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XXII

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A Montecalvo, proprietà del principe Nicola Bolconski, aspettavasi di giorno in giorno l’arrivo del giovane principe Andrea con la principessa; ma l’aspettazione non turbava in nulla l’ordine rigoroso della vita quotidiana. Il generale, principe Nicola, soprannominato il re di Prussia, da che, sotto l’imperatore Paolo, era stato relegato nei suoi poderi, viveva ritirato con la figlia Maria e con la costei dama di compagnia madamigella Bourienne. Salito al trono il novello imperatore, gli fu concesso il ritorno alla capitale; ma egli seguitò a vivere in campagna da anacoreta, dicendo che se qualcuno avea bisogno di lui non dovea percorrere che cento cinquanta verste da Mosca a Montecalvo e che quanto a sè, di nessuno e di niente avea bisogno. Due sole erano, secondo lui, le sorgenti dei vizi: l’ozio e la superstizione; due sole le virtù: l’operosità e l’ingegno. Si occupava personalmente della educazione della figlia, e per sviluppare in lei le due virtù cardinali, fino ai venti anni le avea dato lezioni di algebra e di geometria. Aveva inoltre distribuito la giornata di lei in una serie non interrotta di faccende. Egli stesso era dedito, senza posa, ora a scrivere le proprie memorie, ora a far calcoli di matematica sublime, ora a fabbricar tabacchiere al tornio, ora a potare e mondar piante in giardino o a sorvegliare i lavori, di cui nella sua proprietà non c’era mai difetto. E siccome condizione essenziale dell’attività è l’ordine, così l’ordine nella sua vita era condotto all’apice della precisione. Il suo arrivo a pranzo compivasi sempre nelle stesse identiche forme, alla stessa ora, anzi allo stesso minuto. Con le persone che lo circondavano, dalla figlia ai servi, era rigido ed esigente; epperò, pur non essendo di animo fiero, incuteva una paura e un ossequio che l’uomo più malvagio e dispotico non avrebbe riscosso. Benchè al riposo e privo di qualunque ingerenza negli affari di governo, tutte le autorità del distretto, dove trovavasi la sua proprietà, stimavano loro dovere recarsi a fargli visita; e, al pari dell’architetto, del giardiniere, o della principessina Maria, doveano aspettar l’ora prefissa all’uscita del principe in perfetta forma ufficiale. E tutti, nell’imminenza di quella cerimonia, provavano lo stesso senso di paura e di ossequio, non appena aprivasi con fracasso, la massiccia porta dello studio, e ne veniva fuori il vecchietto in parrucca incipriata, dalle piccole mani scarne, dalle folte ed ispide sopracciglia, che qualche volta, quando faceva il cipiglio, velavano il luccicore degli occhi intelligenti e quasi giovanili.

Il giorno dell’arrivo aspettato, la principessina Maria, all’ora fissata pel saluto mattinale, entrò nel vestibolo e fattosi con timida mano il segno della croce, recitò una preghiera mentale. Ogni giorno vi entrava ed ogni giorno pregava che quell’incontro quotidiano passasse senza burrasca.

Il vecchio servo incipriato, che stava di guardia alla porta dello studio, si alzò pianamente e disse a mezza voce:

— Favorite.

Giungeva dall’interno lo stridore monotono di un tornio. La principessina Maria spinse leggermente la porta cedevole e si arrestò sulla soglia. Il principe, senza smettere di lavorare, si voltò.

L’ampio studio era pieno zeppo di oggetti evidentemente adoperati senza posa. La tavola massiccia cosparsa di libri e di mappe, le alte librerie vetrate con le chiavi agli sportelli, il banco a ribalta per scrivere in piedi sul quale era squadernato un registro, il tornio fra sparsi trucioli e ordigni, tutto dinotava un’attività assidua, regolare, svariata. Dai movimenti del piccolo piede calzato d’uno stivaletto tartaro ricamato d’argento, dalla pressione vigorosa della mano secca e muscolosa, vedevasi chiaro che il principe conservava tuttora la forza di una verde vecchiezza.

Fatte alcune girate, egli ritirò il piede dal pedale, pulì la lunetta, e avvicinatosi alla tavola, chiamò a sè la figlia. Non avea l’abitudine di benedirla. Porgendole la guancia ispida non ancor rasa, la guardò con occhio paternamente severo, e disse:

— Stai bene?... Orsù, siedi.

