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Capitolo 2

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Un piede puntato a terra si mosse, il tallone oscillò. Le nocche strisciarono nel fango, feci leva su un polso che non mi riusciva di girare, ma la fronte restò incollata al terreno. Mi tirai su. Lentamente. Trascinai gli scarponi verso la moto, la ruota davanti continuava a girare a vuoto con un cigolio incessante. Provai a rialzarla, ma non avevo forza. Iniziai a tossire, mentre indietreggiavo. Il sangue colava dalla faccia e dalla bocca, lunghe gocce si diluivano nel velo d’acqua steso in una pozzanghera.

Il silenzio si era fatto solido, come se ci fossero dei filtri o come se l'udito fosse stato compromesso dall'impatto. Il cervello sembrava essersi sganciato dal sostegno che lo reggeva fermo nella testa, i colori delle cose venivano fuori dai contorni, le linee si deformavano davanti ai miei occhi, gli oggetti intorno a me si muovevano mellifluamente, in maniera autonoma, persino sovrapponendosi.

Avvicinai lentamente un dito alla tempia, per rendermi conto dell’entità della ferita. Lo immersi nella morbida carne aperta e barcollai quando sfiorai il ruvido bordo tagliente, come di un dente spezzato, di un profondo spacco lungo il cranio. Ingoiai sangue. Macchie rosse diventavano nere e si allargavano tra i miei occhi e gli alberi, tra i miei occhi e il monastero in alto oltre il ponte distrutto, tra i miei occhi e la notte. Finché non oscurarono ogni cosa. Sul mio corpo si aprivano centinaia di ferite attraverso cui il buio penetrava come aria. Allungai un braccio per raggiungere il tronco di un albero davanti a me, ma quando infilai la mano nel buio, non era più dove avrebbe dovuto essere.

Iniziai a muovermi piano in avanti, con una mano alzata per trovare un punto di riferimento qualsiasi, ma ogni cosa giocava a starsene nascosta un centimetro oltre le mie dita. Tutto si era dissolto, la realtà non esisteva più. Era rimasto soltanto il freddo. Riuscivo a vedere le mie mani, le mie gambe, gli scarponi, ma intorno non c'era altro. Mi fermai, crollai col culo sul pavimento del buio. Mi passai le mani sulla faccia. C'era ancora.

Il propagarsi di un tonfo lontano fece vibrare il terreno sotto di me. Alzai la testa e mi guardai attorno. Qualcosa si muoveva sulla linea d'orizzonte alla mia destra con grande lentezza verso di me. Il buio non poteva oscurare neanche quell'immagine. Mi misi in piedi, mi voltai dall'altra parte e iniziai a camminare.

Dove stai andando? Qui non esiste una direzione.

Continuavo a guardarmi indietro per controllare la distanza che si allungava tra me e l’immagine in fondo al buio. Camminava così piano che dopo un po’ era scomparsa. Smisi di preoccuparmene, ma quando girai la testa in avanti, la rividi avanzare con la stessa pesantezza verso di me, come se le fossi andato incontro invece di distanziarla. Mi fermai. Mi girai in senso inverso e ripresi a camminare per un lungo tratto, ma successe la stessa cosa della prima volta. L’immagine mi seguì finché non fui abbastanza lontano, poi riapparve davanti a me, venendomi incontro.

Mi fermai di nuovo. Scelsi ancora un'altra traiettoria diversa e accelerai il passo. Ancora una volta il piccolo punto in luce si affievolì fino a non essere più visibile, soltanto per ricomparire nel nero davanti a me. Iniziai a correre nel vuoto, deviando ogni volta che vedevo l’immagine riapparire. Qualunque direzione prendessi, l’immagine tornava ad avanzare verso di me, come un riflesso in una serie di invisibili specchi che circondava il buio. Rallentai la corsa.

Non c'era un modo di fuggire o di nascondersi, potevo solo aspettare che la cosa che si muoveva nel buio mi raggiungesse. Tastai il terreno con una mano, mi misi a sedere, calai la testa tra le ginocchia e strinsi le braccia intorno alle gambe. I tonfi proseguirono, sempre con lo stesso ritmo, lento, ma continuo come l’ossessivo sgocciolare di un rubinetto che perde nella notte e prende una forma astratta all'interno di un sogno. Si avvicinavano senza che niente potesse fermarli. Non mi mossi, soltanto non riuscivo a smettere di tremare.

