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CAPITOLO 4

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Ognuno è quello che persegue.

Io sono quel che sono, sono quel che amo,

amo quel che sono.”

(Elio Savelli)

Andrea ancora non riusciva a capacitarsi del perché aveva seguito senza batter ciglio gli uomini del Duca, proprio pochi istanti prima della cerimonia di nozze con la sua amata Lucia. Il suo potente destriero bianco, ancora agghindato a festa, mordeva la strada, senza faticare affatto a star dietro agli armigeri che si dirigevano di gran carriera oltre l’Esino, verso Monte Returri. La cavalcata era agevole, senza bardature, senza neanche la celata in testa. La folta capigliatura bionda di Andrea accarezzava l’aria svolazzando. Le maniche del farsetto cremisi si gonfiavano e si sgonfiavano ai capricci del vento. Ma la mente di Andrea era in subbuglio. Pensieri incapaci di essere tenuti a freno si affollavano nella sua testa e si affacciavano prepotenti verso le tempie, con la speranza di essere presi nella giusta considerazione.

«Hai sempre perseguito la speranza di poterti unire in matrimonio con Lucia. E ora che era finalmente giunto il momento, che fai? La abbandoni lì, sul sagrato della Chiesa!», lo iniziava a torturare il primo pensiero. «Ricorda, Andrea! Ognuno è ciò che persegue nella vita! Non raggiungere i propri obiettivi significa fallire miseramente.»

«Io sono quel che sono!», si difendeva Andrea nei confronti di se stesso. «Amo essere ciò che sono. E sono un uomo d’armi, e come tale devo obbedienza a chi mi comanda. Quindi ho fatto la scelta giusta. Non ci si può sottrarre al proprio dovere per causa di una donzella.»

«Tu ami ciò che sei, ma sei anche ciò che ami», lo rintuzzava un secondo pensiero, senza dargli tregua, in un incredibile gioco di parole. «E chi ami è Lucia. Con lei dovresti essere un unico corpo e un’unica anima. Che differenza c’era nel seguire questi uomini adesso, nell’immediato, piuttosto che domani, o domani l’altro o fra una settimana? E la tua bambina, Laura, a cui hai regalato sorrisi fino a questa mattina, facendole capire che adesso poteva confidare sull’affetto di un padre, che cosa penserà di te? Che sei un vigliacco, che ti sottrai all’amore e agli affetti a seconda di come gira il vento. Non era lecito almeno spiegarle perché te ne stai andando?»

«Non sono una femminuccia, sono un Capitano d’armi!», replicava con vigore lo spirito guerriero di Andrea. «Se questi uomini avevano una gran fretta di condurmi con loro, un motivo deve esserci, e ben grave, da quello che ho potuto leggere sulla missiva inviatami dal Duca. Un guerriero non si sottrae al suo dovere. Mai! Tanto meno per questioni d’amore. L’amore può aspettare, il nemico no.»

Immerso in queste disquisizioni mentali, Andrea non si era neanche accorto che, superata la torre di guardia in cima a Monte Returri, il drappello di soldati cui stava appresso, attraversato il breve centro abitato di Santa Maria delle Ripe, si stava dirigendo, in veloce discesa, verso la vallata del Fiume Musone. Mise a tacere tutti i pensieri e si concentrò sul percorso. Se si dovevano dirigere verso Mantova, la strada da seguire non era certo quella, che piegava verso meridione. Logica avrebbe voluto che si percorresse la strada Fiammenga fino a Monte Marciano e poi si risalisse lungo le coste Adriatiche, fino a Ravenna, per poi piegare verso Ferrara. E da lì raggiungere Mantova in maniera agevole, senza difficoltà alcuna. La strada che stavano percorrendo portava dritti al Castello Svevo del Porto, a sud del monte di Ancona, tra la foce del fiume Musone e quella del Potenza. Un castello fatto edificare a suo tempo da Federico II a difesa e baluardo di un importante porto in cui far stazionare la flotta ghibellina. Al solo pensiero del mare, Andrea ebbe un conato di vomito.

