Читать книгу Fausto Bragia, e altre novelle - Luigi Capuana - Страница 7

III.

Оглавление

Il dottor Anguilleri, sdraiato in una carrozzella da nolo, montava lentamente la ripida salita delle Quattro Fontane, quando scorse Fausto sul marciapiede, con le braccia dietro la schiena, il capo basso, il viso rannuvolato. Gli accennò con una mano e fece fermare il legno.

— Accompagnami; tu non hai mai niente da fare. Come sei brutto oggi! Non ti consiglio di presentarti così alla tua amante; le faresti paura.

Fausto, sedendogli a lato, rispose soltanto:

— Dammi una sigaretta.

Nel porgergliela, il dottore lo guardava in faccia con sorrisino beffardo:

— Se gli amori vanno male, figuriamoci la musica!

— Chi te lo dice?

— Posso ingannarmi, forse, intorno agli amori; ma riguardo alla musica, no. Da vero amico, dovrei scapaccionarti peggio d'un ragazzo.

— Oh, non seccarmi con le tue prediche!

— Se lavorerò! Mi sento già diventato proprio un altr'uomo! — riprese il dottore, contraffacendone la voce e il gesto. — Sei imperdonabile!

— Sono un disgraziato!

— Senza energia, senza volontà!

— Tu discorri bene! Vivi tranquillo; hai un posto, sarai professore e andrai anche più in su: nè conto che tuo padre ti ha dato in mano una professione con cui, fin ammazzando la gente, puoi guadagnare quattrini a palate.

— Questo non ti scusa.

— Non voglio scusarmi, ma spiegarti...

— Col tuo ingegno, a quest'ora!... Se tu non avessi coscienza del tuo valore, non ti direi niente; tu però sai quel che vali, quel che puoi. Sei fiacco, sei poltrone; non mi stancherò di rinfacciartelo.

— Sono un disgraziato! Come non lo intendi? Che vuoi tu che faccia? Mi manca il terreno sotto i piedi. Non ne parliamo più, è finita per me; sono incretinito. Ieri c'è corso poco che non stracciassi l'abbozzo dei primi due atti della Venere infernale. Chi ha scritto quella musica non esiste più! Non ho potuto aggiungervi una sola nota... da mesi. E rileggendo al pianoforte il risveglio di Venere, quando la statua della dea sente il fremito della vita animare il suo bel corpo di marmo — a te posso dirlo, non puoi credermi un vanitoso — ho pianto!... È finita! È finita! Perchè non mi butti nel Tevere, non lo capisco io medesimo...

— E l'amore che pareva dovesse fare il miracolo?...

— È diventato un gran guaio; non ne posso più. Mi ero lusingato....

— Manda al diavolo quella donna.

— Non è facile; e questo è il peggio!

— Perchè?

— Perchè... Non ne parliamo.

Erano arrivati in Piazza Vittorio Emanuele davanti all'Istituto di Sanità, dove il dottor Anguilleri lavorava nella sezione battereologica.

— Vieni su, ti distrarrai, — gli disse.

— Tra i microbi? No; mi fanno schifo.

— Manda al diavolo costei, e mettiti a lavorare! — ripetè il dottore che gli voleva molto bene e ne ammirava assai l'ingegno.

Fausto gli strinse la mano e tornò addietro a piedi, riflettendo accoratamente che l'Anguilleri non aveva torto. In che modo poteva egli romperla? Abbandonando quelle stanze, aggravando così la sua trista situazione? S'era lasciato irretire e non sapeva come distrigarsi. Gli mancava il coraggio di dire a quella povera donna: — Non t'amo più! —

— L'avea mai amata? Ella già dubitava; eppure gli si aggrappava addosso, come una naufraga, pazza di amore addirittura, decisa a commettere qualunque enormità! Non c'era verso di liberarsi di lei senza produrre uno scandalo. E intanto, maligna sorte! egli intravedeva che, forse, senza quest'impiccio, senza questo legame... Ah, che vita! Che tortura!

Trasalì, vedendo quasi accoccolata sul canapè la signora Ghedini che lo attendeva. Pallida, con gli occhi rossi dal pianto, lo guardava fisso fisso, quasi per leggergli nell'aspetto il segreto che la desolava.

— Donde vieni? — domandò con accento represso, continuando a fissarlo.