Preso poi un quaderno di geometria, tirò a sè col piede una seggiola.

— Per domani! – disse, rapidamente sfogliando il quaderno; e trovata la pagina, segnò con due forti unghiate da un paragrafo all’altro.

La principessina si curvò sulla tavola per decifrare il compito.

— Aspetta, c’è una lettera per te, – la interruppe il vecchio; e tirata fuori una busta da una bolgetta attaccata di sotto alla tavola, gliela gettò davanti.

La calligrafia dell’indirizzo era femminile. La principessina prese sollecita la lettera, mentre il viso le si copriva di macchie rosse.

— È della tua Eloisa? – domandò il principe con un freddo sorriso che scoprì i suoi denti forti e ingialliti.

— Sì, è di Giulia, – rispose la figlia, timidamente alzando gli occhi.

— Altre due lettere lascerò passare, ma la terza la leggerò, – disse severo il principe. – Ho paura che vi scriviate molte scioccherie. Leggerò la terza.

— Leggete anche questa qui, babbo, – consentì la figlia arrossendo.

— La terza, ho detto la terza! – gridò il principe, respingendo la lettera. E senza più, puntò i gomiti sulla tavola e si diè a studiare nel quaderno le figure geometriche.

— Ecco qua, signorina, – venne su di botto, curvandosi di sopra al quaderno verso la figlia e appoggiando una mano sulla spalliera della seggiola di lei, sicchè la fanciulla si sentì avvolta nel tanfo acre di tabacco che il vecchio esalava e che da tanto tempo le era familiare. – Ecco qua: questi due triangoli sono eguali... Guarda il triangolo abc...

La principessina guardava fiso negli occhi che le scintillavano vicino; le macchie rosse del viso apparivano e sparivano. Si vedeva che la paura le impediva di capire le spiegazioni paterne, per chiare che fossero. Tutti i giorni la medesima storia si ripeteva, fosse colpa del maestro o della scolara: la principessina non vedeva, non udiva, si sentiva solo addosso la faccia arida del padre severo, il fiato grosso, il tanfo di tabacco, e non pensava che a svignarsela il più presto possibile per risolvere il problema in libertà, in camera propria, a tutto suo comodo. Il vecchio perdeva le staffe; respingeva da sè con fracasso e tornava a tirare la sedia su cui sedeva, faceva sforzi inauditi per non irritarsi, quasi sempre s’irritava, gridava, buttava all’aria il quaderno.

La principessina sbagliò nel rispondere.

— Evviva la sciocca! – urlò il principe, voltandosi in là stizzito; si alzò, fece per allontanarsi, accarezzò i capelli della figlia, tornò a sedere, riprese la spiegazione interrotta.

— Non se ne fa nulla, bambina mia, – disse, quando la figlia, avvoltolato il quaderno, faceva atto di andar via. – La matematica, signorina, non è una scienza da pigliare a gabbo. Ed io non voglio che tu somigli alle nostre stupide ragazze... Chi la dura, la vince... Pazienza, e finirà che ci troverai gusto, e tutti i grilli scapperanno via...

E così dicendo, le dava sulla guancia un colpettino amorevole. Poi, vedendola che s’allontanava, l’arrestò con un gesto e cavò fuori dalla tavola un libro nuovo non ancora sfogliato.

— Ecco qua non so che altra roba: una Chiave del mistero... Te la manda la tua Eloisa. Si tratta di un libretto ascetico, ed io non caccio il naso nelle credenze altrui... Vi ho dato un’occhiata... Orsù, va, va...

E battendole sulla spalla, l’accompagnò fino alla soglia e richiuse la porta.

La principessina Maria tornò in camera sua, con in viso quell’espressione triste e spaurita, che non la lasciava mai e che la rendeva più brutta di quanto era in effetto. Sedette alla sua scrivania, ingombra di fogliacci, libri, quaderni, ritratti in miniatura. Per quanto ordinato era il padre, per altrettanto essa incarnava il disordine. Mise da parte le figure geometriche, e con mano impaziente disigillò la lettera. Era questa della sua più cara amica d’infanzia, di quella stessa Giulia Caraghin che vedemmo dai Rostow in occasione del giorno onomastico.