E ben presto, in effetti, la vallata del Musone si allargò verso il mare Adriatico. Lasciata sulla loro destra, in alto sulla collina, l’imponente basilica di Loreto, dedicata al culto della Madonna e protetta da possenti bastioni, Andrea e i suoi compagni seguirono un ampio stradone per alcune leghe, giungendo in vista della loro meta. La sagoma del castello Svevo, con il suo imponente mastio che svettava verso il cielo, si avvicinava veloce. Il sole stava ormai calando verso l’orizzonte e, mettendo al passo le cavalcature, si poteva ascoltare il rumore della risacca e annusare l’odore salmastro portato dal vento. Il tramonto incendiava il cielo di un rosso acceso, sfumante in tonalità di arancione laddove il sole stava nascondendosi dietro la linea dell’orizzonte, marcata dai monti dell’Appennino. Scene e colori che avrebbero infuso il sentimento della nostalgia nel cuore di qualsiasi persona, figuriamoci in quello di Andrea, già in subbuglio per tutta la vicenda che stava vivendo. Avrebbe voluto rigirare il cavallo e tornare di corsa a Jesi, alla sua amata, alla sua casa, ai suoi affetti. Ma ancora una volta, i nitriti dei cavalli e le grida degli armigeri lo riportarono alla realtà. Erano dinanzi all’ingresso principale del castello, in un grande spiazzo quadrangolare che, dal lato opposto, si apriva verso il mare. Mentre i suoi accompagnatori lanciavano grida alle guardie agli spalti, per farsi riconoscere e far calare il ponte levatoio, Andrea scrutò il porto. Il mare era calmo, piatto, quasi una tavola. Alcune stelle già brillavano in cielo, un cielo che stava assumendo i toni del turchese e che presto sarebbe divenuto ben più scuro, avvolgendo cose e persone nel nero mantello della notte. La sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi, colpì l’attenzione di Andrea. In vita sua non aveva mai visto un vascello così grande. E la paura che l’indomani vi sarebbe dovuto salire sopra attanagliò il suo cuore. Sull’albero più alto, quello centrale, sventolava lo stendardo della Repubblica Serenissima, un leone disteso, il leone di San Marco, con un libro aperto, il Santo Vangelo, tra le zampe anteriori. Quando il ponte levatoio fu disceso e le enormi ante del portale si aprirono, il capitano delle Scolte di guardia al castello uscì e si avvicinò ad Andrea, porgendogli un drappo ripiegato. Si piegò al suo indirizzo in un ossequioso inchino e gli porse lo stendardo.

Andrea scese da cavallo, fece cenno alla Scolta di sollevarsi dalla posizione di riverenza e prese l’oggetto dalle sue mani. Dispiegò il drappo, in cui, su fondo di stoffa rossa, era stato realizzato, a fine ricamo, il disegno dorato di un leone rampante ornato della corona regale in testa.

«Mio Signore, Marchese Franciolino Franciolini, combatterete sotto il segno del leone!», iniziò a proferire il luogotenente. «Consegnerete domattina questo stendardo all’equipaggio della nave, che provvederà a issarlo sul pennone, a fianco della bandiera della Serenissima. Il Duca Francesco Maria Della Rovere ha dato precise disposizioni. Il leone rampante, simbolo della Vostra città, ma anche di Federico II di Svevia, che concesse a suo tempo di ornarlo della corona imperiale, sarà il simbolo della Vostra forza e della Vostra autorità.»

La Scolta si interruppe e si fece consegnare una pergamena da un altro soldato, che era rimasto dietro di lui, a breve distanza.

«Il Duca Francesco Maria Della Rovere vi nomina peraltro, come scritto in questa pergamena, Gran Leone del Balì, titolo che vi conferisce grandi poteri e la possibilità, anzi il dovere, di affiancare il comandante veneziano sul ponte del galeone da combattimento.»