E visto ch'egli non rispondeva, riprese:

— Lo so; vieni dalle Merlacchi: dài lezione a sua figlia, e non me n'hai detto niente. Perchè non me n'hai detto niente?

— Ti ho mai parlato delle mie lezioni?

Al tono secco della risposta, la signora Ghedini si levò da sedere e gli andò incontro, strizzandosi le mani dall'angoscia.

— Eppure tu sapevi che questa lezione non avresti dovuta accettarla!

— Per quale ragione?...

— Perchè sapevi che avrebbe fatto gran dispiacere a me.

— Non credevo. E poi, sono proprio in circostanze di rifiutar lezioni!

— Io dunque non conto niente per te?

— Molto; ma...

— Sono gelosa, Fausto!

— Di chi?

— Della madre e della figlia; mi hanno parlato dì te come due innamorate... Sono gelosa!

Fausto, buttato il cappello sul letto, si mise a sedere su la seggiola che stava in mezzo alla camera, tra lui e la signora Ghedini. Gli balenava negli occhi il dispetto di sentirsi scoperto in fallo. Abbassò la testa, mordendosi le labbra, e balbettò:

— Debbo pure trovar da vivere!

— Voglio essere io la tua vita, vita dello spirito e del corpo! — esclamò la signora Paolina.

— No. Sarei un vile, se da te accettassi qualcosa oltre il tuo amore; no! no!

— T'amo così, nobile e altiero. Ah, se tu compissi la Venere infernale! — ella soggiunse dopo breve pausa, posandogli una mano su la spalla e accarezzandogli la testa con l'altra. — Io vorrei soltanto anticiparti un sussidio come potrebbe fare un impresario, un editore...

— No.

— Mi restituiresti tutto, dopo; anche con gl'interessi. Speculazione, calcolo; qui l'amore non c'entra...

— No, mai!

— Se tu m'amassi come io t'amo, parleresti altrimenti. Fausto, Fausto!

E vedendolo restar là, duro e immobile, subito si strinse al petto quella cara testa arruffata, e la coprì di baci, chiedendo perdono, quasi la colpevole fosse lei, e fosse lei l'ingrata che disconosceva tanto amore e tanta passione, ingiustamente gelosa.

Così cominciò la serie delle dolorosissime scene che divennero sempre più strazianti per lei e più opprimenti per Fausto. Fausto non sapeva perdonarle in nessun modo l'aver indovinato!

La signora Merlacchi, involontaria origine di quella avventura, un giorno gli era tornata all'improvviso in mente, quantunque l'avesse imbattuta in casa Ghedini due sole volte da quella sera in poi, e non l'avesse più riveduta da un pezzo. Gli era tornata in mente per contrasto; una donna facile, e abituata come lei alla vita di amante, sarebbe stata assai più comoda: gli avrebbe dato la soddisfazione di poterla amare in pubblico, senza paura nè ritegni, e senza l'incubo di vedersela dinanzi tutti i momenti e sentirsi, tutti i momenti, mentitore o vigliacco. E poi non lo avrebbe impacciato troppo il giorno della crisi finale.

Per ciò una mattina s'era presentato in casa Merlacchi con un pretesto, e s'era visto accogliere con cordialità grandissima, quasi con entusiasmo.

— Pensavo appunto a lei, — gli aveva detto la signora, sgranandogli in faccia gli occhi sorridenti. — Cornelia è tornata di collegio e voglio che il suo maestro di pianoforte sia lei.

E lo aveva presentato alla figlia. Non meno cordiale, nè meno entusiasta della mamma, Cornelia lo guardava curiosamente da capo a piedi, mentre diceva:

— La mamma mi ha parlato tanto di lei e delle sue composizioni! Capilavori, dice la mamma, e le credo; mi auguro di poterli ammirare presto anch'io.

Affascinato, Fausto avea smarrito a un tratto il suo orgoglioso riserbo. In quel salottino semplice ma elegante, si era sentito a suo agio, aveva avuto un attimo di scintillìo artistico, inganno che gli fece perdere la testa.

Bella e ardita era la mamma; bella e civettolina la figlia.

Dopo tre settimane, era parso a Fausto che le due donne se lo contendessero. Un giorno la mamma, più esplicita nelle sue dimostrazioni, gli aveva dichiarato:

— Per me, soltanto gli artisti contano al mondo; soltanto essi possono avere un cuore traboccante di affetto. Se mia figlia volesse sposare un artista, io non mi comporterei come tant'altre mamme scioccamente interessate.

