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LA CANZONE POPOLARE.

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Ciascuno vivendo della vita comune, ha una vita propria; e chi la trova nel pensiero, chi nell'arte, chi nel desiderio di gloria. Il popolo, questa grande parte dell'umanità, non conosce ancora la lotta dell'idea, nulla sa di arte e lo splendido fantasma della gloria non gli apparisce—eppure il popolo è l'uomo; l'uomo che soffre, ama, è felice, infelicissimo e deve avere una vita sua, una sua speciale manifestazione. L'ha; ed è il canto. Canta dappertutto—certo dove il sole lo riscalda, dove la luce lo inonda, dove il mare unisce la sua voce, il popolo canta di più, ma nel freddo e nebbioso nord, in quell'atmosfera grigia, il canto popolare si eleva a menomare la tristezza della vita; le strade della città ne echeggiano, come le vallate della campagna; e lo stesso contadino che lavora nelle fatali paludi Pontine, scaccia il pensiero della morte col canto. In ogni stagione il popolo canta: nelle sere solitarie dell'inverno è una voce lontana, fievole, che si perde poco a poco nella distanza; nel risveglio della primavera, nella ricchezza dell'estate, è un concerto che sale da tutte le parti, che vi obbliga a spalancare le finestre ed a lasciare entrare la gioia del popolo; nell'autunno è un sospiro, un addio al bel tempo che parte!

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La canzone popolare non si definisce, essa si sottrae all'arida spiegazione della scienza; è una cosa vaga, fuggevole, senza contorni determinati, evanescente. È tutto ed è nulla; è un soffio leggiero e può diventare una leva potente; brilla di tutti i colori dell'iride, si crede che sia una perla ed è una bolla di sapone; donde viene non si sa, dove va non si conosce; può morire, ma può anche risuscitare; ha una fragile esistenza e la si vede resistere all'urto degli avvenimenti ed al trascorrere degli anni. In essa si ritrova lo spirito multiforme del popolo; è gaia, vivace, dal ritornello allegro, dalle battute affrettate e rapide; è malinconica, dalle note lunghe e cadenzate con un pensiero mesto che ricompare ogni tanto; talvolta è burlesca, vi si sente lo scoppiettìo del sarcasmo ed il fischio dell'ironia—ed infine, con una profonda ed inconsciente filosofia unisce spesso parole dolenti ad un motivo brillante. È un lamento, una risata, un sogghigno, un bacio; l'espressione di un momento, la durevole rappresentazione di un sentimento rapidissimo; è una idea complessa ed energica che ha bisogno di svolgersi con la parola e con la musica. Senza sapere la prima bocca che l'ha intuonata, la canzone si propaga in un momento, diventa la proprietà del popolo, e se essa ha saputo cogliere bene l'idea ed il sentimento, sopravvive lungamente, forse più che nella classe degli intelligenti un'opera di grande maestro.

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Vi si parla quasi sempre d'amore. Amore diverso dal nostro, ci s'intende; amore grossolano e che può giungere a certe delicate espansioni, sognate solo dalla fantasia del poeta; amore che dona egualmente un garofano ed un colpo di rasoio: amore che non s'inchina, non porta guanti e suona per ore intiere la chitarra sotto la finestra dell'amata; amore che quando vi s'inframmette la gelosia, diventa passione; amore che è sboccato, villano, ed intanto riempie di matrimoni i registri dello stato civile. Esso ispira le canzoni popolari: vi si narrano le gentili speranze della corrispondenza, il dolore per la indifferenza, l'affannoso tormento della gelosia, le pene del disinganno e dell'abbandono; tutta la profonda variabilità dell'amore prende forma in quella musica. Vi sono canzoni per augurare la buona notte, canzoni per ridestare una cara e pigra dormiente, canzoni per rimpiangere una giovinetta morta; spesso, rinnovando le romanze degli antichi trovieri, vi è un dialogo fra l'uomo e la donna, in cui volta a volta cede l'una o l'altro, ed il vincitore è sempre l'amore. La medesima idea della morte, questa idea che fa impallidire i più forti, nella canzone sembra dolcissima; ivi è detto come bellissima cosa sia morire davanti la porta della donna amata, e questa frase che riassume l'amore e morte di Leopardi, è accompagnata da un motivo così lento e triste che vi mette nell'anima un desiderio insolito di pace e di silenzio, un arcano struggimento dell'ultima ora.

