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IV

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Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito.

La casa del signor Maller era situata in via dei Forni, una via della città nuova, composta di case mancanti d’eleganza all’esterno, grigie, di cinque piani con a pianterreno dei magazzini spaziosi. Non era molto illuminata e, di sera, cessato il movimento dei carri asportanti merci, poco frequentata.

Era piovuto nella giornata e Alfonso, per non infangarsi, camminava rasentando le mura delle case. Trovata la casa, egli rimase alquanto sorpreso nell’atrio. Era illuminato che pareva giorno. Largo, diviso in due parti separate da una scalinata, aveva l’aspetto di un anfiteatro in miniatura. Era completamente deserto e, salendo la scalinata, non udendo che il suono e l’eco dei propri passi, Alfonso credette di essere l’eroe di qualche racconto di fate.

Prima persona che gli si presentò sulle scale fu un vecchio rubizzo dalla barba bianca ben conservata, che scendeva canticchiando. – Chi cerca? – gli chiese, e il tono di quella voce bastò per far capire ad Alfonso che ad onta del suo vestito nero in quella casa si riconosceva in lui alla prima occhiata l’uomo povero.

– Abita qui il signor Maller? – chiese timidamente.

Il volto del vecchio divenne anche più serio; non era possibile che una persona pulita non sapesse dove abitava il signor Maller; cominciava già ad annusare l’accattone.

Si trovavano all’ultima scala per arrivare al primo piano; dal pianerottolo Santo sporse il suo capo ispido come un cardo:

– È un impiegato – gridò; – venga, venga, signor Nitti.

– Oh! Santo! – esclamò Alfonso lieto d’imbattersi in volto conosciuto, e salì le scale in premura.

Il portiere si lisciò la barba:

– Ah! così? – e senza salutare continuò a scendere, dopo pochi passi rimettendosi a canticchiare.

Santo, appoggiato negligentemente alla balaustrata, attese Alfonso senza mutar positura e quando lo ebbe accanto gli disse:

– La introdurrò io – sempre ancora immobile; poi, riflettendo: – È stato invitato dal signor Maller? – domanda che fece credere ad Alfonso che ci fosse una stanza apposita destinata a ricevere gl’impiegati invitati dal signor Maller.

Improvvisamente Santo si mise a camminare celermente verso una porta a destra.

– Scusi un istante, – gridò, e, lasciandolo sulla soglia, entrò nel corridoio con passo frettoloso, aperse la prima porta e la sbatacchiò dietro di sé. Rimasto solo, Alfonso si trovò in una semioscurità nel corridoio tappezzato a colori smorti con due porte per parte ed una in fondo, piccole, colorate in nero lucido. Udiva alla destra lo scoppio della voce di Santo a cui rispondevano la voce e le risate di una donna; le parole non arrivava a comprendere, risonavano confuse come in un vuoto.

Santo uscì ridendo sgangheratamente; aveva la bocca piena. Attraverso all’uscio socchiuso Alfonso scorse una cucina ricca di vasellame di rame lucente, un focolare e accanto una donna grassa e bionda, illuminata dalla luce rossastra del fornello; con un cucchiaio in mano minacciava Santo. Santo continuò per un pezzo a ridere sotto i baffi. Si diresse verso la porta di fondo.

Giunsero in una stanza quadrata con mobili piccolissimi fatti per esseri che di certo mai erano esistiti. Piccola e morbida, pareva un nido. Era tappezzata con una stoffa azzurra che ad Alfonso parve raso e i tappeti erano tanto alti, soffici che si provava il desiderio di sdraiarvisi.

– È la stanzuccia di ricevimento della signorina Annetta, – disse Santo; – non si entra però mica da questa parte. Qui è l’ingresso per la servitù. L’ho condotta da questa parte per poter farle vedere subito qualche stanza; è la parte più bella della casa.

Lo guardò con un sorriso da protettore, attendendosi di venir ringraziato.

Sul tavolinetto c’erano delle chincaglierie chinesi. Sembrava che il gusto della signorina Annetta fosse orientale. Sulle tappezzerie, al chiarore della candela accesa da Santo, Alfonso vide dipinti su un fondo azzurro due piccoli chinesi; l’uno seduto su una corda fissata a due travi ma molle e pendente come se i chinesi non pesassero, l’altro in atto di arrampicarsi su per un’erta invisibile.