L'ultimo passo impattò contro la superficie qualche metro davanti a me e risalì lungo la colonna vertebrale. Un calore improvviso si diffuse sulla nuca quando la cosa emise un respiro. Un lungo lamento involontario venne fuori attraverso i miei denti digrignati. Sentivo una mole impressionante sospesa su di me. Oscillava piano a destra e sinistra, come se fosse in attesa di un mio movimento. Portai le dita della mano sinistra sulla tempia. La accarezzai delicatamente.


L'amalgama appiccicaticcio di sangue, carne e capelli che cercavo con i polpastrelli, non c'era. La ferita era scomparsa. Era tutto a posto, tutto pulito.

Questa non è la realtà.

Alzai lentamente la testa e spostai lo sguardo al di sopra delle ginocchia. Quattro enormi zampe di animale erano rivestite da una coltre di lunghi peli chiari. La pelle, di un rosa sporco, incrostata di melma e filamenti d’erba secca, era incisa da profonde rughe e cicatrici. Il collo mi diventò molle. Uno sconcertante grugno rosa espirava caldi sbuffi ritmati e rilasciava una bava arcuata giallastra. Davanti a me, un suino della taglia di un elefante sovrastava il buio. Lo guardavo senza riuscire a crederci, ma l'animale continuò a oscillare piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito. I piccoli occhi pelosi mi osservavano.

Mi alzai con una calma irreale. L’enorme testa si mosse piano, attratta da qualcosa verso il basso, poi fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e uno scatto improvviso di cui non sembrava capace. Abbassai lo sguardo. La mia mano era scomparsa nelle calde fauci fino al polso. Guardai le piccole pupille nere, lucide come se fossero di plastica, e tirai in maniera impercettibile il braccio. Era incastrato. Non feci in tempo a pensarlo che la testa del maiale scattò ancora in avanti di un po’. Dal gomito in giù, in un attimo, il braccio era tutto steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Non capivo se dovermi preoccupare.

Piantai il palmo della mano sull’ovale umido del naso, infilai per sbaglio un dito in una narice e spinsi mentre tiravo il braccio incastrato più forte che potevo verso di me. Non si spostava di un millimetro. Continuai a fare forza e dare strattoni, cercai di afferrare e stringere qualcosa con la mano all’interno della bocca, ma il maiale restava impassibile. Aspettava che la smettessi. E quando mi fermai a riprendere fiato, con un altro scatto, mi avvolse la spalla, senza alcuno sforzo. Dovevo preoccuparmi.

La testa del maiale si sollevò lentamente. Ruotai il corpo intorno alla giuntura per seguirne il movimento ed evitare che si spezzasse e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilacciava sul pavimento. Trattenni il respiro e smisi di dibattermi. Il maiale sembrò non avere atteso altro, spalancò le fauci e, con l’ostinata lentezza di un pachiderma, mi avviluppò la testa e le spalle.

La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide della cavità orale, il mio corpo scivolò avanti e indietro risucchiato dalla gola. Un millimetro alla volta, il condotto si allargò, si adattò a me come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pugni mi premevano addosso dappertutto e mi spingevano avanti nel condotto sempre più stretto e buio. Una membrana elastica come una busta di plastica aderì alla mia faccia impedendomi di respirare finché non si strappò e mi ritrovai affacciato alla bocca dello stomaco. Cercai un appiglio sui bordi scivolosi, non riuscii a trovarlo e slittai giù, in caduta libera.

Dal nulla si diffuse intorno a me la luce di un cielo disseminato di grandi nuvole bianche. Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un freddo flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto il collo, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di ricacciarla al suo posto per guardare in basso, ma non riuscii a vedere niente finché non venni fuori dall’ultima nuvola.

