Alchieri, che usciva da una caserma, aveva introdotto nel lavoro un sistema preferibile di molto a quello di Alfonso e ad Alfonso fu facile, almeno per il primo tempo, di conservarlo. La maggiore tranquillità nel suo organismo rinforzato dall’aria aperta lo rendeva capace di un’attenzione maggiore per quanto sempre forzata.

Anche essendo in ufficio continuava la sua cura d’aria aperta come egli la chiamava. Faceva ogni mattina una passeggiata di più ore e solitamente verso l’altipiano perché gli occorreva la fatica della salita. Col suo passo misurato, l’aveva riconquistato, percorreva tutta la lunga strada d’Opicina spaziosa e comoda, la quale, lunghissima, con debole salita, in un solo giro, enorme semicerchio intorno alla città, lo portava sino all’altipiano. Alfonso riposava ove da questa via si staccava un viottolo verso Longera.

Di là vedeva il vasto altipiano muto e deserto con le sue innumerevoli piccole colline di sassi, di tutte le forme, appuntite, rotonde, appiattate, mucchi di sassi piovuti dall’alto e disposti dal caso che aveva fabbricato anche lo stesso monte Re all’orizzonte, con la sua larga schiena e la dolce salita da una parte, dall’altra la caduta perpendicolare quasi.

Alfonso non varcava mai quel punto e ciò non soltanto perché il tempo gli mancava. Di là vedeva anche la città con le sue case bianche, il mare abitualmente tanto calmo di mattina come se le poche ore di giorno non fossero ancora bastate a destarlo. Il verde dei promontori a sinistra della città ed il colore del mare contrastavano singolarmente con i sassi grigi dell’altipiano.

Scendeva in città quieto come in altri tempi non lo era stato che uscendo dalla biblioteca. Passava senza entrarvi accanto a Longera, un villaggio oblungo, già quasi a valle, il quale si stringeva al monte come se vi cercasse riparo, le sue casette ammonticchiate, quando facilmente avrebbe trovato aria e spazio invadendo i campi circostanti. Nelle strade del villaggio a quell’ora cominciava il formicolìo e da lontano si vedevano accennate tutte le esteriorità dell’attività e dei destini umani in quelle poche figure che si movevano per le stradicciuole del piccolo luogo. La rapida corsa di un giovinetto che Alfonso poté seguire da un lato all’altro del villaggio, l’uscita dalla sua casa di un contadino in cappello e che prima di muoversi, con tutta calma esaminava il cielo forse per sapere se dovesse prendere seco anche l’ombrello; in una stradicciuola più remota un uomo e una donna che cianciavano insieme forse già a quell’ora d’amore; in un cortile si batteva del grano e là c’era tanto movimento che da lontano poteva prendersi per allegria. Poi Alfonso passava per il ridente San Giovanni con le sue case sparse, la sua chiesuola bianca, di settimana vuota e abbandonata, di domenica tanto piena che tutti i devoti non ci capivano e le contadinelle vestite di lana nera marginata di larghe fascie di seta azzurra o rossa ingombravano il piccolo piazzale e facevano le loro devozioni all’aperto.

Il nuovo metodo di vita di Alfonso era dannoso ai suoi studi perché il primo risultato del suo spesso aggirarsi all’aria aperta fu il bisogno di quest’aria e l’incapacità di rimanere a lungo in quella rinserrata. Talvolta, uscito dall’ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz’ora; lo prendeva un’inquietezza invincibile che lo portava all’aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s’immaginava di sentire immediati i benefici effetti.

Poi se ne andava a casa e ancora a cena aveva talvolta il proposito di passare la notte su qualche libro, ma la stanchezza lo vinceva e dormiva le nove, dieci ore di sonno tranquillo, benefico tanto che non sapeva averne rimorso.

