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VI La resurrezione di Glenn Hughes

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Nel 1993 cercavo, senza molto successo, di fare il rappresentante di libri porta a porta. La mia percentuale era del dieci per cento, ma in quattro mesi di lavoro avevo incassato pochissimo. Molte porte in faccia, un paio di alterchi e l’inseguimento a opera di un cane inferocito.

Però sentivo che le cose mi giravano. Quando pensavo alla mia età, ventun anni, mi sentivo un leone.

I pochi proventi ottenuti dalle mie improvvisate vendite porta a porta li usavo per viaggi spartani, improntati alla più totale disorganizzazione mentale e spirituale, per il vizio del fumo e quello, più impegnativo, dei dischi.

Una sera – era un giorno d’inverno – mi telefonò un amico di vecchio corso, un altro fissato con la musica, appassionato come me di Deep Purple e qualsiasi cosa fosse affine alla grande band. Il classico concetto molto anglosassone di “band and relatives”. Così Piero mi annunciò con grande enfasi che il leggendario bassista e cantante Glenn Hughes – che, ci tengo a precisarlo, fu con i Deep Purple solo in tre altrettanto leggendari album virati a una celestiale e inedita commistione tra hard rock e funk – era tornato a incidere in veste di solista.

«Dopo essere stato per molti anni nei labirinti e nei materassi della cocaina, Glenn è tornato...»

«Materassi?»

«Sì, si dice, no? Si dice anche materassi... l’ho sentito dire a una persona.»

«Ed è per questo che si dice?»

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