Mi sfracellai con un boato su un piano solido. Attorno a me si sollevò un immenso sbuffo di polvere. Restai immobile in una concentrazione di tempo infinita, in attesa che la coscienza si spegnesse definitivamente. Non provavo alcun dolore. Sentivo le mani e i piedi enormemente distanti. La mente si era frantumata in migliaia di schegge, ma la coscienza persisteva come un’ostinazione del dormiveglia.

Iniziai lentamente a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo. Provai a muovermi quando mi sembrò di avere di nuovo una consistenza. Mi alzai come un manichino scomposto, un braccio pendeva dal lato sbagliato del gomito, il collo aveva un’inclinazione innaturale, i jeans sembravano contenere un accumulo di frammenti. Le mani, dilatate fino a sembrare finte, si riassestarono sotto i miei occhi, le ginocchia scattarono in linea. Nel cranio e nella mandibola un formicolio delle ossa mi sistemò il volto.

Quando la nuvola di polvere si posò, dalla terrazza dove mi trovavo vidi una città in rovina che si estendeva, vuota e silenziosa, sotto di me. Era fatta di ammassi di case costruite una sopra l’altra in assurde arrampicate verso il cielo, talmente incastrate tra loro da sembrare inaccessibili. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e guardai in alto. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Il centro di un pavimento in forte pendenza a quadri larghi gialli e neri si trasformava senza motivo in un tetto di tegole. Una scalinata partiva da un davanzale per finire nel bel mezzo di un muro. Sulla stessa parete, un po’ più in alto, c’era una saracinesca grigia aperta a metà che nascondeva in parte uno specchio. Niente aveva senso. Era come se tutto fosse stato costruito senza l’intenzione di essere utilizzato, persino il grande ponte a campata unica che saltava da una parte all’altra l'intera città.

Sentii una leggera vibrazione sotto la pianta del piede. Ritirai lo sguardo in basso sulla linea all’angolo tra il pavimento e il parapetto e restai in attesa finché non vibrò ancora, assorbendo il propagarsi di un colpo battuto a terra in lontananza. Le vibrazioni si fecero sempre più forti fino a diventare veri e propri terremoti momentanei. Cercavo di bilanciarmi con movimenti in circolo dei piedi, stare troppo vicino al parapetto mi dava la sensazione di cadere di sotto. In un'apertura su un altissimo campanile dal tetto a mongolfiera, un’enorme campana dorata iniziò ad oscillare. Si inclinò espandendo un rintocco che echeggiò e si compattò contro i muri delle case. Dopo alcuni secondi ci fu un altro rintocco. Suonava a morto.

Al di sopra dell’insieme di terrazze costruito in fondo alla città, le lunghe corna di una giraffa salivano e scendevano al ritmo dei terremoti, sormontando una testa di dimensioni spaventose che passeggiò in parata sul collo lungo e dritto. Il corpo gonfio come una cornamusa era sorretto da esili e altissime gambe sbilenche che, impattando contro il terreno, propagavano le onde d’urto da cui erano investiti gli edifici. Tutto iniziò a tremare sotto i miei scarponi. Il terzo rintocco della campana fu scavalcato dal boato delle torri e dei palazzi che venivano giù, di lato, come se una mano gigante li stesse spingendo. Dopo poco la mano raggiunse anche l’insieme di case su cui mi trovavo. Una profonda crepa si ramificò in diagonale sul campanile. La parte superiore si inclinò trascinandosi la campana che rintoccò contro il muro.

Ripresi a cadere velocemente verso il basso. Le ultime cose che vidi furono l’alba o il tramonto che fluiva via, lontano, in un fascio di colori confusi tra i banchi di polvere che si alzavano. Uno sciabordio di acque si modulò sul fragore della città che crollava. Cadevo verso un’estesa superficie di acqua verde scuro che si intravedeva sotto uno strato di vapore. Nella penombra verdastra tutto intorno, ad altezze differenti, le entrate di alcune grotte si protendevano dalla parete rocciosa come bocche con denti di stalattiti e stalagmiti.