Fausto ringraziò mutamente, abbassando il capo.

— C'è però artisti e artisti, — soggiunse la Merlacchi. — Le ragazze spesso non sanno distinguere.

E col languore degli occhi disse il resto.

Imbarazzato, Fausto fece le viste di non aver compreso.

Oh, non si sarebbe mai prestato a mercato simile! Non avrebbe mai ricevuto dalle mani dell'amante colei che poi doveva essere la dolce compagna della sua vita!

Un amaro sorriso gli era spuntato su le labbra a tanta rigidezza di sentimenti.

— Rigidezza superflua! Che? Già commetteva la scempiaggine di lusingarsi? Eppure...! Eppure!

Gli sfoghi gelosi della signora Paolina gli diedero il tracollo; ed egli si convinse, con poco sforzo, che la cosa non era poi tanto difficile.

— Quella mamma è una sventata!... Lusingandola, forse...

Un viluppo di progetti, di disegni, di strattagemmi, gli si agitò giorno e notte nella mente, e servì a rinfocolare la sua stizza, il suo astio, la sua ingratitudine contro di colei che pur gli avea dato, e spontaneamente, l'unica consolazione, l'unica soddisfazione di amor proprio che egli avesse mai avuta; contro di colei che, smaniante, gli ripeteva tutti i giorni:

— Dimmi che cosa vuoi ch'io faccia per te; son pronta a tutto!

E non esagerava.

Fausto invece s'impensieriva di quegli slanci eccessivi. Ora toccava a lui di raccomandarle insistentemente: Prudenza! E per calmarla e per impedirle di compromettersi e di comprometterlo, le diceva spesso:

— Tuo marito non è un imbecille. Bada! Mi scannerebbe.

Le agitava questo spauracchio davanti agli occhi; e diceva soltanto: — Mi scannerebbe — perchè ella gli aveva dichiarato una volta che non le importava niente di morire per lui. Poi, quando la vedeva continuare nelle meticolose cautele che difendevano la loro relazione anche dagli sguardi più indiscreti, all'opposto, egli s'irritava. E una volta, dopo una trista scena in cui era rimasto vinto dalla fina dialettica della donna resa perspicacissima dalla passione, sorpassò ogni limite, la calunniò, pensando:

— Ha scelto me appunto per avere un amante che le permettesse di conservare la ipocrisia delle apparenze in faccia al marito e alla società! Senza queste stanzette, senza l'agevolezza di poter soddisfare i sensi e la pubblica morale assieme, non si sarebbe neppur degnata di gettare uno sguardo su questo meschino maestro di musica! Finge così bene al cospetto degli altri, che niente m'assicura che non finga, per egoismo, anche con me. E ieri esclamava: Credi tu che il fingere non mi pesi? — Chi le diceva il contrario? Scusa non chiesta, accusa manifesta.

E si compiaceva, come di provvido istinto, del non aver mai potuto amarla; e qualificava lucida antiveggenza la propria aridità di cuore. In che gli era giovata colei? A distrarlo, a spossarlo, a immiserirgli anima e corpo, a ridurlo vilissimo schiavo!

Un fiotto di bile gli attossicava la bocca e gli annuvolava la vista.

Rivedeva intanto con l'immaginazione il salottino delle Merlacchi, le smancerie della mamma, le graziose civetterie della figlia, e si sentiva crescere, crescere in cuore la lusinghiera speranza...

— Perchè mai quella speranza non potrebbe un giorno o l'altro divenire dolcissima realtà?

Socchiudeva gli occhi, sorridendo a quei nuovi albori che gli luccicavano in fondo al cuore.

Era andato a trovare il dottor Anguilleri per sfogarsi e dirgli:

— Avevi ragione prognosticandomi la sorte del protagonista della mia Venere infernale!

Lungo i deserti corridoi del laboratorio della Sanità, andando dietro all'usciere che lo guidava, Fausto si era sentito penetrare da un triste senso di quiete, misto con lieve turbamento di paura.

Il dottor Anguilleri, davanti alla finestra, seduto a una lunga tavola ingombra di boccette e di tubi di vetro, guardando attentamente dentro il microscopio, aggiustava con una mano le lastrine di cristallo raccomandate alla molla sul sostegno metallico bucato nel centro, e coll'altra cercava di mettere in foco l'obbiettivo.