– Qui dorme la signorina – disse Santo giunto nell’altra stanza, e tenne in alto la candela per diffondere la luce.

Inquieto Alfonso chiese:

– È permesso di venire in questa stanza così, senz’altro?

– No! – rispose Santo con superbia – a tutti è proibito meno che a me.

Il suo volto era sfavillante dall’orgoglio per quelle cose belle. Faceva ammirare la tappezzeria vellutata; si diresse anche verso il letto e stava per aprire i panni leggeri, rosei, che ne formavano il padiglione, ma Alfonso glielo impedì.

– Oh! – fece Santo con un gesto che doveva significare disprezzo ai voleri dei padroni ma che stonava con le sue parole. – Giovanna mi disse che sono ancora tutti di là, in tinello.

Pure, scosso dalla paura di Alfonso, si diresse verso la porta di uscita. Ad onta della sua agitazione, quel letto commosse Alfonso e fino all’uscita vi tenne rivolto lo sguardo. Così chiuso era veramente virginale. Accanto ad esso v’era un inginocchiatoio in legno oscuro.

Si sorprese di trovare nell’altra stanza la biblioteca. Grandi armadi contenenti libri coprivano quasi per intero le pareti. La suppellettile ne era semplice: un grande tavolo coperto da un panno verde nel mezzo e d’intorno delle sedie comode e due ottomane.

Improvvisamente entrò il signor Maller.

Non avevano udito il rumore del suo passo. Chiese bruscamente a Santo che cosa facesse in quel luogo.

– Ho voluto far vedere al signor Nitti la biblioteca, – rispose Santo balbettando.

Aveva perduto la sua disinvoltura da padrone; stava rigido in posizione di attenti, tenendo la candela molto bassa. Palesemente mentendo aggiunse:

– Siamo entrati per di là – e accennò alla porta di mezzo.

Alfonso si avanzò:

– Venivo a disturbarla… – e s’interruppe credendo di avere già espresso tutto il suo pensiero.

– Il signor Nitti! – e il signor Maller con gesto signorilmente cortese gli porse la mano, – benvenuto! – Parlava affabilmente ma con poca vivacità. – Mi dispiace di non poter rimanere con lei come avrei desiderato; ho da vedere qui qualche cosa e poi debbo andarmene. Troverà la mia figliuola e la signorina che ella già conosce di là in tinello; a rivederla; – e già a mezzo volto verso il tavolo gli strinse la mano.

Santo rigido alla porta di mezzo chiese:

– Ho da lasciare qui il lume?

– No, accendi il gas!

S’era sdraiato sull’ottomana più vicina e aveva preso in mano un giornale.

Alfonso si trovò sul corridoio per il quale era entrato: aiutato da Santo si levò il soprabito. Mentre lo introduceva nel tinello costui trovò il tempo di esclamare:

– Che peccato di aver incontrato il signor Maller; valeva la pena di vedere la sua stanza da letto. Sarà per un’altra volta però, – e gli ammiccò in segno di protezione.

Il tinello era illuminato da una lumiera a gas di tre fiamme. Non v’era nessuno. Santo entrò con passo cauto, si guardò d’intorno comicamente sorpreso, corse al tavolo, alzò un lembo del tappeto che lo copriva, guardò al di sotto:

– Non c’è nessuno.

Vedendo che Alfonso, seccato da quel modo di riceverlo non sapeva sorridere al suo scherzo, si avviò per uscire:

– Le signorine devono essere salite al secondo piano, andrò ad avvertirle. Si accomodi intanto.

Alfonso rimase in piedi sapendo quanto valesse l’invito di Santo. Era intimidito dalle ricchezze vedute e non sognava più il contegno da persona spiritosa. Desiderava di esserne fuori, ed era poco piacevole il suo sentimento. In quella casa bisognava contenersi modestamente, da subalterno. Un occhio più esercitato avrebbe scorso in quell’addobbo qualche cosa di eccessivo, ma era la prima volta che Alfonso vedeva di tali ricchezze e si lasciava abbagliare.

Il tinello più che le stanze di Annetta portava le traccia d’essere abitato. Il pianino era aperto e sul leggìo v’era della musica; delle carte di musica giacevano anche su una sedia accanto all’istrumento. I mobili erano varii, alcune sedie di paglia, altre foderate. Si sentiva perfino un lieve odore di cibo.