I piedi ruppero la superficie dell'acqua e mi trascinarono giù fino a sfiorare il fondo limaccioso che si intorbidì. Risalii lentamente agitando le braccia e mi tenni a galla muovendo le gambe. Da una sponda lontana qualcosa aveva preso la mia direzione, la vedevo emergere e immergersi in mezzo al vapore. Mi ripulii gli occhi con una mano, sputai fuori dai denti l'acqua entrata in bocca. Tra i bianchi addensamenti fumosi che ruotavano in circolo sullo stagno, il muso striato di alghe e limo di una gigantesca rana incideva la superficie delle acque, avvicinandosi. Sopra la sua schiena, una scimmia dal busto dritto la cavalcava con lo sguardo profondo di un marinaio di vedetta in attesa di scorgere terra.

La rana deviò verso una sponda a pochi metri da me, si tenne a un bordo con le zampe e mi guardò. La scimmia girò lentamente la testa e tese una mano. I suoi occhi sembravano occhi umani, tra le guance allargate in due batuffoli di peli bianchi. Nuotai verso di loro, afferrai la mano della scimmia e mi arrampicai con una mano alla parete melmosa e con l'altra al ginocchio della rana. Mi misi seduto dietro la scimmia e immersi le mani nella morbida pelliccia intorno alla sua vita. La rana abbandonò il bordo e si rimise in acqua. Incantai gli occhi sui peli sulla testa della scimmia che ogni tanto si girava a controllare che stessi ancora al mio posto. Percorremmo in silenzio lo stagno respirando vapore fino a una sponda lontana a cui la rana si aggrappò.

Mi lasciai andare all'indietro, scivolai in acqua e allargai le braccia per galleggiare. La rana venne giù dal bordo. Allungò le zampe posteriori e anteriori come se fosse morta di colpo e si inabissò, fino a che la superficie non raggiunse le spalle della scimmia. Poi l'acqua le sommerse del tutto. Immersi una mano sotto la superficie e la agitai, riuscii a intrecciare le dita tra i peli del volto della scimmia, cercai di scendere fino alle braccia, per prenderle una mano, ma ormai era andata giù. Galleggiai fino a riva e affondai i gomiti nella melma. Salii sul bordo, mi stesi a pancia in su, con le gambe ancora immerse in acqua. Restai a respirare per un po', poi mi rigirai per sedermi sulla sponda.

Sentii qualcosa nella tasca. Tirai fuori la bustina del tabacco, aprii la chiusura ermetica. Sia i filtri sia le cartine sia il tabacco al suo interno erano rimasti asciutti. Rullai una sigaretta, la infilai in bocca e sollevai una chiappa per prendere l’accendino dalla tasca posteriore dei jeans. Provai ad accenderlo, ma si era bagnato. Mi alzai e mi misi a camminare nel buio. Continuai a spingere la rotella dell’accendino mentre mi osservavo intorno. Forme appena visibili, curve come pance di donne incinte attraversate da vene nere, erano sospese nell'oscurità. Qualcosa sembrava muoversi al loro interno. Mi avvicinai a una pancia più grande delle altre nel momento in cui l'accendino aveva ripreso a funzionare. Portai la fiamma in avanti per fare luce, allungai una mano. Le dita passarono attraverso la superficie, come se fosse fatta di fumo, facendo vibrare tutto, ma quando ritirai la mano, la pancia riprese la sua forma.

Qualcosa cigolò in fondo al buio. Mi voltai e vidi in lontananza una porta nera senza pareti attorno. Mi avvicinai, la spinsi piano. Un lungo corridoio buio si proiettava su una nuova oscurità. Attraversai la porta e andai avanti. Arrivai in fondo al corridoio. Un abisso infinito si apriva sotto i miei piedi. Mi inclinai in avanti, tenendomi a una parete, e mi affacciai. Allungai un passo che restò sospeso nel vuoto. Oltre il corridoio non esisteva più niente.

Avvicinai l'accendino alla punta della sigaretta per darle fuoco, ma al contatto con la fiamma, il buio iniziò a incendiarsi come un gigantesco foglio di carta nera. Il chiarore si diffuse allargandosi concentricamente, scintille di fuliggine cadevano leggere dal cielo staccandosi dai bordi del buio bruciato dal fuoco. Una luce livida e fredda, una strana luce turchese, avanzò attraverso il buco che continuava ad allargarsi. Indietreggiai, mi misi una mano davanti agli occhi per vedere cosa si nascondeva al di là del buio.

