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CAPITOLO 6

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La bellezza salverà il mondo

(Fedor Dostoevskij)

Infangato fino al collo, Andrea aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante il freddo pungente dell’inizio di un inverno che, a passi veloci, avrebbe aperto le porte all’anno 2019. L’amministrazione comunale era stata chiara. Entro la successiva primavera, Piazza Colocci doveva essere ripristinata e gli scavi archeologici, che avevano portato alla luce i resti dei piani bassi del vecchio palazzo del governo, sarebbero stati interrati. Il tutto era già stato fotografato, i reperti principali trasferiti al nuovo museo archeologico, al piano terra del Palazzo Pianetti-Tesei, e ormai era stato concesso fin troppo tempo a cittadini, turisti e curiosi per dare una sbirciata, del tutto gratuita, alla piazza scoperchiata. Ma Andrea non era soddisfatto, non si dava per vinto. Lì sotto, a un livello più basso, ci dovevano essere i resti dell’antico anfiteatro romano. Prova ne erano le antiche palle del “gioco della palletta”, antica disciplina risalente all’epoca dei Romani. Tale gioco, noto anche come Harpastum, o gioco della palla sferica, era parte integrante dell’allenamento dei gladiatori ed era giocato soprattutto dalle legioni a presidio dei confini. Secondo Andrea, le palle ritrovate circa venti anni prima in fondo al pozzo del cortile interno del Palazzo della Signoria non erano riferibili al gioco settecentesco della pallacorda, come era stato asserito sinora. Esse erano invece la testimonianza che in quella zona si svolgevano, tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C., giochi in cui venivano coinvolti gladiatori e schiavi, alla stessa stregua di quelli ai quali si poteva assistere a Roma all’interno del Colosseo. Certo, non poteva calarsi in fondo al pozzo per sfondarne le pareti, ma secondo lui un passaggio dalle stanze dell’antico Palazzo del Governo ai livelli sottostanti ci doveva essere per forza. Tutto stava a trovarlo. Le costosissime rilevazioni radar che aveva fatto eseguire del tutto a sue spese gli davano ragione, ma ogni volta che pensava di essere vicino alla scoperta sensazionale del possibile passaggio c’era qualcosa che andava storto. Lì dei collettori di fogne che non potevano essere toccati se non rischiando di allagare tutto, là paratie metalliche a protezione e consolidamento delle fondamenta del Palazzo della Signoria. Qui resti di focolari, che non potevano essere toccati, se non scatenando le ire del delegato ai Beni Culturali e Artistici. E ora ci si era messa anche la neve. Dall’otto dicembre, una nevicata precoce ma abbondante gli aveva impedito di lavorare per alcuni giorni. Poi, quando la neve si era sciolta, aveva lasciato una tale quantità di fango, che quasi era impossibile reggersi in piedi dentro gli scavi senza scivolare in continuazione. Irritato, infreddolito, con i nervi a fior di pelle, sollevò il piccone. Avrebbe dato una picconata secca al muro di fondo, quello che separava il vecchio palazzo del Governo dalle fondamenta dell’attuale, terminato di costruire intorno all’anno 1.500, ma si fermò col braccio in aria. Qualcosa aveva richiamato l’attenzione del suo sguardo. Il fango, scolando verso il basso, aveva lasciato scoperto un particolare che non aveva mai notato prima. Un arco a volta limitato dagli antichi mattoni, quasi a pelo del suolo che stava calpestando e che rappresentava il pavimento del piano terra di quell’antico edificio, delimitava senza dubbio un’apertura, anche se occlusa da detriti e semi interrata.

Di certo i mattoni che delimitano quest’arco sono di fattezza più antica rispetto al resto, hanno un aspetto più irregolare, sono più scuri. Magari sono proprio di epoca romana…

Andrea si sfregò le mani soddisfatto, alitò su di esse per riscaldarle un po’ e si guardò intorno per cercare gli attrezzi giusti, abbandonando il piccone. Cercò di ripulire l’ipotetica apertura, per quanto possibile a mani nude, aiutandosi con una piccola pala zappa pieghevole per asportare i detriti, rifinendo poi il lavoro con un pennello per togliere polvere e terriccio. Poco alla volta, venne alla luce una porta in legno, abbastanza ben conservata, chiusa con un chiavistello. Non sarebbe stato difficile aprirla o sfondarla ma, non sapendo cosa avrebbe trovato al di là ed essendo ormai l’imbrunire, decise che per quel giorno si poteva ritenere soddisfatto e che poteva sospendere i lavori per riprenderli il giorno successivo.

Meglio tornare a casa e ricontrollare le rilevazioni radar. Non vorrei avere sorprese. E poi meglio farsi aiutare da qualcuno. La prudenza non è mai troppa in questi casi. Sia mai che aprendo quella porta possa provocare dei crolli. Al che tutto il lavoro di mesi e mesi andrebbe a farsi benedire.