Giulia scriveva in francese:

«Cara, inapprezzabile amica, che cosa terribile il distacco! Ho un bel ripetermi che la metà della mia esistenza e della mia felicità è in voi, che a dispetto della distanza i nostri cuori sono avvinti da legami indistruttibili, il mio cuore si ribella sempre contro la sorte, e quali che siano i piaceri e le distrazioni che mi circondano, non potrò mai soffocare quella intima angoscia che lo stringe fin dal primo momento del nostro addio. Perchè non siamo noi insieme, come nella scorsa estate, nel vostro salottino, sul divano azzurro, sul divano delle confidenze? Perchè non posso io, come tre mesi fa, attingere nuove forze nel vostro sguardo, dolce, tranquillo, perspicace, che tanto io amava e che mi vedo ora davanti mentre vi scrivo?»

La principessina Maria trasse un sospiro e si volse allo specchio a bilico che le stava a destra. Lo specchio fedele rimandò l’immagine di una persona cagionevole, di un viso scarno e non avvenente. Gli occhi, sempre velati di malinconia, parevano ora desolati.

— Mi adula, – pensò la principessina, ritraendo gli occhi dallo specchio e tornando a leggere.

Eppure quella di Giulia non era adulazione: gli occhi della principessina Maria, grandi, profondi, luminosi (pareva a momenti che ne scaturissero fasci di luce viva), erano così belli, che spesso, a dispetto del viso, diventavano più attraenti di qualunque bellezza. Ma la principessina non conosceva l’espressione dei propri occhi, espressione che questi assumevano, quando ella non pensava a sè. Come a tutti accade, il viso di lei perdeva ogni naturalezza, non appena si guardava nello specchio.

La lettera seguitava così:

«A Mosca non si parla che della guerra. Uno dei miei due fratelli è già al campo; l’altro è ufficiale della Guardia, e partirà tra breve. Il nostro buon sovrano lascia Pietroburgo, e si crede che abbia in animo di esporre la sua preziosa esistenza alle eventualità della guerra. Voglia Iddio, che il mostro di Corsica, che turba la pace di Europa, sia schiacciato dall’angelo che l’Onnipotente nella sua infinita bontà prepose ai nostri destini! Senza contare i miei fratelli, questa guerra mi ha tolto una delle conoscenze, uno degli amici più cari al mio cuore. Parlo del giovane Nicola Rostow, il quale, entusiasta com’è, non ha saputo rimanere inattivo, ha piantato l’università e si è ingaggiato nell’esercito attivo. Vi confesso, cara Maria, che a malgrado ch’ei sia così giovane, la sua partenza è stata per me un gran dolore. Io ve ne parlai già l’estate scorsa; un giovane così nobile, così veramente giovane, come tanto di rado se ne danno fra i nostri vecchi di venti anni! E poi così franco, così cordiale! Le mie relazioni con lui, tanto egli è puro e pieno di poesia, furono una delle più dolci consolazioni del mio povero cuore, che già troppo ha sofferto. Vi racconterò poi il nostro addio e le parole che mi disse... Adesso, è troppo fresca la ferita... Ah, cara amica mia, beata voi che non conoscete queste ardenti voluttà, queste profonde amarezze. Voi siete felice, perchè ordinariamente le amarezze son più forti delle consolazioni. Io so benissimo che il principe Nicola è troppo giovane per me, e che non potrà mai essermi altro che amico. Ma appunto di questa tenera amicizia, di queste pure e poetiche relazioni avea sete il mio cuore. Ma basti di ciò.