— Scusa, — gli disse senza scomporsi: — è affare di un minuto.

Fausto girava sospettosamente lo sguardo attorno. Quegli strani apparecchi gli davano una sensazione di malessere, di ripugnanza; sensazione che si aumentò dopo che l'amico dottore, invitandolo a guardare nel microscopio gli disse:

— Sono baccilli del carbonchio, ingranditi due mila volte.

Poi, mostrandogli un tubetto di vetro dal fondo arrotondato, chiuso con un tappo involto nella bambagia, e con dentro parecchi sottilissimi fili di seta gialla, soggiunse:

— E queste sono le spore di codesto bacillo, che possono mantenersi vive molti anni, se tenute in completo essiccamento.

— Non c'è' pericolo?... — domandò Fausto, allontanando la mano del dottore che gli aveva accostato il tubetto a poca distanza dagli occhi per farglielo osservare alla luce.

Il dottor Anguilleri sorrise.

— È imprudente venir qui — esclamò Fausto.

— Appunto, non mi hai detto qual buon vento ti mena.

— Passavo... e son salito a salutarti.

Fausto, pentito d'essere venuto in quel luogo, voleva andarsene subito; ma il dottore lo trattenne per forza:

— Giacchè sei qui, devi vedere ogni cosa.

E cominciò a indicargli partitamente ampolle di brodo sterilizzato per la coltura dei baccilli, tubetti con baccilli d'ogni sorta: della tubercolosi, del tetano, del tifo, della difterite, dell'edema maligno; tubetti con lo spirillo del colera, col cocco dell'erisipola; piccolo saggio d'ognuno di essi, perchè la copiosa raccolta era conservata in uno stanzino a parte. E ve lo condusse.

— Bisogna difendere le coltivazioni dalla luce; perciò lo stanzino ha le pareti tinte in rosso cupo ed è tenuto sempre allo scuro.

Fausto, affacciata la testa dall'uscio, si ritrasse subito indietro. Tutti quei bicchieri, pieni di tubi e schierati in fila su le scansie lungo il muro, gli facevano correre brividi di freddo per le ossa.

Intanto il dottore, cedendo al suo entusiasmo di giovane scienziato, dava lunghe spiegazioni. Preso da un bicchiere un altro tubo di spore del carbonchio e osservandolo per conto proprio, lo agitava, lo teneva levato in alto contro luce, quasi facesse in quel punto una lezione intorno all'incredibile resistenza di quelle spore e alla loro terribile potenza:

— Introdotte col cibo, esse riescono ad oltrepassare lo stomaco dove gli altri batteri vengono uccisi dalla acidità; e sviluppatesi in baccilli, invadono tutto l'organismo. Allora, abbattimento di forze, emorragie, sordi dolori negli organi addominali e, in pochi giorni, la morte, seguita da rapida putrefazione che rende nero il sangue, diffluente, cioè incapace di coagularsi...

Fausto non lo udiva più.

Una diabolica idea gli era balenata nella mente, ed egli si spaventava di sè medesimo vedendosi capace di concepire — di concepire soltanto — quella idea! La fronte gli si era coperta di sudorino ghiaccio; il cuore gli balzava violentemente nel petto; la terribile idea, tornando a balenargli nella mente, lo faceva rabbrividire, ma lo costringeva a fissarla; e lo faceva rabbrividire anche il sospetto che essa potesse impadronirsi di lui e soggiogarlo fino al punto...

Si riscosse, si passò più volte le mani su la faccia, e interrompendo il dottore, che continuava le spiegazioni senza accorgersi di niente, disse:

— Lasciami andar via, mi fa male star qui...

— Ecco gli artisti! — esclamò il dottore, ridendo. — Gente nervosa, razza inferiore! Senti: dovresti fare la Sinfonia dei baccilli! Qualcosa di grandioso e di terribile, se tu sapessi farla. E farla sapresti certamente, ma non la farai. Ormai son convinto che non farai più niente. Peccato!

— La Sinfonia dei baccilli! Sarebbe ridicola... — rispose Fausto, sforzandosi di nascondere il turbamento.

— Via, la Sinfonia della Vita e della Morte, che, se tu non lo sai, son tutt'una! Ma non farai nemmeno questa! Non farai più niente! Peccato!

Fausto Bragia, e altre novelle

Подняться наверх