Un grande numero di fotografie era disposto in forma di ventaglio aperto sulla parete al di sopra del pianino; i quadri, quattro o cinque, erano appesi troppo in alto, e ciò per lasciar posto agli alti schienali dei mobili.

Non s’intendeva affatto di pittura Alfonso, ma aveva letto qualche volume di critica artistica e sapeva cosa significasse, nell’idea, scuola moderna. Rimase colpito dinanzi a un quadro che non rappresentava altro che una lunga via appena segnata attraverso un terreno sassoso. Non v’era alcuna figura; sassi, sassi e sassi. Il colore era freddo e la via sembrava perdersi all’orizzonte. Una mancanza di vita sconsolante.

Perduto nella contemplazione, più meravigliato che ammirando, non sentì ch’era stata aperta la porta; poi, per imbarazzo, esitò alquanto a voltarsi quando s’accorse che qualcuno era entrato.

– Signor Nitti! – disse una voce dolce e dolcemente.

Rosso come se fosse stato fino allora con la testa ove aveva i piedi, Alfonso si voltò. Era la Signorina, come la chiamavano, l’amica di sua madre, non la signorina Maller; quella doveva essere più giovine. La signorina Francesca avrebbe dovuto avere circa trent’anni, quantunque Alfonso non avrebbe saputo dire perché gli sembrasse di dovergliene dare tanti. Aveva una carnagione pallida, e se non da persona sana, da persona giovane, occhi chiari, azzurri; il colore biondo oro dei suoi capelli dava una grande dolcezza a quella fisonomia non regolare. Di statura era piccola, troppo se la figurina non fosse stata perfettamente proporzionata e non avesse tolto così il desiderio di modificarla in qualunque modo si fosse.

Gli porse la mano bianca paffutella:

– Il figliuolo della signora Carolina? Dunque mio buon amico? Nevvero?

Alfonso s’inchinò.

– E al villaggio tutti bene?

Chiese di dieci persone, suoi buoni amici, dei quali da anni non sentiva parlare; li nominava indicandone alcuno col nomignolo, tutti caratterizzando con la citazione di qualche loro qualità speciale. Poi chiese dei luoghi; li nominava con parole di rimpianto citando le belle ore che ci aveva passate. Chiese di una collina posta ad un’estremità del villaggio e stette a udire ansiosamente la risposta come se avesse temuto di dover apprendere che nel frattempo fosse crollata.

Ad Alfonso la signorina Francesca parve subito adorabile. Nessuno gli aveva fino ad allora ravvivato in quel modo il ricordo della patria; i ricordi lontani e poco vivaci della signora Lanucci non ravvivavano niente. Egli viveva solo, sognando dolorosamente il suo paese, e, a forza di pensarci, trasformandolo. La signorina parlandone rettificava il suo ricordo e gli sembrava gliene desse una novella impressione. Era commossa anch’essa da quei ricordi.

Come Alfonso poscia apprese, era stato quello l’anno più felice della sua vita. Era stata ammalata e, in seguito a prescrizione medica, la povera famigliuola cui apparteneva con grandi sacrifizi l’aveva mandata in campagna. Lì aveva goduto un anno di assoluta libertà.

Gli prese di mano il cappello e lo fece sedere.

– La signorina Annetta verrà subito. Ella attende da molto tempo?

– Da mezz’ora! – disse Alfonso con sincerità.

– Chi l’ha introdotta? – chiese la signorina corrugando le sopracciglia.

– Il signor Santo.

Dava a Santo del signore in omaggio alla persona cui parlava.

Entrò la signorina Annetta e Alfonso si levò in piedi confuso; l’aveva molto agitato la lunga preparazione.

Era una bella ragazza, quantunque, come egli disse a Miceni, il suo volto largo e roseo non gli piacesse. Di statura alta, con un vestito chiaro che dava maggior rilievo alle sue forme pronunciate, non poteva piacere ad un sentimentale. In tanta perfezione di forme Alfonso trovava che l’occhio non era nero abbastanza e che i capelli non erano ricci. Non sapeva dire il perché, ma avrebbe voluto che lo fossero.