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Al popolo nessuno parla di patria e di libertà, nessuno gli dice che ha dei diritti, nessuno gli suggerisce la parola eguaglianza; il popolo non sa la storia e niuno cura d'insegnargliela, eppure il popolo si solleva, combatte, cade, risorge, è glorioso: una canzone patriottica lo ha infiammato, ne ha risvegliato il valore e sostenuto il coraggio. Nel 1860 vennero fuori mille canzoni di guerra, senza sapere chi ne avesse gettata la prima nota; al loro suono sorgevano i soldati dalla terra, i giovani ed i vecchi sentivano per le vene un fremito, i cervelli si mettevano in tumulto, le mani correvano all'armi; e si moriva, si moriva con la gioia negli occhi ed il canto sul labbro. Anche adesso, dopo tanti anni, dopo che l'Italia è compiuta, dopo che tante febbrili illusioni sono svanite, al risentire quei canti gli occhi si riaccendono ed il cuore si solleva. Bonaparte il grande, prima d'inebbriare i suoi soldati con la polvere ed il fuoco, li inebbriava con le canzoni popolari; è la canzone popolare che, insieme alle teorie dei filosofi, crea la presa della Bastiglia e la rivoluzione francese; essa è un'arme contro il tiranno, contro il cattivo governante, un'arme che vale più del fischio, più dell'urlo, più della pietra; perchè il fischio, l'urlo, la pietra significano l'individuo e la canzone significa la massa, il numero e la forza.

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Si è detto, ed anche da un ingegno illustre, che il popolo non è vero poeta, massime il popolo napoletano. È così: l'elemento poetico delle canzoni è scarso, a lampi, il senso spesso ne diviene incomprensibile—talora sono frasi, parole accoppiate senz'ordine e senza significato. Ma nell'elemento musicale è la grande rivincita, nell'elemento musicale ricchissimo di melodia e di espressione; tutto quello che la poesia non dice, la musica lo interpreta e lo rende, schiudendovi un orizzonte largo, immenso, dove la fantasia può meglio spaziare che nello stretto giro della parola. La cantilena del marinaio vi giunge senza che possiate ascoltare quello che egli dice, eppure vi parla del dolore della partenza, del lungo viaggio in paesi ignoti, dell'ansia del ritorno; quando sulla barchetta al largo, si canta di Santa Lucia, voi senza saperne nulla, indovinate, al sentirne solo il ritornello, tutta quell'allegra vita sotto il sole caldo, nel profumo del mare, nelle notti limpide e serene. Non ci è poesia ed intanto potete crearci un poema, un poema tanto più bello in quanto che vi mettete una parte di voi, riunite al sentimento della musica quello del vostro cuore e quasi tacitamente ringraziate colui che pose delle frasi senza costrutto sopra una musica divina, e vi lasciò la libertà di adattarvi tutte quelle che la vostra immaginazione può plasmare. Forse il popolo non è poeta vero nel pensiero, ma è tale nel sentimento—stroppia il concetto ed è insuperabile nella musica. Vi è qualcuno che preferisce questa seconda poesia alla prima.

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La scienza è la misura del dolore—è una severa verità. Più si procede nel regno del pensiero e più l'occhio della mente discopre abissi paurosi, e l'anima sitibonda di pace vorrebbe ritornare all'antica ignoranza: in alto vi sono dei fatali miraggi che attirano, affascinano e non si fanno raggiungere mai, in alto il pensatore e l'artista soffrono. Ma in basso, nell'ignoranza anche, si soffre: in alto vi è la povertà smagliante, in basso la povertà nera. In basso vi è il pensiero del domani senza pane, dei figli senza tetto, della vecchiaia che si approssima: tutto questo può fermentare e diventare odio. Allora si maledirà al lavoro continuo senza l'adeguata ricompensa, si maledirà all'ingiusta divisione dei beni della terra e la cattiva idea del socialismo sotto la sua forma più rozza si farà strada. Ma no, no; il popolo non può odiare, il popolo non può maledire, perchè canta: la povera cucitrice con gli occhi stanchi ed il petto logorato accompagna con la voce il tic-tac della macchina; il muratore, arrampicandosi per le impalcature dove arrischia la vita, gitta al vento le note della sua canzone; nel seno della terra dove non entra barlume di sole, il minatore unisce ai colpi regolari della sua piccozza un monotono ritornello. Il popolo non ha svaghi, non ha consolazioni, non ha gli strani piaceri in cui noi ci anneghiamo—il popolo per dimenticare, per non maledire, per sorridere, non ha che il canto. Lasciatelo cantare…

Chi sa! È forse così che parla a Dio.

Dal vero

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