Eppure fu precisamente allora che la sua ambizione si concretò nel sogno di un successo. Aveva trovata la sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana con la traduzione di un buon lavoro tedesco e nello stesso tempo con un suo lavoro originale. La traduzione rimase puramente allo stato di proposito, ma fece qualche cosa del lavoro originale. Il titolo intanto: L’idea morale nel mondo moderno e la prefazione in cui dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era uno scopo teorico senza veruna intenzione di utilità pratica e questa gli sembrava già una novità per la filosofia italiana. Voleva, questo alla breve il contenuto del libro e fino ad allora Alfonso stesso non ne sapeva di più, voleva provare che l’idea morale nel mondo non ha altro fondamento che da un’imposizione necessaria per il vantaggio della collettività. L’idea non era molto originale ma il modo di svolgerla poteva divenirlo se esclusivamente inteso alla ricerca della verità senz’alcuna preoccupazione delle possibili conseguenze per la vita pratica: coraggio e sincerità non gli mancavano. Scrivendo aveva tutto quel coraggio che nella vita gli mancava e nei suoi studî fatti al solo scopo di imparare non poteva aver perduto la sincerità. Gli elementi che costituiscono il successo letterario non conosceva e poco curava. Voleva lavorare, lavorare bene e il successo sarebbe venuto da sé.

Lavorava bene ma lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. Così, in sogno, vedeva aumentati i pregi di quest’opera che perché non ancora fatta non poteva essere stata danneggiata dalle resistenze della penna. Dopo qualche mese, vedendo che il risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione ove prometteva di fare e di provare ma ove nulla era fatto o provato, venne preso da un grande scoramento. Quelle pagine rappresentavano il lavoro di mesi perché altro in quel frattempo egli non aveva fatto. Non una sola volta aveva stancato il suo cervello con lo studio e quelle pagine erano il solo progresso che egli avesse fatto verso la sua meta. Era tanto poco che equivaleva ad una rinunzia tacita ad ogni ambizione.

Pigliava anche più legittimamente l’aspetto di rinunzia per il fatto incontestabile che alla banca egli si trovava meglio e che odiava meno quel lavoro che da bel principio aveva scoperto in antagonismo a quello intellettuale cui voleva dedicarsi. L’aiuto e l’esempio di Alchieri avevano cooperato a renderglielo meno odioso ma anche, riteneva, la cessazione quasi intera dell’attività più intelligente.

Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all’avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d’impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.

Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un’ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull’autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.

Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.

– Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.

Uscirono insieme.

– Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d’osso.

Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.

– Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.

– Letteratura! – confessò Alfonso esitante.

Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch’era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.

– E che cosa legge? – chiese Macario che lo guardava con sorpresa.

Trovava che Alfonso, ad onta del viso bronzino, aveva l’aspetto meno rustico di mesi prima. Parlava più disinvolto e, di più, Macario era abbastanza intelligente per comprenderlo, dinotava una certa superiorità di negare ogni importanza a degli studî fatti con regolarità.

Sapendo quanto disprezzo si avesse da certuni per filosofi e filosofia, Alfonso si astenne dal nominare i suoi autori prediletti e parlò soltanto di qualche critico. Macario doveva però accorgersi che aveva a fare con persona che si prendeva il lusso di giudizi propri e fu sorpreso di trovarlo alquanto maligno. Alfonso aveva i grandi entusiasmi per gli autori che a Macario non nominò.