Francesca presentò Alfonso. Annetta s’inchinò leggermente mentre stava per sedersi. Era palese che non aveva neppure l’intenzione di dirigergli la parola. Si mise a leggere un giornale che aveva portato seco. Ad Alfonso sembrò ch’ella non leggesse e che i suoi occhi fissassero sempre il medesimo punto sul foglio. Si lusingò ancora ch’ella fosse imbarazzata quanto lui e che volesse cavarsela facendo mostra di leggere. Ella però aveva il volto tranquillamente sorridente.

Meno disinvolta, Francesca volle riprendere il discorso interrotto.

– E abitano sempre ancora quella casa lontana tanto dal villaggio?

Alfonso ebbe appena il tempo di affermarlo. Lasciandosi andare a un risolino di compiacenza che fino ad allora con fatica aveva rattenuto, Annetta disse a Francesca:

– Ero da papà. Si parte doman l’altro; ha acconsentito e promesso.

Francesca parve sorpresa aggradevolmente. La voce di Annetta meravigliò Alfonso; se l’era aspettata meno dolce in un organismo tanto forte.

Le due donne parlavano a bassa voce. Alfonso comprese che Annetta doveva aver strappato con qualche astuzia un consenso al signor Maller. Ignorato del tutto, egli si trovò imbarazzato. Guardò un quadro alla sua destra: il ritratto di un vecchio dai tratti grossolani, gli occhi piccini, la testa calva.

Parve che Francesca indovinasse il suo malessere e volesse riparare alla scortesia di Annetta ch’era stata la prima a parlare a mezza voce. Gli raccontò che avevano progettato un viaggio per Parigi e che, dopo aver resistito per lungo tempo, il signor Maller finalmente acconsentiva di accompagnarle e di lasciare per otto o dieci giorni le sue occupazioni, in piena stagione di lavoro. Si volse di nuovo ad Annetta.

– Ha detto espressamente che io vi accompagnerò?

Anche da lei quel viaggio doveva essere stato molto desiderato.

– Ma certo, – rispose Annetta con un sorriso che Alfonso fu costretto a trovare buono.

Per un intervallo di tempo che a lui parve di un’ora almeno, dovette assistere passivamente al chiacchierio delle due donne, ora fingendo di prestarvi attenzione ed ora volgendo modestamente gli occhi altrove, cioè quando Annetta abbassava la voce e avvicinava la bocca all’orecchio di Francesca. Si sentì sollevato allorché Santo entrò e annunziò l’avvocato Macario.

– Che entri, che entri! – gridò Annetta con gioia, – ci farà ridere.

L’avvocato Macario, un bell’uomo di quarant’anni forse, vestito con grande accuratezza, alto e forte, una fisonomia bruna piena di vita, salutò Annetta imitando Ferravilla: – Oggi più bella del solito… ahi! – Strinse la mano a Francesca la quale subito gli presentò Alfonso; poi, invece di nominare l’avvocato: – I più bei mustacchi della città.

– Se sapesse la fatica che mi costa di conservarli in tale stato; glielo racconto io, altrimenti anche questo le racconterebbe la signorina.

Alfonso atteggiò il volto ad un sorriso; stava peggio di prima. La disinvoltura di Macario non gli toglieva l’imbarazzo e glielo faceva sentire meglio.

Annetta aveva deposto il giornale. Si appoggiava indolentemente con ambedue le braccia al tavolo:

– C’è una novità, caro cugino! ti sorprenderà!

Aveva l’aspetto di deriderlo.

Macario finse dispiacere:

– La so già. Infatti non l’avrei mai creduto. Lo zio abbandona la città in piena stagione di affari! Queste mura sono poi solide che dalla sorpresa non cadano? L’ho incontrato sulle scale e mi ha raccontato la novità, però con tutt’altra faccia di quella che hai tu adesso!

Gestiva parlando; aveva degl’indugi durante i quali metteva le mani all’altezza delle orecchie, quasi accennando con le dita tese a dei sottintesi che Alfonso non comprendeva.

– Capisco che non ne sia lieto, – disse Annetta. – Quando però qui si vuole, – e si toccò coll’indice la fronte, – basta.

Macario asserì che d’inverno Parigi era più noioso che d’estate. Pareva prendesse una piccola rivincita per una disfatta toccatagli; si capiva ch’egli aveva cercato d’impedire questo viaggio.