Radunò gli attrezzi, mise la sacca da lavoro a tracolla, uscì dagli scavi e si diresse giù per Costa Baldassini, per raggiungere la sua dimora. Il calore accogliente della sua abitazione e l’odore di fumo delle sigarette consumate dalla sua compagna lo misero di buon umore. Gettò la sacca in terra presso l’ingresso, cercò per quanto possibile di liberare le scarpe dal fango e salì le scale di corsa. Trovò Lucia addormentata, con un braccio e la testa poggiati sul tavolo del soggiorno, il notebook acceso avanti a lei e la cicca di una sigaretta ancora fumante nel posacenere. Le carezzò i capelli con delicatezza, evocandone il risveglio.

«Mio Dio, Andrea! Sono crollata. Dovevo essere proprio stanca. Ho lavorato tutto il giorno per cercare di interpretare un nuovo documento, che ho ritrovato qui tra le scartoffie della tua biblioteca e che si riferisce al periodo in cui il tuo antenato Andrea Franciolini andò a combattere nei Paesi Bassi a sostegno del re di Francia contro l’imperatore Carlo V d’Asburgo. A parte il periodo politicamente ingarbugliato, per cui il papa parteggiava ora per la Francia, ora per l’impero, la cronologia delle date in questo documento appare strana. E poi c’è questa raffigurazione, che sembra un’immagine molto più antica rispetto ai tempi di cui stiamo discutendo. È un leone traverso, disteso, inciso su pietra, mi sembra. Non capisco che significato abbia: non è né il leone rampante simbolo di Jesi, né il leone di San Marco, simbolo della Repubblica Veneziana. Sembra più un’icona, un altorilievo su pietra, proveniente da qualche abitazione o da qualche costruzione di epoca romana, quasi somigliante a quelle piastrelle decorative che adornano la sagoma del portale di questo palazzo.»

«Come ormai ben sai, quelle piastrelle erano decorazioni di un antico tempio romano che sorgeva nell’antichità in questo luogo, e che sono state rinvenute durante gli scavi delle fondamenta.»

«Appunto. E quindi la mia idea è che chi ha disegnato questa illustrazione si sia rifatto a una decorazione dell’antico anfiteatro romano, che sorgeva più o meno tra Piazza Colocci e Via Roccabella. In fin dei conti i leoni venivano utilizzati dai romani, all’interno delle arene, nei combattimenti con i gladiatori.»

«E spesso ne facevano scempio. Che spettacoli orribili! Eppure al tempo erano graditi alla popolazione. In ogni caso, visto che siamo in argomento debbo riferirti che proprio poco fa forse ho individuato un passaggio che potrebbe condurre ai resti di questo antico anfiteatro. Sono riuscito a isolare una porta in legno, a un livello più basso rispetto al resto degli scavi, che secondo me avrebbe dovuto dare accesso alle cantine dell’antico Palazzo del Governo. E se i conti tornano, quelle cantine dovrebbero corrispondere con antichi ambienti riferibili ad alcune zone dell’anfiteatro.»

«Hai provato ad aprire la porta?»

«No, ho bisogno degli strumenti adeguati e di qualcuno che mi assista. Non vorrei provocare crolli.»

«E chi vuoi trovare come assistenti? Siamo prossimi alle festività natalizie, tutti i tuoi amici archeologi si sono dileguati ormai da un pezzo e l’amministrazione comunale ha già deciso di chiudere gli scavi a breve!»

«Credo che basti una persona. E credo che chi fa al caso mio sia ora qui di fronte a me.»

«Oh, scordati di coinvolgermi in un’altra delle tue balorde avventure solo perché fai leva sul fatto che sono innamorata di te», replicò Lucia, indignata. «Non ho alcuna voglia di rimanere sepolta viva tra i ruderi di un anfiteatro romano. E poi, sai bene che soffro di claustrofobia.»

«Lo so», ribatté Andrea sornione. «Ma so anche che la tua curiosità di studiosa riesce a prevalere su tutte le paure. Ne hai dato dimostrazione in passato. E se pensi che là sotto potresti rinvenire l’icona originale rappresentante quel leone traverso…»

«Ehi, pensi di riuscire sempre a farmi fare quello che vuoi?»

Lucia allungò nervosa una mano verso il pacchetto di sigarette e ne sfilò una per accendersela. Rimase con la sigaretta in bocca e l’accendino acceso in mano, interrotta dallo squillo del suo cellulare. Sul display compariva un numero di cellulare, non salvato in rubrica e preceduto dal prefisso internazionale +49.

Lucia e Andrea si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi lui le fece cenno di rispondere. Lucia attivò il vivavoce, in modo che anche Andrea potesse ascoltare la conversazione. Dall’altro capo del telefono, una voce maschile iniziò a parlare in lingua italiana quasi perfetta, anche se con accento marcato sulla erre.

«Parrrlo con la Contessina Lucia Baldeschi-Balleani?»