Dal canto suo Alfonso seppe ben presto come fosse fatta la coltura di Macario. S’accorse con soddisfazione che ne veniva stimato tanto da indurlo a sottostare a qualche mal celata fatica per portare il discorso su quanto meglio conosceva onde poter fare con lui buona figura. Parlò di naturalisti moderni. Alfonso aveva letto qualche loro romanzo, poi qualche recensione e se ne era fatta un’idea sua con la calma dello studioso disinteressato ch’era stato allora. Ammirava qualche parte, biasimava qualche altra. Macario era un adepto risoluto e il suo entusiasmo bastò ad Alfonso per vagliare la sua mente. Così mentre Macario lo guardava con certo sorriso derisorio significante «I miei pochi studi valgono i tuoi molti perché ho buon naso», l’aspetto di Alfonso serio, attento, da scolare che riceve una lezione, celava la soddisfazione di sentirsi superiore. Evitava una discussione da cui non poteva sperare di riuscire vincitore contro la facilità di parola di Macario. La parte d’indifferente era però impossibile con un parlatore simile e, quasi involontariamente, Alfonso diede dei segni di assenso che per tranquillare la propria coscienza destinava alle singole frasi di Macario, non a tutta la sua idea. Alcune erano tanto belle che Alfonso sospettò fossero rubate. Parlava di creazione fatta dall’uomo, la quale, per i risultati, non aveva niente da invidiare a quella biblica. Nel metodo differivano alquanto, ma ambedue le creazioni finivano coll’arrivare alla produzione di organismi che vivevano a sé e che non portavano alcuna traccia di essere stati creati.

Macario raccontò che veniva in biblioteca per leggere con calma Balzac che i naturalisti dicevano loro padre. Non lo era affatto o almeno Macario non lo riconosceva. Classificava Balzac quale un retore qualunque, degno di essere vissuto al principio di questo secolo.

Erano giunti in piazza delle Legna camminando tanto lentamente che ci avevano messo mezz’ora. Per via Macario aveva trovato il tempo di ammirare il bel visino di una sartina e far arrossire una signorina sgranandole in faccia due occhi ammirati. Alfonso invece non aveva saputo far altro che ascoltare.

– Dove abita? – chiese Macario appoggiandosi al suo braccio.

– Da quelle parti! – e accennò vagamente alla città vecchia.

– L’accompagnerò un pezzo.

Come si poteva non essere lusingati di tanta gentilezza e come si poteva mettersi in discussione per difendere Balzac dalla taccia di retore? In risposta alla gentile offerta, Alfonso risolutamente sacrificò Balzac.

– È retorico di spesso, certo!

Non entrarono in città vecchia ma ritornarono sul Corso.

– Sa che lei dovrebbe ora trovarsi divinamente in casa di mio zio? È divenuta tutt’altra casa; Annetta si dedica alla letteratura. Vuole che andiamo a trovarla? È ritornata dalla campagna da otto giorni e riceve quasi ogni sera degli amici; è sulla via di emanciparsi anche più di quanto lo fosse in passato.

– Davvero? – chiese Alfonso dimostrando sorpresa.

Cercava di trovare la risposta per rifiutare l’invito.

Macario fece come se Alfonso avesse già accettato. Seguito da lui attraversò il Corso e imboccò via Ponte Rosso. Alfonso era sempre ancora indeciso.

– La vedrà! È bellissima così. Passa mezza giornata a tavolino. Ecco almeno una vocazione che non inquieta nessuno; fra qualche mese non ne parlerà più. Credo le abbia turbata la mente la fama conquistata in Italia da altre donne. Queste donne! Una comincia e le altre seguono come le oche. L’esempio degli uomini non conta per esse. Imitano questa, imitano quella, e mai s’accorgono d’imitare, perché i loro cervellini ne sanno tanto di originalità da ritenerla equivalente ad esattezza, esattezza nella copia. L’originale fra loro è quella che per la prima imita gli uomini.

Alfonso rise.

– E la signorina Annetta?

– Della signorina Annetta quale scrittrice non so nulla, perché è tanto cauta che finché non avrà imitato qualche cosa con grande accuratezza non farà vedere nulla; quindi bisogna attendere dell’altro per dare un giudizio sicuro, perché si tratta di sapere chi avrà scelto per imitare. Già ella sa l’opinione che ho di Annetta. Qualità matematiche sviluppatissime… – e fece il suo gesto abituale per accentuare il sottinteso. – Adesso intanto andiamo a farle la corte.

