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II 642

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All’eroe Phil Parris Lynott

(20.08.1949 – 04.01.1986)

Mi fermo a guardare l’edicola votiva. C’è sempre qualcosa che mi inquieta nelle edicole votive. È che non impediscono la morte. Così come la fede, l’idea di un Dio sommo, parco e corretto. Nulla ferma la breve corsa della vita. Una corsa senza lieto fine.

E tutte le volte, ma proprio tutte, che osservo degli anziani fermarsi nei pressi di quest’edicola votiva in particolare, quasi inizio a tremare e devo andarmene alla svelta perché sento che un malessere mi invade e mi domina.

Non tollero quando ai bambini cade il gelato per terra, in strada. Quando si sbucciano le ginocchia e piangono a lungo. Quando i vecchi pregano. Quando negli occhi di chi ti ama leggi quella preghiera privata e al contempo disperata, «non deludermi, ti prego».

Non tollero che il sesso finisca così presto e inizi, così violenta e vendicativa, la paura di perdersi. Un istante dopo, come fosse una conseguenza naturale, una controindicazione.

Oggi, poi, non sopporto le mie speranze. Più del solito. Le trovo viscide, peggio dei bassi istinti, mi confondono, mi rendono banale. E allora abbandono la dolorosa contemplazione dell’edicola votiva e mi imbuco nel bancomat di fronte.

Prelevo 40 euro. Stampo il saldo. Con una motivata ansia addosso, leggo disgustato quanto riporta lo scontrino: 642 euro.

Ecco a quanto ammonta il mio patrimonio a quarantacinque anni già compiuti: 642 micragnosi pezzenti fottuti euro.

La mia mente, che è molto matematica, mi dice che per ogni anno della mia vita ho guadagnato 14,59 euro. Un po’ poco.

Straccio lo scontrino, lo rendo coriandoli, guardo in giù, verso il mare. Vedo il porto, quasi nascosto da una nube di calore puzzolente. Il vento estivo porta odore di salsedine, condensati di profumi femminili di richiamo; ma più di ogni altra cosa trascina con sé una disperazione apatica, di quelle che spingono i deboli verso l’uscita volontaria.

Mi resta poco da realizzare.

Non ho voglia di fare del male al prossimo mio. Sono pigro e fin troppo buono. Potrei far godere una donna, potrei provarci, ma ho paura di sguardi troppo dolci, compromettenti, involontariamente subdoli. Così funziona.

Sono le 9e46 del mattino.

Al mio terzo caffè sento una tensione sessuale forte e contraddittoria sotto la lingua, e poi giù nelle gambe, nell’odore speziato del fiato già stanco. Ce l’ho con l’intera società civile e non riesco a nasconderlo. Ce l’ho con chi se la prende con calma. Vorrei fuoriuscire completamente dai ranghi, dico completamente. Senza sconti. La società civile, sin da quando ero bambino, mi ha spinto verso la sovversione. Non l’eversione, la sovversione. Ci tengo a puntualizzarlo.

La società civile è il mostro che si è mangiato mio padre, la mia famiglia, che ha aizzato i nostri rancori, gonfiato i nostri debiti, e io rispondo alla società civile non dormendo, fumando e prenotandomi malattie. Scrivendo in orari che hanno il potere di rendere tutto più difficile e meno mansueto. Chi ha creduto, anche solo per un mese, a una società equa, attenta alle esigenze dei più deboli, è quasi spinto alla resa se non al suicidio. I nostri sogni sono estinti, macchiati, presi a calci, usati come contraccettivi per coiti veloci con il nulla.

Se fossi falso, mi preoccuperei solo di far godere una donna. Adesso, con tutta la rabbia che ho in corpo. Come un animale con il muso ferito, un esemplare che le residue energie di ribellione spingeranno verso i ganci del primo mattatoio senza lista d’attesa. Così funziona nella società civile.

Non riesco più a dominare la rabbia, così non dormo.

Non riesco più a dominare la mia insonnia, così capita che sogno sulle linee del tramonto o appeso alla meravigliosa farsa dell’alba.

Non voglio essere amato sul serio perché sono fuori dalla società civile.

Ho 642 euro in banca, 40 in tasca. Ma nonostante tutto devo rispondere al telefono.