Un sentiero di terra era steso in un campo di sterpaglia a pochi passi da me, fuori dal corridoio. La punta del piede attraversò il confine. La gramigna secca ai lati del sentiero si faceva più alta man mano che andavo avanti, lunghi e sottili giunchi si piegavano tetramente al vento in fondo al campo. Attraverso i banchi di nuvole che percorrevano il cielo notturno filtrava la presenza di stelle lontane che emanavano quel freddo chiarore turchese che si riversava su una prateria spoglia proiettata verso un’alta collina spettrale. Una corona di rovi, sulla quale scheletri di alberi allungavano le loro ombre, si infittiva alla base della collina. Un riflesso della luce turchese si stendeva sulle increspature di un corso d'acqua che proveniva da uno sfondo di colline più lontane e si immergeva tra i giunchi per riapparire al di là del canneto e superare il confine della prateria, serpeggiando per un tratto nel mezzo del nulla. Alla fine del sentiero si allargava un grande campo circolare di terra battuta, al riparo del fianco curvo verso l’interno della collina.

Quando arrivai al centro del campo, il terreno iniziò a vibrare sotto di me. Indietreggiai, inciampai nelle mie stesse scarpe e mi ritrovai seduto a guardare una gigantesca nuvola di terra che si gonfiava. Qualcosa stava risalendo dal profondo. Strisciai all’indietro. Il terremoto si fermò, la nube si disperse lentamente in direzione della collina. Davanti ai miei occhi si erano innalzate due enormi braccia emerse fino ai gomiti con i pugni serrati verso l'alto, completamente rivestite di rampicanti.

Le dita del pugno di sinistra si aprirono, lentamente, dal palmo rivolto al cielo. Una figura seduta, con la testa tra le gambe raccolte e le braccia intorno alle ginocchia, era nascosta dal morbido volume dei capelli ricci e castani. Le lunghe braccia sottili si distesero. Un collo esile sollevò la testa verso l’alto mentre le mani spinsero verso il basso, ai lati delle caviglie. Le ginocchia si portarono in avanti, rette dagli stinchi neri e lucidi. Occhi dalla lucentezza dorata mi guardarono dal viso di lucida ossidiana di una ragazza dalla bellezza impossibile che si metteva in piedi.

Aveva le braccia nelle maniche bianche di una vestaglia che scendeva lungo i fianchi e lungo l'esterno delle gambe e lasciava nuda la parte centrale del seno, del ventre, dell’incisione dell’ombelico e dell’incontro fra le cosce nere e lucide. Bianchi arabeschi di stoffa attraversavano la parte scoperta e univano i due lembi della veste che ondeggiava nella brezza notturna. La ragazza si affacciò dal palmo della mano gigante, con la faccia incuriosita.

«Tu» disse. Il riverbero della sua voce era simile a un lamento di balena «Hai camminato attraverso il nulla e la sostanza eterea dei tuoi sogni. Sai perché sei qui?».

Scossi la testa.

«La realtà si è frantumata, qualcosa di soprannaturale è accaduto, qualcosa che succede una volta ogni generazione» le sue labbra modulavano le parole lentamente, quasi in ritardo rispetto alla voce. Il corpo si muoveva languidamente, come se fosse immerso in un fluido attraverso cui parlava.

Voltò la testa alla sua sinistra, tra i capelli si intravedeva l’incredibile lucentezza della nuca. Il pugno rivesito di rampicanti sulla destra si aprì. Un’altra figura piegata, avvolta da una morbida massa di capelli ricci e biondi iniziò a stiracchiarsi come se si fosse appena svegliata. Due mani bianche, dalle dita lunghe e sottili, sollevarono i capelli sopra la fronte. Gli zigomi sporgenti, attraversati da riflessi azzurri, tendevano la pelle delle guance bianca e lucida come alabastro. Anche il suo corpo era nudo, dentro il vestito nero unito da ricami sul seno bianco e pieno, sul ventre morbido, sulle gambe scolpite. Si alzò in piedi e si affacciò come aveva fatto l’altra, osservandomi con gli occhi d’argento.

