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I L’odore dei negozi di dischi metal negli anni ottanta

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All’inizio degli anni ottanta trovare un negozio di dischi specializzato in metal a Napoli era quasi un’impresa titanica. Una chimera.

Io muovevo i miei primi passi musicali, perso dietro una religione ancora confusa, fatta di pomeriggi trascorsi ad ascoltare massivamente Judas Priest, Iron Maiden, Saxon, i primi Scorpions, Ozzy, Motörhead, Accept e Kiss.

Al ginnasio, nella mia classe c’era solo un ragazzo che ascoltava heavy metal come me. Lui, però, era decisamente più fortunato: poteva infatti contare su una paghetta mille volte più lauta della mia. Per non parlare di suo fratello maggiore, un fighettone dall’aspetto svedese, bassista in una band.

Così, finì che il compagno di classe iniziò a vendermi delle cassette registrate (ricordo ancora: delle Maxell 90 bianche e blu) che mi spacciava per rarissimi bootleg. Mi feci proprio spennare per bene. Ero sprovveduto, ingenuo e voglioso di conoscere. E poi non avrei mai potuto immaginare che un ricco volesse fottere un povero: ne avevo di strada da fare, in questo senso.

Poi, a un tratto, capii che quel ragazzo mi stava gabbando alla grande, reo di arricchire con i miei soldi – sudatissimi e frutto di varie ramanzine paterne – il suo già invidiabile patrimonio di vinili metal.

Un giorno andai da lui e glielo dissi: «Tu mi stai fottendo».

Lui negò. Ma non me ne diedi per inteso, e ci mandammo reciprocamente affanculo.

Così presi a girare da solo, in cerca di negozi specializzati; e ne trovai uno a Via Crispi, per puro caso, accompagnando mio padre al lavoro.

Ci andai con un certo entusiasmo, tanto da chiedere a un mio compagno defender di allora, di venire con me. Ma persino in quell’occasione non mi fu risparmiata qualche delusione di troppo. Non ero certo un metallaro nell’aspetto, io, che sfoggiavo incurante un capello riccio senza tempo (né senso), un giubbotto evidentemente scelto dai miei genitori, dal gusto elegante, antiquato. Non esibivo nessuna toppa, nessuna maglietta con mostri, demoni, valchirie dotate di lame e tombe etrusche stilizzate. Non ero assolutamente metal nel modo di presentarmi, a tal punto che le mie evidenti lacune “formali” mi attirarono contro la saccente stigmatizzazione del mio accompagnatore/mentore, il quale prima di entrare da Godzilla, senza indugiare in perifrasi, mi intimò: «Non dire cose che non sai, non emettere giudizi, non tentare comparazioni. Fai parlare me».

Penso sia stata l’ultima volta in assoluto che abbia mai permesso a qualcuno di parlarmi in quel modo. Ma il mio silenzio aveva poco a che fare con l’assenso. Lo dimostrai immediatamente quando una volta nel negozio, ignorando le raccomandazioni dell’ingenuo compagnuccio, osai dire che mi piacevano più gli Attacker degli Exciter. Non solo. Mi azzardai perfino a sostenere che Blackie Lawless degli W.A.S.P. era un grande bassista, come del resto Mel Sanchez degli Abattoir. Alle mie esternazioni, a dir poco imprudenti, Auro replicò con uno sguardo palesemente carico di odio, supponenza e spocchia in anticipo sui tempi.

Il risultato ovvio fu che persi tanto la sua compagnia quanto un po’ del mio iniziale entusiasmo, non tanto verso la musica dura – ero troppo preso per farmi scoraggiare anche su quello – ma sull’idea di poter contare su una frangia di amici con i miei stessi gusti musicali. Tornai altre volte a via Crispi, l’ultima in assoluto per seguire un’altra mia fissa minoritaria, quella per i Lääz Rockit. Sin d’allora – sindrome trasversale che non mi ha più abbandonato – non mi contentavo dei nomi più gettonati e in vista.

In seguito, con un colpo di fortuna insperato, stavolta accompagnando mia madre a cambiare delle scarpe, scovai un negozio che si trovava al Vomero. Non era specializzato in hard’n’heavy, ma ben fornito. Trovai gli Slayer, scoprii gli Armored Saint – che sono tuttora un mio punto fermo – con Quartz, Jaguar e Samson mi battezzai di NWOBHM – che in tutta evidenza legavo solo ai Maiden – poi comprai i canadesi Sword, gli svedesi 220 Volt, un vinile dei Paganini, Live In Canada dei mitici Starz, i francesi H-Bomb. Acquisti confusi, che però, in una logica stramba per quanto efficace, diedero il via ad approfondimenti più lucidi e canonici. Dopo due anni di caotiche sbandate e qualche perdonabile cantonata, presi la mia strada. Mi resi conto che giravo attorno a speed, power e thrash metal. Gli Slayer diventarono la mia band chiave, e per lungo tempo dominarono il mio cuore, prima dell’avvento dei Queensrÿche, i quali, come ho avuto più volte modo di ammettere, mi sconvolsero profondamente.