«Per servirla! A cosa debbo l’onore…?»

«Lasci che mi prrresenti! Sono Sua Altezza Imperiale e Rrregale, l’Arciduca Sigismondo d’Asburgo Lorena, Granduca titolare di Toscana e Gran Maestro dell'Insigne Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire.»

«Accidenti!», si lasciò sfuggire Andrea in un bisbiglio, per non far arrivare la sua voce al microfono del telefono. «Magari ha deciso di continuare a finanziare le nostre ricerche archeologiche!»

Lucia mise l’indice avanti al naso, per intimare al suo compagno di fare silenzio.

«È un piacere per me apprendere del suo interesse per la mia persona. A cosa debbo, se mi è lecito chiedere, questo onore?»

«Vedo che ha ricevuto un’ottima educazione, e di questo devo congratularmi con lei e con la sua famiglia. Ma veniamo al dunque. Vede, ai sensi dell'articolo 5 dell'attuale Statuto dell’Ordine di Santo Stefano, e in conformità agli antichi Statuti dell'Ordine stesso, ogni anno scelgo tre nobiluomini da elevare al grado di Balì Gran Croce di giustizia, in considerazione di alti meriti acquisiti nella vita, nel lavoro e nello studio. Mai prima d’ora questa onorificenza è stata riservata a una donna. Ma, visti i risultati dei suoi lavori di ricerca sulle origini e sulla storia della sua nobile famiglia, mi sono sentito per quest’anno di fare uno strappo alla regola. E ho deciso che sia lei la prescelta per essere da me nominata Cavaliere di Gran Croce del Balì. Pertanto, la invito ufficialmente alla cerimonia di investitura, che si terrà a Firenze nel giorno del Santo Natale.»

«Ma, Natale sarà appena tra quindici giorni! Ho degli impegni, sia di lavoro, sia personali. Sa, il mio fidanzato, la mia famiglia», cercò di prendere tempo Lucia, un po’ confusa.

«Non si preoccupi. Venga pure a Firenze in compagnia del suo fidanzato o di altri membri della sua famiglia. Chiaramente, il viaggio per lei è del tutto a mie spese. Le sto già inviando per e-mail la prenotazione per il treno Frecciarossa Ancona – Firenze, andata e ritorno, in prima classe. L’aspetto con ansia!», e riattaccò, senza neanche darle il tempo di rispondere.

Andrea e Lucia si guardarono lì per lì con aria allibita, poi scoppiarono in una risata.

«Cavaliere di Gran Croce del Balì! I miei rispetti, Madonna!», declamò Andrea con aria canzonatoria, proferendosi in un inchino. «Penso di avere abbastanza motivi per iniziare a essere geloso. A mie spese, ti accompagnerò a Firenze, non c’è da fidarsi.»

«Ma dai! Sua Eccellenza Imperiale e Regale sarà di certo una vecchia cariatide», replicò Lucia con aria divertita.

«Sua Altezza, non Sua Eccellenza», la corresse Andrea. «In ogni caso, la voce sembrava abbastanza giovanile. Non mi fido, non mi fido. Verrò con te, sempre che tu decida di andare, sia mai che ti lasci andare da sola! E poi non possiamo trascorrere il Natale uno distante dall’altra, non se ne parla nemmeno. Firenze è una bella città, una delle città più romantiche d’Italia. Meglio non sprecare l’occasione di regalarti il più appassionante bacio della tua vita sopra l’Arno, sul Ponte Vecchio.»

«Oh, e da quando in qua saresti diventato romantico, tu che sei sempre stato un ammasso di muscoli e testardaggine?»

«Beh, da quando mi hai fatto ingelosire!», sorrise Andrea. «Ma al di là di questo, Firenze è una bellissima città d’arte e potremmo unire l’utile al dilettevole. In fin dei conti qualcuno scrisse “La bellezza salverà il mondo”, o sbaglio?»

«Fedor Dostoevskij ne “L’idiota”. Prima di sbilanciarti nel pronunciare una citazione, cerca di essere sicuro di conoscere fino in fondo ciò di cui trattasi, altrimenti piuttosto che la figura dello studioso fai quella…»

«…Dell’idiota!», scoppiò in una risata, si avvicinò a Lucia, la strinse in un caloroso abbraccio, avvicinò le sue labbra al suo viso profumato e iniziò a baciarla.

«L’ultima parola è sempre la tua, eh?», riuscì a pronunciare Lucia ansimante, cercando di riprendere fiato e sfilandosi la camicetta. Sentì le mani di Andrea andare a cercare la fibbia del reggiseno per slacciarla, poi lo vide togliersi la maglia per rimanere anche lui a torso nudo. L’urgenza dei corpi nel cercare il reciproco contatto li trascinò in camera da letto, dove fresche lenzuola accolsero i due amanti ormai del tutto nudi.

«La bellezza salverà il mondo», ripeté Andrea, facendole capire che questa volta l’allusione era rivolta solo a lei.




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