Così dicendo, arrotolò la pergamena e la consegnò nelle mani di Andrea.

«Domattina all’alba salirete a bordo con i vostri uomini e consegnerete le credenziali al “Capitano da Mar” Tommaso de’ Foscari. Due leoni e due capitani d’arme saranno uniti contro comuni nemici, da un lato i Turchi del Sultano Sèlim, dall’altro i Lanzichenecchi teutonici. Il Duca Della Rovere confida nel fatto che terrete alto l’onore dovuto alla vostra bandiera e a quella della Repubblica Serenissima, nostra alleata. E ora, mio Signore, permettetemi di condurvi alle vostre stanze per adire a un meritato riposo. Domattina sarete svegliato di buon ora, ancor prima del sorgere del sole.»

Andrea era confuso, non sapeva cosa dire, e così rimase in silenzio. Certo il suo amico Duca sapeva lusingarlo con le onorificenze, ma così facendo trovava sempre il modo di mandarlo allo sbaraglio. Il fatto di imbarcarsi su una nave non gli garbava affatto, ma ormai era giunto fin lì e non poteva più di certo tirarsi indietro.

La notte si girò e si rigirò tra le lenzuola, riuscendo a dormire poco o niente. Quando sprofondava nel sonno, era assalito da incubi che richiamavano alla sua memoria l’unica battaglia combattuta in mare. Mare e sangue, fuoco e morte. E la figura del Mancino che lo tormentava, avvicinandosi a lui fino a divenire un gigante, che lo accusava di averlo lasciato morire tra i flutti. E si risvegliava in un bagno di sudore, rendendosi conto di aver dormito solo per pochi istanti. Quando giunse il servo incaricato della sveglia, provò quasi sollievo nel potersi alzare. Era ancora buio fuori, ma dalla finestra poteva intravedere il trealberi alla fonda illuminato dalla biancastra luce di una luna quasi piena. Il servitore lo aiutò a indossare una leggera armatura, costituita da un corpetto in maglia a rete metallica con rinforzi più compatti alle spalle, agli avambracci e al collo. Sopra l’armatura, un mantello di raso dal colore metà rosso e metà giallo. Nella parte gialla il disegno del leone di San Marco, in quella rossa il leone rampante coronato.

«Queste vesti non riusciranno a proteggermi da un bel niente!», cominciò a lamentarsi Andrea col servitore che lo stava aiutando nella vestizione. «Una freccia in petto e addio Marchese Franciolini! E che dire delle calze? Semplici braghe di cuoio, senza neanche borchie metalliche di protezione. Passami la celata, coraggio!»

«Niente celata, Capitano. Siete a posto così. A bordo bisogna essere leggeri, si deve avere la possibilità di muoversi agevolmente, di correre da un lato all’altro del galeone e, se necessario, arrampicarsi sugli alberi. Un’armatura come quelle che siete abituato a portare nei combattimenti terrestri vi sarebbe solo d’impaccio. Credetemi, mio Signore!»

«Ti credo, e credo anche che non arriverò vivo a Mantova. Se non mi ucciderà il mal di mare, mi ucciderà il nemico. Sarò facile bersaglio per i pirati turchi. Mi crivelleranno di frecce e si ciberanno del mio cadavere. Ah, bel destino cui vado incontro, solo per far piacere all’amico Duca!»

«Non dovete temere, mio Signore. Il galeone è davvero sicuro e adatto a resistere a qualsivoglia attacco da parte di altre imbarcazioni. E il Comandante Foscari sa il fatto suo. Sa governare il vascello e combattere in mare come nessun altro al mondo. Vedrete. E ora rifocillatevi. Avrete bisogno di essere in forze per affrontare il viaggio», e così dicendo batté le mani, facendo entrare nella stanza altri servi con dei vassoi.