«La gran novità, che occupa tutta Mosca, è la morte del vecchio conte Besuhow e la sua eredità. Figuratevi che le nipoti hanno ricevuto una miseria, il principe Basilio niente; erede universale è stato Piero, riconosciuto per giunta e legittimato come figlio, epperò divenuto egli stesso conte Besuhow e proprietario della più ingente fortuna di tutta Russia. Dicono che il principe Basilio abbia recitato una parte assai poco pulita in tutta questa faccenda e che se ne sia andato a Pietroburgo mortificatissimo. Vi confesso francamente che io non mi raccapezzo in questi imbrogli di testamenti olografi; vedo però, che da che il giovane Piero è diventato conte Besuhow e ricco a milioni, si è verificato un cambiamento maraviglioso e divertente nel contegno delle mamme, che hanno figlie da marito, e delle stesse ragazze verso questo signore, il quale (sia detto in parentesi) mi è sembrato sempre molto insignificante. Intanto, visto che da due anni in qua tutti si divertono a darmi dei fidanzati, che per lo più non conosco, adesso la cronaca matrimoniale di Mosca mi fa per forza contessa Besuhow. Ma voi capite benissimo che io non ne ho nessuna voglia. A proposito di matrimoni. Sapete una cosa? La zia di tutti, la principessa Anna Drubezkoi, mi ha confidato in questi giorni, sotto il suggello del segreto, il suo progetto di trovarvi uno sposo. Si tratta, nè più nè meno, del figlio del principe Basilio, Anatolio, al quale vorrebbero dare una ragazza nobile e ricca, e la scelta dei genitori è caduta proprio su voi. Non so quel che voi ne penserete, ma ho creduto mio dovere prevenirvi. Lo dicono un bel giovane e un gran rompicollo. Ecco tutto quel che di lui m’è riuscito sapere.

«Ma ho chiacchierato abbastanza. Sono già in fondo al secondo foglietto, e la mamma mi fa chiamare per andare a pranzo dalle Apracsin.

«Leggete il libro mistico che vi mando: ha avuto qui un successo enorme. Ci son cose poco comprensibili al debole ingegno umano; ma il libro è eccellente, e la sua lettura consola e solleva l’anima. Addio. Tanti ossequi al babbo e cordiali saluti a madamigella Bourienne. Vi abbraccio con tutto il cuore.

Giulia».

«P. S. Datemi nuove di vostro fratello e della sua bellissima moglie».

La principessina stette un po’ sopra di sè. Un sorriso pensoso e un subito luccichio degli occhi le illuminarono la faccia, trasformandola. Di botto, si alzò, andò con passo pesante alla scrivania, prese un foglietto e vergò con rapida mano la risposta seguente:

«Cara, inapprezzabile amica! La vostra lettera del 13 mi è stata di grande conforto. Voi mi amate sempre, o mia poetica Giulia. Si vede che la separazione, di cui dite tanto male, non ebbe sull’animo vostro il solito influsso. Voi vi lamentate della lontananza; e che dovrei dire io, se ne avessi il coraggio, io, privata di tutti coloro che mi son cari? Ah! se non fosse per la religione, la nostra vita sarebbe molto triste. Perchè vi figurate ch’io debba guardare con occhio severo la vostra inclinazione per un giovane? A questo riguardo, io non son severa che con me stessa. Intendo negli altri questi sentimenti e se non posso approvarli, non avendoli mai provati, non ho nemmeno il diritto di condannarli. Mi pare soltanto che l’amor cristiano del prossimo, l’amore verso i nemici, sia più meritevole, più nobile, più consolante di quei sentimenti che gli occhi di un bel giovane possono inspirare ad una fanciulla poetica e sensibile come voi siete.

«La notizia della morte del conte Besuhow ci arrivò qua prima della vostra lettera, e mio padre ne fu afflittissimo. Il conte, dice, era il penultimo rappresentante del gran secolo, ed ora vien la sua volta; ma farà, dice, tutto ciò che da lui dipende perchè quest’ora arrivi il più tardi possibile. Dio ci liberi da una così orrenda sventura!