– D’inverno hanno sempre qualche cosa per il capo che ne fa gente intrattabile. Ogni giorno Parigi si occupa di un solo argomento che preoccupa tutti, ma tutti. Un giorno della caduta di un ministero, l’altro del discorso di un deputato, il terzo di un omicidio. Sempre noiosi! – concluse.

Annetta, che in questa descrizione riconosceva il Parigi dei romanzi, esclamò:

– Sempre simpatici!

Aveva cercato invano quel Parigi in un suo viaggio precedente.

– Affari di gusti. Si va da un amico, non ti parla che della revolverata toccata a Gambetta; si tratta con qualcuno d’affari ed il vostro cliente è preoccupato dalle revolverate e da Gambetta; si va dal calzolaio e anche lui non vi parla che di Gambetta e qui meno male.

Alfonso rise forte dello scherzo perché non trovava di mettere una parola nel discorso e credette doveroso di dar prova che vi partecipava.

– A teatro si sta bene, d’inverno, a Parigi; una bella première vale il viaggio.

Non traspariva più l’intenzione di sminuire il trionfo di Annetta e parlava più serio, rivolto ad Alfonso, forse per ringraziarlo della risata.

– Assisteremo alla première dell’Odette – gridò con gioia Francesca.

La dimane avrebbero telegrafato per farsi prenotare ai posti.

Macario si rivolse ad Alfonso chiedendogli se era impiegato da suo zio e da quanto tempo lo fosse. Avutone risposta, gli raccontò che sulle scale lo zio l’aveva prevenuto che troverebbe presso Annetta un suo impiegato, corrispondente in parecchie lingue. Alfonso rispose a monosillabi. Alla comunicazione delle lodi di Maller s’inchinò sorpreso e le attribuì a un malinteso. Eppure Maller doveva aver parlato proprio di lui. Macario sapeva ch’egli veniva dal villaggio e gli chiese se soffrisse di nostalgia.

– Alquanto, – rispose Alfonso.

Volle completare la parola secca con l’espressione del volto e vi riuscì.

– Passerà, vedrà! – gli disse Macario; – ci si abitua a tutto a questo mondo; di abitare in una città poi, venendo da un villaggio, molto facilmente, credo.

Annetta si divertiva poco a quel discorso e senza riguardo lo interruppe. Al suono della sua voce, Alfonso alzò il capo credendo che anch’essa volesse fargli qualche domanda e subito disilluso cercò di mascherare il motivo del suo movimento con l’aspetto di un’attenzione intensa.

– Sai che ho imparato delle canzoni che sono popolari a Parigi per fare da Gavroche per le strade, con Federico!

Federico era il fratello di Annetta. Miceni che lo conosceva lo aveva descritto ad Alfonso quale una persona molto altera. Faceva la carriera consolare ed era viceconsole in un porto francese.

– Si potrebbe udire una di queste canzonette? – chiese Macario.

– Perché no? – e si alzò. – Vuoi accompagnarmi? Via, su! Macario è tanto noioso questa sera ch’è il miglior mezzo di passare il tempo, credo.

– Questo toccherà di giudicare a noi – rispose impertinente Macario. – Non le pare?

Alfonso sorrise con sforzo. La tensione continua per apparire disinvolto lo stancava. Se avesse trovato il modo acconcio se ne sarebbe andato subito.

Francesca, seduta al piano, aveva preso sulle ginocchia un fascio di musica e diceva ad Annetta dei titoli di pezzi. Annetta rifiutava con un gesto del capo. Si teneva sulla guancia una mano in atto di riflessione. Finalmente con uno scoppio di risa gridò:

– Quello! Quello!

Dopo alcuni accordi d’introduzione, la signorina passò ad un accompagnamento rudimentale ma vivace.

Con la sua voce dolce, soda, Annetta si mise a cantare e a grande sorpresa di Alfonso principiò a saltellare sul posto, in tempo, fingendo di correre. Francesca rideva sgangheratamente, rideva Macario e non seppe trattenersi neppure la cantatrice stessa con grave danno della canzone che ne risultava qua e là mozza. Riacquistò ben presto la serietà e anche Macario divenne molto serio; in quanto ad Alfonso non aveva riso che per fare come gli altri.

Cantando, Annetta fingeva di essere stanca, incrociava le braccia sul petto per correre meglio, evitava un ostacolo che abilmente faceva supporre, chiedeva scusa ad una persona che correndo aveva urtata.