Entrava nella via dei Forni; Alfonso lo fermò.

– Non vengo, non posso venire. Sono atteso a casa e poi in questo stato…

Aveva il viso infocato e parlava con troppo più calore di quanto abbisognasse per rifiutare l’invito di Macario.

– Io non ve lo costringerò di certo. Peccato però! Se qualcuno l’attende ella ha naturalmente ragione di rifiutare, ma se è per il vestito ha torto. Prima di tutto è pulito e poi ora che Annetta è letterata ama anzi i bohémiens. Venga dunque, via!

Ma Alfonso resistette! Aveva già compreso da quanto gli aveva detto Macario che Annetta lo avrebbe trattato con gentilezza, ma voleva farsi pregare. Non aveva potuto prendersi altra soddisfazione dell’offesa che gli era stata fatta e intendeva di esigere almeno quella.

– Ancora sempre si rammenta della freddezza di Annetta di mesi fa, – e quantunque Alfonso protestasse e asserisse che non se ne rammentava più, andandosene Macario lo sgridò amichevolmente trattandolo di fanciullo.

La sera appresso si trovarono di nuovo in biblioteca. Alfonso ci andò più volentieri. La conversazione con Macario lo divertiva e lo lusingava la sua compagnia.

Lo spirito di Macario la vinceva sempre sulla scienza di Alfonso e Macario era convinto di dare delle lezioni. S’ingannava. Alfonso se imparava da lui qualche cosa si era osservandolo quale oggetto di studio.

Aveva intanto compreso la qualità dello spirito di Macario. S’avvedeva degli errori suoi, non gli sfuggiva quando da lui un’idea veniva gonfiata per darle evidenza con maggior facilità, e, infine, se talvolta dimostrava ammirazione era perché ammirava la disinvoltura con la quale Macario negava o asseriva anche là dove menti superiori esitavano.

Macario cadeva spesso in contraddizioni, ma mai nel medesimo giorno. Era soggetto all’umore della giornata. Secondo quello si metteva in dati panni non suoi e ci viveva come se fossero stati suoi e non avesse avuto da smetterli mai più. Ciò gli era facile in grazia della sua cultura superficiale, abbastanza estesa per ricavarne i mezzi a creare un tipo da persona colta e stramba, non abbastanza profonda per dargli una ferma convinzione sua, tale da non potervi rinunziare neppure per ischerzo.

Quella seconda sera l’ebbe con la stampa. Diceva che scrivendo per la stampa si simulava sempre, non si era mai del tutto sinceri. In pubblico si diceva nuovo quello ch’era vecchio, meritevole di lode il biasimevole e così via. Fin qui era debole ma andava pigliando forza. A che serviva la scienza? All’infuori di coloro che si dedicano alle indagini originali in una data parte, gli altri hanno torto di curarsene troppo. Stancano il loro cervello e non ne hanno alcun vantaggio, perché chi ha compreso per bene una parte, ha il suo cervello altrettanto educato quanto colui che ne ha studiato più parti. La carta stampata danneggia quindi il cervello più che non lo avvantaggi. Quel quindi non era del tutto diretto, ma Alfonso non fece mostra di avvedersene e Macario si compiacque del proprio ragionamento.

– Bellissimo! – esclamò una sera Macario alla biblioteca, e pose dinanzi ad Alfonso un libriccino ch’egli aveva finito di leggere: Louis Lambert di Balzac.

Lo lesse anche Alfonso in due o tre giorni e la sua ammirazione non fu minore. Salvo una lettera di amore di una passione profonda e tanto sensuale da non esserlo più, egli non ammirò tanto i pregi artistici dell’opera, quanto l’originalità di tutto un sistema filosofico esposto alla breve ma intero, con tutte le sue parti indicate, e regalato dall’autore al suo protagonista con la splendidezza di gran signore.

Una vita

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