«Quanto a Piero, che io ho conosciuto bambino, non posso essere del vostro parere. Mi sembrò sempre che avesse un cuor d’oro, e questa è la qualità ch’io apprezzo sopra tutte le altre. La faccenda dell’eredità che gli è toccata e della parte che vi ha rappresentata il principe Basilio, mi fa compiangerli tutti e due. Ah! amica mia, quanto son giuste le parole del nostro Divino Salvatore, esser più facile ad un cammello passar per la cruna di un ago che ad un ricco entrare nel regno dei cieli! Compiango, ripeto, il principe Basilio, e molto più Piero. Giovane com’è, oppresso da una fortuna colossale, quante tentazioni gli toccherà di affrontare! Se domandassero a me quel che più di tutto desidero al mondo, risponderei subito: desidero esser più povera del poverissimo fra gl’indigenti. Grazie mille volte, amica mia, del libro che mi mandate e che fa da voi tanto rumore. Del resto, poichè voi mi dite che fra molte buone cose ce n’è di quelle che al debole ingegno umano sono inaccessibili, mi pare inutile occuparmi di una lettura poco comprensibile, che appunto per questo non potrebbe portare alcun giovamento. Io non ho mai capito la passione che certuni hanno di confondersi le idee, attaccandosi ai libri mistici, i quali non fanno che suscitare il dubbio, irritare l’immaginazione, e generare una esagerazione affatto contraria alla semplicità cristiana. Meglio leggere gli Atti degli apostoli e il Vangelo. Non cerchiamo di penetrare quel che vi è di arcano in queste sacre scritture, imperocchè come possiamo noi, miseri peccatori, conoscere i tremendi e santi misteri della Provvidenza fino a che siamo oppressi dall’involucro della carne, la quale frappone tra noi e l’Eterno una tenda impenetrabile? Limitiamoci pel nostro meglio a studiare le grandi verità, che il nostro Divino Salvatore ci lasciò per nostra guida sulla terra! sforziamoci di seguirle e di persuaderci che quanto meno daremo di libertà alla nostra fiacca ragione, tanto più graditi saremo a Dio, il quale respinge e condanna ogni scienza che da Lui non emana, e che quanto meno ci affaticheremo a penetrare quel che Gli piacque nasconderci, tanto più presto Egli ce lo rivelerà con la Sua divina sapienza.

«Dello sposo eventuale il babbo nulla mi ha detto; so che ha ricevuto una lettera ed aspetta la visita del principe Basilio. Quanto al progetto di matrimonio, vi dirò, carissima amica mia, che per me il matrimonio è una divina istituzione, alla quale bisogna sottomettersi. Per grave e penoso che per me possa essere, se piacerà all’Onnipotente d’impormi gli obblighi di moglie e di madre, mi studierò di compierli con quanta fedeltà mi sarà possibile, senza darmi pensiero di scrutare i miei sentimenti verso colui che Egli mi darà per compagno.

«Ho ricevuto una lettera di mio fratello, che m’informa del suo arrivo con la moglie. Questa gioia non sarà però di lunga durata, visto che egli ci lascia per prender parte a questa guerra, cui siamo trascinati Dio sa come e perchè. Non solo da voi, nel turbine degli affari e della vita mondana, non si discorre che della guerra; ma anche qui, fra i lavori campestri e nella pace che la gente di città suole attribuire alla campagna, gli echi delle armi si ripercuotono dolorosamente. Il babbo non fa che farneticare di marce e contromarce, senza che io ne capisca niente, e proprio ieri l’altro, facendo la mia solita passeggiata, mi è toccato di assistere ad una scena straziante. Era una compagnia di coscritti che partivano pel campo. Bisognava vedere le madri, le mogli, i figli di quei poveretti, e sentire i singhiozzi degli uni e degli altri! Si direbbe che il genere umano abbia dimenticato le leggi del suo Divino Salvatore, che c’insegnò l’amore e il perdono delle offese, e che riponga ogni sua virtù nell’arte di uccidersi l’un l’altro.

«Addio, cara e buona amica. Prego il Divino Salvatore e la Sua Santissima Madre che vi tengano sotto il loro santo e potente ausilio.

Maria».

— Ah, voi spedite una lettera, principessina!... io ho già impostato la mia. Ho scritto alla povera mamma, –squillò di botto la vocina simpatica e pastosa di madamigella Bourienne, che irrompeva nella triste e cupa atmosfera della camera con una nota affatto diversa, tutta allegria e soddisfazione. – Ho da prevenirvi, principessina, – soggiunse abbassando il tono e ascoltandosi con piacere, – che il principe ha fatto una lavata di capo a Michele Ivanic. È di pessimo umore, ve lo avverto.

— Ah, amica cara! – rispose la principessina Maria, – vi ho già pregata di non parlarmi mai dell’umore del babbo. Io non mi permetto di giudicarlo, e non vorrei che altri lo facesse in vece mia.

Ciò detto, guardò all’orologio, e visto che erano già passati cinque minuti dall’ora degli esercizi musicali, entrò contrita e trepidante nel salotto. Da mezzogiorno alle due, secondo l’ordine prefisso, il principe riposava e la principessina suonava il pianoforte.

Guerra e pace. Ediz. integrale

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