Alfonso sapeva il francese ma non avendoci abituato l’orecchio difficilmente comprendeva. Macario, guardando sempre Annetta con lo sguardo fiso e parlando a frasi staccate per disturbare meno il canto, gli disse:

– È canzone cantata da un uomo… un uomo che corre dietro ad un omnibus. – S’interruppe e con ammirazione mormorò: – Fatta divinamente!

Annetta era ora realmente stanca: correva sempre, ma saltando meno. Si teneva una mano al petto e la voce veniva rotta dall’affanno.

– Non ne posso più, – disse, e si fermò.

Francesca, ridendo, innestò all’accompagnamento il canto, ma dopo pochi istanti, rimanendo ferma, Annetta ricominciò a cantare. La sua voce risuonava fresca e dolce. Cantava meno vivacemente e si soffermava su qualche nota prolungandola con sentimento così che ad Alfonso che non aveva capito il testo, la canzone terminò col sembrare triste.

Quelle note dolci gli rivelarono la ragione del suo malessere. Il desiderio ch’esse gli diedero di udire una parola amichevole da quella magnifica creatura che aveva una voce così bella, lo fecero accorto che ancora non ne aveva ricevuto alcuna. Era stato accolto bruscamente, quando aveva principiato a parlare era stato interrotto senz’alcun riguardo, non gli era mai stata rivolta la parola. Perché? Ella non lo aveva mai veduto prima di allora. Doveva essere semplicemente il disprezzo per l’inferiore, per la persona vestita male, perché ora egli sapeva quanto male egli fosse vestito; il confronto con Macario ne l’aveva reso avvertito.

Quando Annetta terminò, Macario batté con entusiasmo le mani e Alfonso si unì all’applauso nel modo medesimo. Eccedeva e poco dopo, ripensandoci, se ne accorse, ma non voleva lasciar capire ch’era offeso. Soffriva molto di dover simulare e capiva di aver perduto definitivamente tutto quel poco di disinvoltura che aveva portato seco. Macario nell’entusiasmo tenne lungamente nelle sue la mano che Annetta gli lasciava.

– La signorina parla magnificamente il francese! – fece quasi in tono di domanda Alfonso.

Nessuno si curò di rispondergli ed egli tacque riconoscendosi sciocco e noioso.

Aiutata dalla cameriera, Annetta servì il tè. Con Macario ella insistette che prendesse anche qualche cosa d’altro; incaricò la cameriera di porgere una tazza ad Alfonso gli occhi del quale brillarono dall’ira. Cominciava a sentire il dovere di reagire; quello che più di tutto lo preoccupava era il timore che Macario lo disprezzasse vedendolo subire tanto umilmente tali impertinenze. Avrebbe dato del suo sangue per trovare una parola acconcia, pungente.

– Non prendo mai tè – disse con accento cortese, quasi domandando scusa, irritato di non trovare altra frase e di non saperle dare altra intonazione.

– Vuole del cognac? – domandò Annetta senza guardarlo.

– No! – e non volle dire di più, ma un inchino involontario rese cortese anche questo monosillabo.

Macario gli diresse più di spesso la parola e Alfonso pensò ch’era stato colpito dallo strano contegno d’Annetta e che volesse indennizzarlo con le sue attenzioni. A Macario Alfonso rispose con maggiore tranquillità ma anche a monosillabi.

– Suona qualche strumento?

– No!

Macario gliene fece i complimenti; nulla di più terribile di uno strimpellatore dilettante.

– Cantare, meno male, come mia cugina. Non capisce tutto quello che canta, ma ha la voce aggradevole e piace. Piace persino a me; il mio entusiasmo di poco fa era sincero.

Annetta ringraziò con ironia, si capiva però ch’era offesa del rimprovero più di quanto volesse lasciare trasparire e lo capì anche Alfonso che ne ebbe un senso di profonda soddisfazione; anch’essa andava ora cercando senza trovarla una risposta per ferire o per difendersi.

Per qualche tempo ella aveva parlato scherzosamente, ma poiché Macario continuava a farle dei complimenti sulla sua bellezza e sulla sua grazia ma non recedeva da quanto aveva detto, ella aveva finito col dimostrare più apertamente la sua stizza. Col volto serio e persino alquanto più pallido gridò:

– Dimmi qualche cosa di più preciso; dove ho sbagliato? Per criticare – e voleva essere pungente, – non basta mica deridere.