Il servitore che lo aveva aiutato a vestirsi, prese un calice d’argento e gli fece lavare le mani con acqua di rose. Poi lo invitò a sedere al desco. Gli altri servi poggiarono dinanzi a lui, in sequenza, tre vassoi. Nel primo vi erano delle coppe, alcune ricolme di latte d’asina, altre di succo di arance di Sicilia, altre ancora di latte di mucca fumante. Un secondo vassoio conteneva cibi dolci, pane di latte, ciambelle, biscotti, marzapani, pinocchiate, cannelloni alla crema, sfogliate, disposti in piattini ornati da larghe foglie di insalata. Il terzo vassoio era dedicato ai cibi salati, acciughe, capperi, asparagi, gamberi, accompagnati da una coppa ripiena di uova di storione allo zucchero. A parte, in alcune brocche, c’erano dei vini, dal moscatello, al trebbiano, al vino dolce fermentato. Andrea aveva paura che, una volta a bordo del galeone, tutto ciò che avrebbe avuto nello stomaco sarebbe risalito verso le sue fauci. Avrebbe vomitato tutto ciò che avesse ingerito. Ma i profumi che solleticavano le sue narici erano troppo invitanti, e così inzuppò nel latte d’asina alcuni biscotti e due ciambelle, trangugiando dietro il calice di latte di mucca caldo. Si guardò bene dal toccare i cibi salati e, soprattutto, i vini. Soddisfatto, si lasciò scappare un sonoro rutto, dopodiché si dichiarò pronto a raggiungere l’imbarcazione veneziana.

Visto da vicino, il trealberi veneziano era davvero imponente. Andrea non aveva mai visto un vascello così grande, neanche quello dei pirati turchi affrontati più di un anno addietro. Notò con piacere come il galeone fosse molto stabile. Le onde passavano sotto lo scafo, ma la mastodontica nave, in effetti, proprio non sembrava muoversi. Al suo occhio attento non sfuggirono dei curiosi pannelli metallici, che ricoprivano in più punti le fiancate in legno dell’imbarcazione. Mentre cercava di capire a cosa servissero, la sua attenzione fu richiamata dal Capitano della nave. Tommaso De’ Foscari si stava sbracciando, facendo cenno al giovane di salire a bordo attraverso una comoda passerella disposta tra il molo e la fiancata di sinistra della nave. Non senza un po’ di timore addosso, Andrea raggiunse il ponte, salutando il suo nuovo compagno d’avventura con un inchino. Mentre porgeva al Foscari lo stendardo con il leone rampante, da issare sul pennone a far compagnia al leone di San Marco, si rese conto che stare sopra quella nave non gli procurava alcun fastidio. Il galeone era tutt'altra cosa rispetto alla cocca su cui aveva perso due dei suoi migliori compagni, il Mancino e Fiorano Santoni. I movimenti dovuti allo sciabordio delle acque sotto lo scafo non si avvertivano affatto.

«Come vedi, mio caro Franciolino, questo trealberi è una delle migliori navi in dotazione alla flotta della Repubblica Serenissima», iniziò a spiegargli il Capitano da mar, circondandogli la spalla col suo braccio. «È una nave molto grande e pertanto è molto stabile. Ma nel contempo è anche agile e facile da manovrare. Oltre che dal vento può essere spinta, al bisogno, da due ordini di vogatori. Tra equipaggio, servi, vogatori e soldati, a bordo trovano posto più di cinquecento uomini. Quasi un esercito. E non è tutto. È una nave molto sicura. Ho notato, poco fa, come stavi rimirando le paratie metalliche sulle fiancate. Esse proteggono lo scafo dalle palle incendiarie del nemico. Al bisogno possono essere sollevate, creando una barriera ancor più alta delle mura della nave stessa e, tra una paratia e l’altra, possono essere inserite delle bocche da fuoco, bombarde in grado di lanciare proiettili esplosivi contro gli avversari. Ma c’è ancora di più. A bordo abbiamo ben cento archibugieri, uomini in grado di usare in maniera eccellente la nuova micidiale arma da fuoco inventata dai francesi. Non vedo l’ora di farti vedere questa macchina da guerra all’opera.»