Ricordo quel periodo con grande nostalgia.

Quei piccoli negozi metal avevano un odore particolarissimo, diverso dagli altri negozi di dischi. Il profumo del vinile misto a quel giusto di muffa e umidità; l’atmosfera da cripta iniziatica, da abbazia sconsacrata, ma anche la solidarietà cameratesca tra appassionati alla quale non ebbi accesso per un deciso individualismo e per il naturale compimento di uno spirito solitario. Quelle caratteristiche erano uniche.

Prendevi in mano un vinile impolverato dei Cirith Ungol e ti sentivi una specie di eroe dei due mondi, un individuo unico e illuminato. Non bastavano i compagnucci sapientissimi a farti tornare quello che eri fino a poco tempo prima, e cioè un volenteroso adolescente alle prime schermaglie cognitive. L’istinto della ricerca sarebbe prevalso per sempre.

In un pomeriggio di pioggia acquistai Keeper of the seven keys degli Helloween e, finalmente, Hell awaits degli Slayer. Forse era il 1987. Quell’album sarebbe diventato rapidamente uno dei miei dischi ossessione. Era potentissimo, esoterico ed energetico oltre ogni livello.

Mi sentii felice quel pomeriggio. A scuola andavo malissimo, mi salvava sempre e solo l’italiano, ma avevo iniziato a fumare, a darmi arie da grande. Dedicavo idealmente alle ragazze le rare ballate dei miei gruppi metal. Ero pronto a innamorarmi. I miei genitori stavano bene. Le ristrettezze economiche erano solo uno spauracchio lontano, perché vivevamo a fitto bloccato in un bell’appartamento, vecchiotto ma affascinante. Cominciavo a scrivere i miei primi racconti, che risentivano di suggestioni caotiche, da Powerslave dei Maiden a Bukowski, da Strindberg al neoclassicismo virtuosistico di Malmsteen. Avevo deciso: sarei diventato uno scrittore.

Come la storia ha poi certificato, sono diventato un venditore di dischi.

Quando ho iniziato la professione, ero quasi trentenne e la mia conoscenza del rock e del metal era ormai consolidata, però mi dissi che non potevo ricalcare i comportamenti di persone come Auro, quel tipo di sapientoni convinti di aver creato un magistero intoccabile e incontestabile di nozioni ed esperienze in materia.

E così, se e quando un ragazzino mi entrava in negozio e mi sparava la sentenza "John Petrucci è il più grande chitarrista di ogni tempo ed era", io mi limitavo a sorridere. E poi decidevo, sempre con buona grazia e fare paterno, se era il caso di introdurgli Randy Rhoads, Ritchie Blackmore, Chris DeGarmo o Michael Schenker. A seconda delle sue inclinazioni, che era mio compito intercettare. Senza smontarlo, senza demolire le sue scarne e autoreferenziali certezze, tipiche dell’età.

Purtroppo, noto che anche nel giornalismo musicale specializzato sono ancora presenti fenomeni di vero e proprio superomismo nozionistico, che non portano a nulla di concreto, né di utile. Un incazzoso mentore che si tira arie da onnisciente avrà pure i suoi discepoli, ma saranno in parecchi gli adolescenti che sapranno fare a meno di lui e delle sue arie da Weimar o Iperuranio del metal. Sembra sia davvero difficile uscire dall’acquitrino sempre ridondante di sentenze e liste di proscrizione. E con l’età spesso si finisce per peggiorare pure.

Mi mancano quei pomeriggi piovosi, zeppi di luci al neon e di pioggia del sud, trascorsi a scartabellare nevroticamente vinili che non avrei mai trovato in un negozio “normale”. Mi manca la spensieratezza di quegli anni, la follia consapevole di spendersi l’intera paghetta in dischi. Mi manca addirittura il confronto pretestuoso e un po’ inquietante con i supponenti/supposti confratelli di ascolto.

Mi manca quella suggestione chiara, costituita dall’odore dei vinili, dall’insegna del negozio accesa alle prime luci della sera e io costretto a scegliere tra quattro LP con ore e ore di indecisioni e inversioni di parere. Mi manca il ritorno a casa con la busta contenente il prezioso disco e parte dei miei sogni, destinati, come quegli anni, a scomporsi nel magma distraente della crescita involontaria.