Macario si mise a ridere così di gusto che Alfonso lo invidiò.

– Ci tieni tanto alla tua fama di artista? Perdonami l’osservazione, la ritiro!

Alfonso si alzò per primo. Francesca si levò in piedi anch’essa e lo incaricò di salutare la signora Carolina. Annetta rimase seduta a discutere col cugino. Costui però si alzò deciso anche lui di andarsene e gridò ad Alfonso:

– Se mi attende vengo con lei.

Lusingato, Alfonso attese.

Macario, sempre molto allegro, stringendole la mano, disse ad Annetta:

– Un’altra volta, mia cara cugina, non dubitarne, preciserò le mie critiche!

In tono scherzoso ma superbamente, Annetta rispose:

– Non me ne importa; se c’è da correggersi, troverò il modo di correggermi da sola.

Ella porse la mano anche ad Alfonso; le due mani si toccarono ambedue inerti e ricaddero. Vedendola impallidire, Alfonso fu spaventato, ma dopo si sentì soddisfatto di aver trovato il modo di dimostrare anche lui la sua indifferenza.

Sulla via i due uomini si fermarono.

– Ella va per di là? – chiese Macario accennando verso il mare.

– No, – rispose Alfonso, – veramente verso il Corso.

– Mi faccia il piacere di accompagnarmi per un pezzetto.

Si abbottonava lentamente la pelliccia mentre Alfonso con un brivido cacciava le mani nelle tasche del suo cappottuccio. Senz’attendere risposta al suo invito, Macario si diresse lentamente verso la riva.

– Ella vede mia cugina per la prima volta? – e udita la risposta affermativa di Alfonso: – e per l’ultima, eh? – chiese con un risolino che nell’oscurità suppliva perfettamente al suo gesto abituale.

Alfonso credette di dar prova di grande coraggio rispondendo con franchezza:

– Sì! Lo spero!

– Ma non vale la pena di adirarsi per capricci di donne; mia cugina è una sciocca.

– Non mi pare! – rispose Alfonso con voce commossa.

Era chiaro che a Macario importava di diminuire in Alfonso la cattiva impressione prodotta in lui dal contegno di Annetta.

– Sa perché è stato trattato con tanta freddezza? Un impiegato di mio zio, non appena presentato, s’è messo a fare la corte ad Annetta. Pare che si sia anche vantato di venire corrisposto, così che mio zio lo riseppe e si divertì per qualche tempo a deridere la figliuola. Non era uno sciocco quell’impiegato, un moretto dai capelli corti e crespi. Annetta non ne volle più sapere d’impiegati, perché ella procede sempre per massime generali.

Erano giunti alla riva. Dal mare agitato giungeva il romore delle onde che si frangevano sulla diga. Nell’oscurità della notte senza luna, al di là dei bastimenti schierati alla riva, il mare sembrava un vuoto enorme, nero. Soltanto il raggio mobile del faro si rifletteva sull’acqua e ne svelava la superficie.

Macario trascinò seco Alfonso a destra, verso la stazione.

– Avrei preferito di non venir invitato. Del resto sia certo che non mi lagnerò con nessuno.

Gli era venuto il sospetto che Macario volesse questa promessa.

Macario si mise a ridere:

– Oh! in quanto a me, può raccontarlo a tutti. Crede davvero ch’io ami tanto i miei cari parenti? Non ha visto con quanto piacere feci adirare la cuginetta? Che vanerella, eh!

Poi evidentemente non pensava più al contegno di Annetta con Alfonso. Parlava per proprio conto e alquanto agitato.

– Come poteva io lodarla dopo averla udita poco prima filare le note di quella canzone da Gavroche come se fossero state di una romanza di Tosti! Di qui a qualche tempo, potrò mentire perché allora non rammenterò più quelle note e soltanto la magnifica figura agitata dalla stanchezza. Non trova che di solito la faccia di mia cugina non è abbastanza vivace? Ecco! Come Napoleone aveva il pieno possesso delle sue facoltà mentali soltanto sul campo di battaglia, così mia cugina non è bella perfettamente che quand’è agitata! Ma è difficile agitarla.

Alla luce di un fanale Alfonso vide che mancava il gesto abituale.

Con la sua semplicità da contadino gli chiese se realmente non volesse bene a sua cugina.