Continuando a parlare, il Capitano aveva condotto Andrea fino al ponte di comando, dove aveva preso in mano il timone, spiegando come in gergo marinaro la parte anteriore della nave venisse chiamata prua e la posteriore poppa, il lato sinistro babordo e il destro tribordo. Poi iniziò a gridare ordini ai marinai al fine di preparare la nave a salpare. Gli ordini, pronunciati in stretto gergo marinaresco, erano del tutto incomprensibili ad Andrea.

Mollare l’ancora – Ritirare le gomene – Cazzare la randa – Mollare il pappafico – Issare le vele di trinchetto, erano tutti comandi di cui non comprendeva nel modo più assoluto il significato. In ogni caso, poteva osservare come, a ogni comando del Capitano da Mar, l’equipaggio si muovesse in maniera veloce e precisa, senza alcuna incertezza. In breve, il galeone si distaccò dal molo e prese il largo, iniziando la navigazione verso nord, con un bel vento di scirocco che gonfiava le vele al massimo. Il Foscari teneva ben saldo il timone in mano e continuava a spiegare ad Andrea ciò che stava facendo.

«Il Mare Adriatico è un mare chiuso e anche piuttosto stretto tra le sponde italiane e quelle della Dalmazia. E quindi è abbastanza sicuro. È difficile che scoppino tempeste improvvise, come si incontrano quando si attraversa l’oceano per raggiungere il Nuovo Mondo. Ma comunque non è da sottovalutare il fatto che a volte il vento gira e diventa pericoloso. Il Garbino, il vento che spira da terra, può sollevare il mare e provocare mareggiate anche imponenti. In più esso rende faticoso governare la nave, in quanto spinge le imbarcazioni verso il largo. Come puoi vedere, noi cerchiamo sempre di navigare piuttosto al largo per evitare le secche, ma sempre in vista della costa, cosicché non perdiamo mai la rotta. Il Garbino ti può fregare, facendoti perdere di vista la linea costiera e quindi disorientando i navigatori, in particolar modo quando il cielo è nuvoloso e non ci si può orientare grazie al sole e alle stelle. L’altro vento che temiamo noi marinai è la bora, il Buriàn, che porta neve e gelo, e spira soprattutto nella stagione invernale. La bora a volte è così forte, da poter spazzar via tutto ciò che trova, compresi i marinai che si trovano sul ponte e che, se finiscono nelle acque gelide, hanno poche speranze di poter sopravvivere.»

«Mio caro Tommaso», lo interruppe Andrea, che ormai aveva preso confidenza col suo nuovo amico. «Ti devo confessare che io sono molto timorato del mare. Non so neanche nuotare e ho avuto una bruttissima esperienza lo scorso anno al largo di Senigallia. Quindi, preferirei che tu evitassi di raccontarmi certi particolari. Già mi hai fatto venire i brividi. Se continui così, andrò in preda alla nausea e allora saranno dolori per il resto della navigazione. Oggi invece posso vedere una bella giornata, il vento che ci sta carezzando è tiepido e gradevole, e questa nave è talmente stabile che non avverto alcun malessere. Pertanto, lasciami godere questo viaggio, e raccontami magari delle tue imprese di guerriero. So che hai combattuto contro i Turchi in terra Dalmata… Ma, quella che vedo là verso la riva è la sagoma della Rocca Roveresca? Siamo già giunti a Senigallia?»

«La nave è veloce e abbiamo il vento favorevole. Sì, siamo già giunti al largo di Senigallia. E visto che hai parlato di Turchi, tieniti pronto a incontrarli, perché queste acque sono infestate dai pirati del Sultano Sèlim.»

«Lo so bene. Ah, se riuscissi a fargliela pagare per quello che mi hanno fatto perdere un anno fa! Due dei miei migliori amici hanno perso la vita nello scontro con quei bastardi infedeli. E io me la sono cavata per un soffio.»