È uno scrittore a chiamare, tale Lirio Vaca. Un pavone. Un montato di professione. Uno che tutte le volte che pubblica crede di aver acquistato cinque centimetri di pene e la statura adatta a placcare lo status di bookstar. Uno che fa marchette. Uno che annusa le donne e poi non riesce né ad amarle né a montarle. Uno che se non fossi io, mi piacerebbe incontrarlo di notte in una strada deserta per dimostrargli che i lupi selvaggi esistono nelle città di mare. Si contentano di spazzatura, si lasciano carezzare dai bambini, proteggono il branco vero, quello diseredato, e uccidono i pagliacci in pochette e tatuaggio letterario.

Mi racconta di un suo successo editoriale. Che novità. Sento l’odore del suo ego attraverso il telefono. Sembra odore di merda secca. Incasso, annuisco, grugnisco gentile.

«Ho letto il tuo ultimo libro», dice, «scritto benissimo, per carità, ma l’ho trovato un po’ troppo... a sinistra.»

«Dici? Interessante.»

«Quasi comunista.»

«Ah, ecco.»

«... e poi, permettimelo, mi sembra che tu abbia un chiodo fisso con questa storia della società civile che smembra l’individuo.»

«Lo penso.»

«È una visione da hippie, in fondo.»

«Come preferisci, Lirio.»

«Dovresti uscire da questa visuale, ne va della tua ispirazione. Prendi me: ho scritto una storia che si serve di metafore, di musica rock, arrivando alla nuova dimensione dell’amore in un’epoca difficile come la nostra.»

«Bravo Lirio, ma voglio ricordarti che io ho 642 euro in banca.»

«Eh... come? No, non ti seguo.»

«Ti ripeto che dispongo unicamente di 642 euro in tutto. In quarantacinque anni di permanenza al mondo; fanno circa 14,59 euro l’anno. Uno stipendio basso per il mestiere di vivere, considerando che non avrò nessun accesso a una qualsivoglia forma pensionistica e che al momento sono disoccupato.»

«Continuo a non seguirti... so che stai vivendo un periodo arduo, ma la letteratura dovrebbe prescindere da questo.»

«Tu puoi prescindere da 642 euro, io no. Ecco la differenza di approccio, Lirio. La società civile è un voyeur che apre furtivo l’impermeabile mostrando soddisfatto le sue miserie nude al parco, davanti alle coppiette ignare che si baciano con le lingue in evidenza, tipo bisce. Io così la vedo e così la vivo.»

«D’accordo, sarà come dici... a ogni modo, voglio dirti che tra cinque giorni, nella saletta gialla della libreria Leggi Consapevolmente presenterò il mio libro, con il giornalista Fuco Vinazzani, già amico di Saviano, il musicista Antoine Ragade, già amico di Pino Daniele, e il regista Golfauro Capri, che giocava a calcetto con Paolo Sorrentino.»

«Referenze con i controcazzi, accidenti. Resta che io ho 642 euro, dunque tu non puoi capire che la società civile...»

E continuiamo così per minuti e minuti, ognuno con le sue ossessioni, ognuno con i suoi conti aperti, senza ascoltarci, senza comunicare nulla, senza fottercene realmente l’uno dell’altro. Così funziona.

Quando chiudo la comunicazione, il porto in basso alla città è completamente nascosto da una caligine che puzza di arrosto, fissazioni. E che porta profumi femminili senza dolcezza, senza maternità, senza complicità. Quei profumi utili solo alla libido e alla rabbia da convogliare.

Lo scopo della mia giornata sarà allora quello di ragionare su questi 642 euro e sulla mia condizione. Analizzare ogni aspetto e poi consolarmi con quella canzone dei Thin Lizzy che mi rende così erotico, Showdown.

Quando Phil Lynott attacca con

Johnny Cool was the king He was the leader of the boot boys He’d never cause no trouble In a rumble make some noise

He heard about some chick And they way she likes to rock He said, «Come here honey Let me see you lift up your frock»

Ebbene, allora mi gonfio come un adolescente e sento di valere di più dei 642 euro+40 di argent de poche di questi giorni. Voce e basso di Phil Lynott sono la mia società civile privata, ne ho costruite tante, quante sono le canzoni che mi regalano il fil di ferro per l’anima e la resistenza.

Cocincina

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