– In quanto ad amarla… – si fermò volendo far mostra d’essere pentito dello scherzo e con voce profonda e seria continuò: – Amo le ragazze che sono fatte altrimenti. Mia cugina non è una ragazza, è una donna e anzi di più… – e fece un breve risolino; – una cara donna però, bella, dotta troppo, tanto che spesso appare di non essere educata. Conosce matematica, conosce filosofia, legge con predilezione libri seri, e di questo non sarebbe troppo da meravigliarsi, ma li comprende, parola di onore, li comprende! Con la sua solita scrupolosa esattezza saprebbe ridirne il contenuto. Però artista non sarà giammai… forse in qualche istante di forte ebollizione del sangue… – e con le mani fece dei gesti vivaci tanto che avrebbero fatto supporre ch’egli volesse parlare di rivoluzione. – È figliuola di suo padre, non di sua madre ch’era un’ignorante, dal cervello debole, ma graziosa, sempre simpatica anche quando diceva sciocchezze. Annetta ha la memoria ferrea, le qualità matematiche pronunziatissime, lo spirito pronto per cose concrete, solide, come suo padre. Non capiscono caratteri, non sentono musica, non distinguono il quadro originale dalla mala copia. Ora Annetta si dedica alle chineserie, fu la prima ad introdurle in città, ma ne sa quanto i suoi autori gliene dissero e non ne capisce nulla affatto perché non le sente. L’unico quadro buono che abbiano in casa l’ho comperato io, una via attraverso i sassi.

– L’ho visto, magnifico! – esclamò Alfonso e per darsi aria d’importanza chiese: – Di chi è?

– Il nome dell’autore non rammento, rammento il quadro – rispose Macario – io sono figliuolo di mia zia.

Alfonso rise, ma Macario non rideva. Anche quando le sue osservazioni apparivano scherzose, erano dette con l’espressione di un profondo rancore e Alfonso non sapeva convincersi che fosse naturale di parlare così a lui, a uno straniero. Andava ricercando quando Macario avesse potuto ubbriacarsi dopo di essersi contenuto tanto abilmente in casa Maller.

Venne di peggio:

– Certo che un uomo che avesse del sale in zucca non sposerebbe Annetta. Conosce le novelle di Franco Sacchetti? Merita di leggerle, se non tutte, una, indimenticabile: Un frate viene ospitato in una casa ove vede il suo ospite troppo debole, maltrattato dalla moglie. Il frate, nell’ira fa il voto, per poterla castigare, di sposare quella donna se le circostanze glielo permetteranno. Infatti capita il malore, muore il marito e muoiono tutti gli altri frati del convento che viene sciolto. Il frate compie il suo voto, sposa la donna e come propostosi la bastona di santa ragione. Per Annetta verrebbe voglia di fare dei voti simili, solo allo scopo di annientare quella superbia che secca, che offende. Si avrebbe torto, perché all’esecuzione si finirebbe coll’essere il bastonato.

Era possibile che Macario si fosse proposto di dire delle verità in tono che le facesse apparire dette per ischerzo e che senza proposito avesse abbandonato tale tono. Così pensò Alfonso vedendo che Macario, forse pentito, cominciava a spiegare le ragioni che lo avevano reso tanto loquace.

– Non creda che io usi fare di queste confidenze al primo venuto. Ella mi è simpatico; mi creda o non mi creda, è così.

Alfonso, confuso, mormorò un ringraziamento.

– Mi piacque ch’ella abbia avuto tanto forte il desiderio di vendicarsi di Annetta e mi piacque anche che non l’abbia saputo soddisfare. Oh! io osservo, è inutile negare con me! Non sono mica le persone più sciocche quelle che non hanno prontissima la parola più o meno offensiva per reagire. Anzi! – Credendosi giustificato aggiunse un’altra osservazione cruda, ridendo però:

– Quando m’imbatto in queste donne tanto attive e tanto aggressive, tanto inquietanti insomma, mi vien fatto di pensare a quell’inglese che ad una troppo focosa rammentava che pagava per baciare e non per venir baciato!

Sulla piazza della Stazione strinse la mano ad Alfonso e, con un saluto a mezza voce, lo lasciò e si diresse verso il caffè. Alfonso che aveva freddo, si avviò verso casa correndo.

Una vita

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