«Ottimo, mio caro Franciolino. Allora, se ci troveremo a doverli combattere, mentre io governerò la nave, lascerò a te l’onore di dare gli ordini a cannonieri e archibugieri. Ora ti spiegherò come.»

La navigazione proseguì tranquilla fino a pomeriggio inoltrato. Il Capitano Foscari stava per predisporre il galeone ad attraccare al porto di Rimini per trascorrere la nottata, quando una vedetta, dalla sua postazione in cima all’albero più alto, gridò: «Nave pirata a tribordo! Galeone battente bandiera Turca, in assetto di battaglia.»

«È Selìm!», sussurrò Andrea al Capitano Foscari, cominciando già a provare una certa eccitazione all’idea della tenzone.

Il Capitano da Mar gridò alcuni ordini in gergo marinaresco. Andrea non ci capiva nulla, ma poté di nuovo ammirare come, a ogni comando, l’equipaggio della nave si muovesse in perfetta sincronia per assecondare il volere del comandante. In pochi istanti, vennero sollevati i pannelli metallici protettivi del lato destro della nave, le bocche da fuoco furono caricate e gli artificieri si misero in posizione di combattimento. Gli archibugieri, invece, caricate le loro armi, si spostarono sul lato sinistro del galeone, in prossimità delle mura di babordo.

«Sarà tuo l’onore di ordinare di fare fuoco», disse il Foscari, rivolto ad Andrea. «Ma non prima che il nemico abbia fatto la prima mossa!»

«Lasciamo che i pirati ci attacchino? Non è imprudente?»

«Vedrai!»

Il colloquio tra i due fu bruscamente interrotto dall’attacco nemico. Una gragnola di palle incendiarie partì dal vascello turco. Molte piovvero in acqua, spegnendosi in una nube di vapore e spruzzi d’acqua salata, a diversi piedi di distanza dalla nave veneziana. Alcune palle colpirono i pannelli metallici, e anche queste caddero in mare, senza procurare danno alcuno allo scafo. Andrea si sentì a un certo punto investito da uno zampillo di acqua tiepida, sollevato da una delle palle incendiarie caduta assai vicino al ponte di comando. Bagnato come un pulcino si preparò a ordinare di rispondere al fuoco. Gli artificieri avevano caricato i cannoni con palle esplosive. Andrea ordinò di accendere le micce, mentre il suo amico Tommaso predisponeva la manovra successiva.

«Fuoco a volontà! Non diamo loro la possibilità di aggiustare il tiro», e cercò un solido appiglio per reggersi forte, prevedendo il rinculo dovuto alle esplosioni contemporanee di almeno quaranta cannoni.

