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I.

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La notte che seguì al più grande avvenimento della sua vita, Fausto Bragia non potè chiuder occhio. Rievocava i più minuti particolari del fatto, insistentemente ripetendo:

— Possibile? È vero? — E si sentiva invadere da gioia quasi dolorosa. Non aveva sognato! Non era pazzo! Da cinque ore, la signora Ghedini, la impeccabile, la non mai sospettata signora Ghedini, era proprio sua amante!

Steso, ancora vestito, supino sul letto, con le mani sotto la testa e gli occhi socchiusi, respirava ansante per l'interno tumulto, e si abbandonava alla dolce sensazione d'appagamento e di felicità che lo prostrava e lo rendeva inerte.

Gli aveva gettato lei le braccia al collo, tutt'a un tratto! Gli si era mezza svenuta sul petto, balbettando: — Fausto! Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! — Ed egli non avea saputo risponderle niente, sbalordito dall'inattesa e incredibile rivelazione, pauroso di quella buona fortuna che cangiava, di punto in bianco, la misera tristezza della sua vita di maestro di musica senza avvenire in gioia così grande da sembrargli piuttosto insidia per farlo ripiombare più basso.

E ancora caldo dei baci di lei, col sangue che gli affluiva ardentemente al cuore e al cervello, senza parola, senza movimento, continuava a tener chiusi gli occhi per meglio fantasticare e anche per tentar di calcolare le conseguenze di quell'atto. Era un primo passo nella via della ricchezza e della gloria, via dove fino a cinque ore avanti egli credeva che uno sventurato come lui non avrebbe messo mai piede?

Tutta la sua vita di mortificazioni, di umiliazioni, di stenti gli vertiginava nella memoria, quasi volesse dirgli: Finalmente!

Il padre morto quando egli aveva appena quattro anni; la madre passata a seconde nozze, infelice anche lei e impotente a dar aiuto al figliuolo affidato a uno zio prete, che gli faceva apprendere la musica e il canto per avere gratis un cantore e un organista nella sua chiesuola; poi, la meschina pensione concessagli dal Consiglio comunale per proseguire gli studi musicali in Firenze; e le angosce, le privazioni, quando il pagamento di essa, spesso ritardato, gli faceva passare giornate senza pane che nessuno aveva mai saputo perchè l'orgoglio era stato in lui più forte assai della fame.

Eppure, allora, pieno di fede nel suo ingegno e nell'arte, studiava, studiava, lusingato dal miraggio della gloria che gli acchetava talvolta fino i tormenti dello stomaco vuoto! E a ogni nuovo trionfo di opere musicali di grandi maestri viventi, a ogni lieto successo di giovani ignoti, per cui si appassionavano giornali, amatori e pubblico, egli sognava il suo primo buon successo e poi altri e poi altri, e non dubitava che il suo nome non sarebbe stato un giorno famoso e popolare come quelli del Verdi e del Gounod, e anche vicino a quello del Wagner, stimato più eccelso.

Avea dovuto presto disingannarsi!

Non che la gloria, non era arrivato per lui neppure quel tanto di materiale benessere da non farlo più vivere di fame, com'era vissuto tant'anni. Lasciando il Conservatorio, si era trovato in mezzo alla società simile a un uomo smarrito in una foresta e incapace di aprirsi un'uscita. Avea dovuto lottare continuamente con le stesse privazioni, con le stesse umiliazioni. Gli abiti che gli si spelavano addosso gli avevano impedito non solo di frequentare le persone che, probabilmente, avrebbero potuto aiutarlo, ma anche di accettare lezioni in case signorili dove avrebbe dovuto esporsi alle irrisioni della servitù. Poi, cosa più dura e più triste, si era sentito venir meno di giorno in giorno la volontà di studiare, di lavorare, e inaridire nella fantasia e nel cuore la limpida vena dell'ispirazione musicale, servita unicamente a procurargli qualche inutile trionfo fra una ristretta cerchia di conoscenti e di amici. Le sue melodie, difficili pei dilettanti di canto, non trovavano un editore!

Ah, quegli anni interminabili, senza un raggio di sole spirituale, senza conforti di solide amicizie, senza speranze! E intanto che gli si andava spegnendo in cuore l'unica consolazione rimastagli, l'amore per l'arte, come gli si erano rinfocolate dentro tutte le avidità della vita, tutte le ambizioni, tutte le aspirazioni materiali, quasi la povertà e l'abbandono gli acuissero più fortemente i bisogni della giovinezza, dell'organismo ben costituito, della avida intelligenza, del cuore assetato di affetti!