Ho dovuto più volte vendere, per stati di necessità improvvisi, le mie collezioni di vinili e cd metal. Cerco di non pensarci spesso, come del resto a molte situazioni simili. Purtroppo le mie capacità mnemoniche mi impediscono di rimuovere i preziosi 7’’ persi della NWOBHM e non solo, le stampe greche e messicane di oscure band dissolte in un amen, svendute per due soldi in grevi fasi di bisogno.

Sarei meno infastidito se avessi venduto le varie perle della mia emotiva collezione a dei veri cultori e non a dei banali mercanti, interessati solo a lucrare fino all’ultimo spicciolo nel mercato dell’usato. Sono i piccoli speculatori delle passioni altrui ad aver inquinato e saturato il mondo già fragile dei dischi. Vendere arte senza passione vale meno che scoparsi un buco nel muro pieno di crepe.

Ma qualcosa di profondo è rimasto comunque. Di molto profondo. Certi album, certe band, hanno messo radici nel mio immaginario e da lì è nato un mondo che non ho mai arrestato lungo le sue traiettorie e che continua a ispirarmi ancora oggi, soprattutto nella scrittura. Alludo a quel metal “doloroso” ed epico alla Queensrÿche e affini: Crimson Glory, Recon, Siam, Sacred Warrior, Heir Apparent e mille altri. La voce di Geoff Tate mi ha accompagnato per anni e anni in notti di pioggia, in amori contorti e votati allo scacco; in cupe escursioni nelle voglie indefinibili di persone sconosciute. Ancora oggi, se piove e per strada non c’è nessuno, se una donna mi ricorda la pioggia perché mi guarda in quel modo che promette negando, non posso esimermi dal mettere su The lady wore black dei Queensrÿche.

E poi ci sono quei gruppi che mi hanno marchiato a fuoco, che mi hanno dato energia, cristallizzati eppure vivi nella bacheca non spolverata dei numi tutelari, degli angeli custodi sonori. Su tutti gli Armored Saint, che continuo a seguire con devozione, ma anche i Riot. In fondo, nel mio ambiente a metà degli anni ottanta, essere metallaro era una scelta a suo modo impopolare e penalizzante; passavi per un mezzo esaltato che poi, inevitabilmente, si sarebbe calmato. I professori dicevano a mia madre che avrebbe dovuto scardinare in me presunte simpatie per il demonio, che per giunta non avevo mai palesato nemmeno per la mia innata inclinazione alla provocazione.

Continuavo a citare piccoli gruppi metal nei miei temi, con la stessa solennità che qualcun altro, intellettuale precoce, scomodava per Pavese, Proust o Svevo. Non me ne sono mai fregato: per me la voce di Geoff Tate valeva come un romanzo del pur adorato Dostoevskij e quella di John Bush degli Armored Saint (poi negli Anthrax) poteva supplire a disordinate letture di Kerouac.

Non rinnego niente. Non quelle ingenuità, non i miei anni violenti e disperati di formazione. Rinnego solo le frettolose ma necessarie vendite ai prezzolati del buon affare, personaggi poco interessanti ai quali spero di non dover ricorrere mai più.

Ascoltare heavy metal in quegli anni per me aveva un valore aggiunto, perché cercavo proposte diverse rispetto a quello che “doveva piacermi” per forza. Ma anche in quella scelta controcorrente, devo ammetterlo, faticavo da morire a mantenere il timone dritto, per la mia scarsa propensione ad aggregarmi ai miei simili; non mi andava di discutere ore e ore su chi fosse meglio tra Steve Harris e Billy Sheehan. Detestavo l’atmosfera carbonara e millenarista dei gruppi d’ascolto dei giovani defenders. Insomma, preferivo stare per fatti miei.

È stato così con la politica, con il calcio, con altri generi musicali che ho poi amato e approfondito; con alcuni colleghi di lavoro e di studio, per non parlare delle mie prese di distanza in famiglia. I circoli, le associazioni, i club, le comitive, tutta roba da mal di testa. Quasi tutte aggregazioni coatte, dominate dal compromesso e dall’ansia della solitudine; tutta roba lontanissima da quel sogno che non riuscirò mai a smontare del tutto, quello di un sorriso in una strada deserta, il passato leggero su una spalla, una sigaretta in bocca, tanta musica e nessun rimpianto/bisturi. Meno parole, meno enfasi, meno retorica, meno ossessione del bello e del riparo dalle brutture del mondo.

In fondo, quando acquistavo un vinile metal all’età di tredici anni, cercavo proprio quello: sentirmi un guerriero che poi poteva andarsene silenzioso per la sua strada, in attesa del lampo della scrittura. Altro che scambio di impressioni, altro che «vieni a vedere la mia discografia a casa, ho dei pezzi incredibili!».

No, non vengo, ho da fare. Avrò sempre altro da fare.

Cocincina

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