Ma, con sua somma meraviglia, vide partire i colpi, accompagnati da nuvole di fumo in corrispondenza delle bocche da fuoco, senza che la stabilità del galeone fosse intaccata più di tanto. Certo, un po’ la nave iniziò a oscillare e la veloce manovra ordinata dal Capitano subito dopo peggiorò non di poco le condizioni dello stomaco di Andrea. Ma doveva resistere. Non poteva farsi prendere dal mal di mare. La nave puntava ora veloce la prua verso il galeone turco. Erano state ammainate le vele, e ci si muoveva solo a forza di remi. Infatti la manovra doveva essere precisa, non ci si poteva affidare ai capricci del vento. Due ordini di vogatori per lato potevano spingere la nave alla velocità voluta in ogni istante dal capitano, per il tramite del maestro dei rematori, chiamato “sottocomito”. I proiettili esplosivi avevano fatto il loro dovere. Avevano colpito il trealberi turco in più punti, provocando gravi danni. L’albero maestro era stato abbattuto e diverse falle erano state aperte sullo scafo, che si stava ormai inclinando sul fianco destro. I pirati stavano calando le piccole imbarcazioni da arrembaggio sul lato opposto, verso il mare aperto, sia per abbandonare la nave che stava per affondare, sia perché non si davano mai per vinti e si sarebbero preparati all’arrembaggio della nave veneziana. Sia Andrea che Tommaso De’ Foscari sapevano bene che la religione di quei bastardi insegnava loro che morire in battaglia significava essere assunti in gloria dal loro Dio. Nessuno di loro si sarebbe mai arreso. Avrebbero combattuto fino a morire tutti, ma se un solo manipolo di quegli spietati pirati fosse riuscito a salire a bordo, diversi uomini avrebbero perso la vita. Certo, ben presto i Turchi sarebbero stati sopraffatti, ma essi sarebbero comunque riusciti a fare numerose vittime. E Tommaso non avrebbe voluto perdere neanche uno dei suoi uomini. Pertanto la manovra doveva essere precisa. Guidò la nave ad aggirare il galeone turco, in modo di trovarsi tra esso e le barchette dei pirati. Andrea poté a questo punto rendersi conto di quanto micidiale fosse la nuova arma chiamata archibugio. I cinquanta archibugieri spararono all’unisono contro le piccole imbarcazioni all’ordine gridato dal Capitano Franciolini, giusto nel momento in cui il Capitano da Mar gli fece il cenno convenuto. Gli uomini colpiti dalle palle degli archibugi venivano decimati come mosche: teste che si spappolavano, corpi che venivano proiettati in acqua come fantocci di pezza, gambe e braccia che venivano strappate da tronchi che rimanevano per breve tempo ancora agonizzanti, per poi morire dissanguati. Mentre gli archibugieri caricavano di nuovo le armi, i pirati rimasti in vita si gettarono in acqua per cercare di sottrarsi al tiro. Ma la seconda raffica non fu meno distruttiva della prima. Fu ordinato di sparare anche qualche palla esplosiva con i cannoni, in modo di affondare le scialuppe dei turchi. Qualche freccia sibilò sopra le teste di Andrea e Tommaso, ma nessuna andò a segno. Gli archibugieri e gli artificieri erano ben protetti dalle mura della nave e dai pannelli mobili. In mare si iniziò a delineare una chiazza rossastra, una specie di isola di sangue, i cui abitanti erano frammenti di legno bruciacchiato e cadaveri sformati. Per fortuna l’attenzione di Andrea era rivolta invece a un’unica imbarcazione che si stava allontanando dal luogo della battaglia. Era un po’ più grande delle altre, aveva un piccolo albero con una vela quadrata, al di sopra della quale sventolava un vessillo rosso con una semiluna e una stella bianca.

«È il sultano! Se ne sta scappando con i suoi uomini fidati», esclamò Andrea, eccitato. «Inseguiamolo. Potremmo catturarlo e farlo prigioniero. Il Duca Della Rovere ce ne sarà di certo riconoscente!»

Il Capitano De’ Foscari mise un braccio intorno alla spalla dell’amico, nel tentativo di placare il suo animo.

«Lasciamolo. Non vale la pena rischiare. È comunque un uomo pericoloso. Abbiamo vinto la battaglia. Possiamo continuare il nostro viaggio, ormai senza più intralci di sorta.»

«Ma… Nel giro di breve si riorganizzerà, e tornerà a infestare i nostri mari e terrorizzare le nostre città costiere!»

Così dicendo, Andrea abbassò la testa, un po’ mortificato. E vide quello che non avrebbe mai voluto vedere. Il sangue, i cadaveri, i pezzi delle barche distrutte. Questa volta non riuscì a trattenere il groppo allo stomaco. Il conato di vomito risalì con forza. I movimenti della nave, per quanto lievi, erano ormai insopportabili. Sentì le gambe cedergli. Si accasciò sulle ginocchia.

Tommaso chiamò un paio di armigeri, che subito furono accanto a lui.

«Accompagnatelo sotto coperta, nella mia cabina, e fatelo distendere nella mia branda. Ha condotto in maniera egregia l’assalto ai pirati, ma è un combattente di terra. E il sangue, in mare, fa tutto un altro effetto. Vegliate sul suo riposo. Io passerò la nottata qui, sul ponte di comando.»


Nel Segno Del Leone

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