Era, a poco a poco, divenuto cattivo, invidioso, maligno, allo spettacolo della ingiustizia sociale per cui tanti e tanti che valevano, come uomini e come artisti, assai meno di lui, avevano potuto farsi avanti, formarsi una famiglia, ottenere un posto e ricevere onori immeritati. Li enumerava a uno a uno, se li schierava dinanzi per convincersi che il torto non era tutto suo se ormai non scriveva più una nota, se non ruminava più, come prima, romanze, sinfonie, opere intere, per tener vivo, almeno nel suo intimo, il sacro fuoco dell'arte.

— Attendere? Perchè? Non aveva atteso a bastanza?

A trent'anni si sentiva già vecchio, rifinito.

Quando era costretto a suonare le sue composizioni nel salotto dell'ingegnere Ghedini, per poco non gli sembrava che quei lavori appartenessero a un altro sè stesso, morto da parecchio tempo; gli occorreva un po' di sforzo per persuadersi che non mentiva dicendo che erano suoi.

Non entrava mai in quel salotto senza riflettere con amarezza che la gratitudine gl'imponeva d'andare a rappresentarvi la parte infima del buffone che diverte la brigata. L'ingegnere, che gli avea fatto l'elemosina di due camere nel proprio palazzo in via Nazionale, chiudendo l'uscio di comunicazione col resto dell'appartamento perchè il suo ospite fosse libero affatto, gli faceva spessissimo anche l'elemosina del pranzo! Aveva voluto così aiutare il figlio d'un amico e collega carissimo, morto nella miseria dopo varie fallite intraprese ferroviarie che avevano arricchito i suoi socii più scaltri di lui; e non gli era mai balenato alla mente quale atroce tortura quella sua generosità infliggesse a colui che doveva riceverla con la convinzione di non poter mai rimeritarla, e che la chiamava elemosina per rendersi più evidenti la desolazione del presente e l'orrore dell'avvenire.

Coloro che lo vedevano pallido, scarno, con gli occhi infossati e tanta tristezza nello sguardo e tanta ironia nella parola, pensavano che il fuoco dell'arte lo consumasse; e non badavano al ristretto repertorio delle sue composizioni ripetuto tante volte. Alle domande: — Maestro, che prepara? A quando la sua opera? — egli rispondeva scotendo il capo, sorridendo con quel sorriso stanco ed equivoco che non si capiva bene se fosse d'amor proprio lusingato, o di sconforto, o di disprezzo per chi osava insultarlo con tali importune parole. E allorchè l'ingegnere Ghedini, presentandolo a qualche nuovo arrivato, e levando a cielo l'ingegno musicale del suo amico, figlio d'un amico carissimo — non dimenticava mai di ripeterlo — mostrava immensa ammirazione pel giovane compositore e gli prognosticava splendidi successi, Fausto s'irritava. L'elogio e gli augurii non provenivano forse dalla vanità di far risaltare la propria generosità mostrandola ben adoprata? Per ciò egli si teneva sempre in disparte nel salotto, conversando sotto voce col giovane dottor Anguilleri, un po' orso anche lui; e di rado si mescolava alle animate discussioni d'ogni genere che la politica, l'arte, gli affari e gli avvenimenti mondani vi suscitavano, tutti i lunedì sera, negli affollati ricevimenti. Per ciò egli era grato alla signora Ghedini che pareva non accorgersi del suo ospite più di qualunque invitato, o amico, o frequentatore, quantunque non mancasse di mostrarsi entusiastica ammiratrice quand'egli cantava con voce fioca, ma perfettamente intonata, e con accento efficace, quella romanza che era il suo capolavoro, la Misera sei del Heine, degna di star accanto al Non t'odio, no! dello Schumann, di cui si poteva dire ben riuscita derivazione e compimento.

Entusiastici scoppiavano sempre gli applausi degli uditori; ma erano effimere soddisfazioni che gli procuravano di rado qualche lezione, che non gli aprivano nessuna strada a un posto qualunque, che non lo tiravano fuori di quel circolo incantato in cui pareva lo tenesse prigioniero una malefica potenza. E Fausto talvolta si compiaceva di sapervisi chiuso per scusare così l'inerzia, e il torpore rimproveratigli spesso dal dottor Anguilleri.

— Quando, finalmente il mio ingegno sarà morto e sepolto.... allora, forse!.....