«Una volta ogni generazione» disse. La sua voce era come un rumore, un disturbo, come il crepitio del ghiaccio che si incrina.

«In una notte d’inverno che ha invaso l'estate» iniziò la prima voce «Un’essenza sente il presagio della morte che la sta cercando. I suoi sensi si allertano e si acuiscono fino a permetterle di vedere l'invisibile, di sentire il silenzio, di credere all'incredibile e di affacciarsi su una dimensione oscura, al di là della vita, prima ancora che la morte sia riuscita ad afferrarla».

«Da una porta aperta tra le due dimensioni è possibile guardare la morte dalla vita, ma è anche possibile guardare al contrario, la vita dalla morte. La morte sopraggiunge, la porta resta aperta, l’essenza non è più viva, non è ancora morta, non del tutto. La morte non può impossessarsene completamente, ma soltanto per una notte. Questa è una di quelle notti» continuò la seconda voce.

«Tu sei l’essenza che ha sentito la morte arrivare, le sei sfuggito attraverso il passaggio che hai lasciato aperto. Hai portato la morte nella vita e la vita nella morte, hai generato un paradosso che dovrai risolvere fino alla fine di questa notte, quando la porta dovrà essere di nuovo chiusa» concluse la prima voce.

L’eco delle due voci mi volteggiò intorno come un vento che saliva a spirale, intrecciandole. Chiusi e riaprii gli occhi un paio di volte, guardai prima una e poi l'altra ragazza. Avevano un’età indefinita. Alcuni riflessi, sui loro volti, rischiaravano lineamenti morbidi di adolescenti, altri tagli di luce incidevano profonde rughe sulla loro pelle. Mi portai le mani alle tempie, cercai di contenere la velocità con cui avevano preso a rincorrersi i pensieri.

«D’accordo» dissi «L’unica cosa che si è aperta questa sera è stata la mia testa. C’era una crepa larga quanto un dito proprio qui, sulla tempia, che deve aver danneggiato il cervello, ma non importa. Come avete fatto ad apparire? E come si fa ad uscire da questa allucinazione?».

«Non siamo apparse per nostra volontà, non senza che tu ci abbia cercato» la ragazza dalla pelle bianca aprì un braccio verso l'altra per poi ripiegarlo su di sé.

«Tu ci hai chiamate».

«Io?».

Io le ho chiamate.

Ancora quella stupida voce nella testa. Mi guardai attorno.

«Nove anime» ricominciò la prima voce «raggiungeranno la collina, questa notte».

«Nove anime in bilico. Attraverseranno il confine e resteranno sospese».

«La tua essenza potrà cambiare gli eventi e salvarle, se saprai orientarti nel buio».

Il terreno riprese a tremare. Indietreggiai senza sapere dove direzionare lo sguardo e i piedi. Una base di piramide sormontata da una lunga e stretta torre dalle pareti devastate dal tempo venne fuori dal terreno da qualche parte a est, come era successo poco prima con le due braccia rivestite di rampicanti. Sulla facciata rivolta a noi, nove alte finestre ad arco erano in linea con la grande entrata alla base.

«Avrai nove ore».

«La torre resterà in attesa di ognuna delle anime».

«Fino al termine di questa notte».

«Finché non avrai fatto la tua ultima scelta».

«Ognuna delle vostre vite sarà restituita se salverai più anime di quante ne perderai».

«Nessuna delle vostre vite sarà restituita se perderai più anime di quante ne salverai».

«In un’unica sorte comune di cui sarai responsabile».

Si sollevò un silenzio attraversato da centinaia di sussurri che si prolungavano in echi ossessivi nella piccola valle.

«Non sono stato capace di salvare neppure la mia vita» dissi, indicando al di là del buio alle mie spalle. Ma i due pugni di rampicanti si stavano già richiudendo.

Mi ritrovai tra le dita la sigaretta che non avevo più acceso alla fine del corridoio. La guardai, la feci rotolare nel palmo. Non avevo più nessuna voglia di fumare, ma la accesi lo stesso.

Zenith

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