Questo desolato: Allora, forse!.... egli aveva avuto occasione di ridirselo frequentemente negli ultimi mesi; e la sera avanti lo aveva ripetuto, insolito sfogo, a una bella signora recentemente conosciuta e che pareva interessarsi molto di lui, chi sa perchè! Probabilmente — egli pensava col suo eterno sospettare di tutto e di tutti — per farsi credere esperta di cose musicali più delle sue amiche che conversavano con deputati e senatori, che si lasciavano corteggiare da banchieri e da grossi appaltatori, per sordidi intenti — soggiungeva — se a lui, artista e povero, rivolgevano appena la parola.

Quella volta si era sfogato con tale violenza, gesticolando, alzando la voce, facendo scintillare negli occhi neri e profondi il gran rancore tanto tempo represso, che parecchi, cessando di conversare, si erano voltati verso l'angolo del salotto dove egli e quella signora sedevano in disparte, accanto al pianoforte. Si era voltato, all'improvviso silenzio, anche lui.

— Quel breve istante ha deciso della mia sorte! — rifletteva.

E, tornato così al punto di mossa della sua rapida rassegna retrospettiva, riprendeva a osservare con voluttà la scena che gli si ripeteva davanti agli occhi.

La signora Ghedini lo aveva guardato stupita e imbarazzata di vederlo uscire dall'abituale riserbo; poi, staccatasi dalle persone da cui era circondata, accorreva per fargli intendere — così gli era parso — la sconvenienza di quella tragica sfuriata, indovinata più dai gesti che dalle parole, tra i rumori dell'animatissima conversazione.

Invece!... Molto strano infatti gli era sembrato il contegno di lei: voce esitante, turbata; sguardi che pareva cercassero di penetrare lui e l'amica; sorriso freddo e doloroso... E le parole: Oh, non credergli! È artista e posa, come tutti gli artisti!

Stupido! Non che comprendere subito, si era anzi sdegnato, pensando che, con quell'apprezzamento fuori luogo, la signora Ghedini poteva fargli perdere la lezione fattagli sperare da quella signora all'uscita di collegio della sua figliuola. Stupido! E non si era accorto che gesti, voce e parole rivelavano — ella glielo aveva spiegato il giorno appresso — un sentimento di gelosa protezione, di difesa contro le seduzioni della Morlacchi, improvvisa e temuta rivale, persona di pochi scrupoli e avida delle avventure in cui il pretesto dell'irresistibile fascino dell'arte può facilmente velare un volgarissimo e passeggero trasporto di sensi!...

Che poteva saperne lui? Conosceva appena quella signora. E come mai sospettare che Paolina — già la chiamava così — la cui condotta non avea dato, fino a quel giorno, niente da ridire alla malignità della gente; donna di quarant'anni che, a guardarla, pareva la tranquillità e la saggezza in persona, con quel viso dolce e calmo, con quegli occhi sorridenti più delle stesse labbra quando esse sorridevano, con quella voce flautata che ingentiliva ogni cosa da lei detta, con quell'accento che copriva di benevola indulgenza fin le osservazioni più nude; come mai sospettare che Paolina covasse da lungo tempo un'ardente passione per chi non aveva fatto mai niente per meritarsela, e si era tenuto sempre in distanza da lei? Non aveva egli coinvolto anche lei in quel sordo rancore d'ingratitudine contro la discreta cordialità del marito che, per fargli accettare l'ospitalità, gli aveva fin detto: — Pagherai la pigione, quando potrai? —

Ed ecco: il maleficio che gli aveva amareggiato infanzia e giovinezza, e che stava per soffocargli nella mente ogni ideale d'arte dopo avergli soffocato ogni buon sentimento e ogni elevata ispirazione nel cuore, ecco, il terribile malefizio era già rotto finalmente!

Con la miracolosa virtù delle avvampanti parole: — Fausto, Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! — gli era scaturita, tutt'a un tratto, nel cuore una limpida polla di affetto! E avrebbe voluto alzarsi da letto e guardarsi nello specchio per osservare il prodigio di ringiovanimento che doveva certamente essere avvenuto anche nella sua persona. Si sentiva rinvigorito, leggero, rifatto dentro e fuori dal tocco di quelle labbra bacianti, dalla stretta di quelle braccia che lo avevano cinto e premuto sul seno per non lasciarselo sfuggire più!

— Possibile! È dunque vero?

Non poteva frenarsi di ridomandarselo, supino, immobile con gli occhi serrati, in quella nottata che gli parve di pochi minuti quando la luce dell'alba cominciò a rischiarare la stanza dai vetri della finestra di cui egli avea lasciato aperti gli scuri.

Fausto Bragia, e altre novelle

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