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1 LA FONDAZIONE DI AESIS

297 A.C.

L'uomo che stava arando i fertili campi sulla parte declive della collina esposta a oriente non sapeva cosa fosse il ferro, ma neanche il bronzo. L'aratro era di selce ed era trainato da una coppia di docili uri, dal mantello bruno e le corna enormi, e bisognava esercitare molta forza su di esso per farlo affondare nel terreno in maniera efficiente. Kakin aveva ereditato dal padre, appartenente all’etnia dei Galli Senoni, muscoli possenti, che sembravano scolpiti tanto erano in rilievo nello sforzo del lavoro nei campi. Dalla madre aveva invece ereditato i lineamenti delicati del viso, più tipici delle popolazioni che vivevano al di là dell'Appennino, gli Umbri, ma soprattutto gli Etruschi.

Aveva già venticinque anni, ne avrebbe vissuti al massimo altri dieci, forse quindici, ma non aveva ancora trovato una donna adatta a lui. Proprio a causa della sua discendenza mista, sia le donne di origine gallica sia quelle di origine umbra temevano ritorsioni da parte delle loro famiglie, qualora si fossero accoppiate con quel bel giovane che abitava sulla collina. Del resto anche lui ci teneva alla sua indipendenza e non si sarebbe mai mescolato con i nuovi arrivati, i Romani, che avevano attraversato il fiume Sentino ed erano scesi lungo la vallata dell'Esino per iniziare a fondare l'accampamento da cui avrebbero sferrato l'assalto ai Galli Senoni. In quella limpida giornata di inizio autunno, mentre preparava i propri campi a ricevere i semi del grano, guardava l'accampamento dei Romani prendere forma nella collina opposta, al di là della quale, più a valle, scorreva il fiume. Accampamento che, nel giro di pochi giorni, aveva assunto la conformazione tipica. Sotto la guida di due consoli, erano state tracciate le due strade principali, che si incrociavano ad angolo retto tra loro nella parte più alta della collina, il Cardo Massimo e il Decumano Massimo. Girando lo sguardo alla sua destra, l'uomo vedeva le sagome delle montagne appenniniche stagliarsi evidenti contro il cielo azzurro. Riconosceva il monte più alto, dalla forma familiare, per essersi recato diverse volte alle sue pendici, affrontando due giornate di duro cammino, al fine di procurarsi un ottimo alimento che alcuni suoi lontani parenti Umbri ricavavano dal latte delle pecore che allevavano nei verdi pascoli montani. La madre e il padre gli avevano insegnato la strada quando era ancora un bambino di poco più di dieci anni. L'ultima volta che vi era stato, i suoi cugini gli avevano parlato dei Romani, che avevano fondato un importante insediamento al di là di quelle montagne, sulla riva di un fiume che avevano dedicato a un loro Dio, Giano. I Romani avevano armi in bronzo, ma anche in un altro metallo, fino a quel momento quasi sconosciuto nella penisola italica, che li rendeva invincibili anche davanti a un'incredibile superiorità numerica dei nemici. Proprio per l'importante presenza di quel metallo nelle zone limitrofe al fiume dedicato al Dio Giano, che era poi il Dio della guerra, quella vallata in mezzo alle montagne era diventata un'importante fucina di fabbricazione delle armi in ferro da parte dei fabbri romani. Così l'insediamento aveva preso il nome di Faber Janus. Sanniti, Umbri ed Etruschi si erano coalizzati per cercare di arginare l'avanzata dei romani, che avevano ormai conquistato l'intero Lazio e cercavano di estendere la loro supremazia ad altre regioni della penisola.

«Combatteremo a fianco di Gellio Ignazio, il duce sannita», dissero a Kakin i suoi cugini pastori. «Abbiamo forze almeno tre volte superiori a quelle dei Romani. Non permetteremo la loro avanzata oltre il fiume Sentino.»

«Fate attenzione! I Romani hanno armi in grado di sconfiggere anche eserciti molto potenti. Le vostre spade si spezzeranno sotto i colpi delle loro, fatte di un metallo che fa scintille quando colpisce la roccia, e rimarranno solo cadaveri sotto i loro colpi.»

Quando, alla fine dell'estate, Kakin vide i primi Romani giungere dalle sue parti, capì che le sue previsioni erano state giuste, che i suoi cugini pastori erano di certo morti e che lui non avrebbe più goduto del sapore di quel prelibato alimento chiamato Kaseo. I consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, sapevano bene che le truppe sannite scampate alla battaglia del Sentino si erano riunite con i Galli, qualche decina di miglia più a nord di quel luogo, e che la battaglia contro questo esercito sarebbe stata molto più dura che non quella da poco vinta. C'era anche la possibilità che fossero i Galli stessi, particolarmente agguerriti, a sferrare l'offensiva. Decisero pertanto che l'insediamento fondato sulle rive dell'Esino quasi cinquecento anni prima dal Re Esio, un mitico Re di origine Greca, era difficilmente difendibile. Molto meglio, anche se più scomodo, sarebbe stato fondare un nuovo accampamento sulla collina, dalla quale verso sud-est si dominava il fiume, lungo la valle giù fino al mare, mentre verso nord-ovest si poteva gettare lo sguardo verso le terre controllate da Galli e Sanniti. Quinto Fabio Rulliano depose una prima pietra quadrata sul punto più alto della collina: l'allungato crinale della stessa, piuttosto pianeggiante, sarebbe stato percorso dal Cardo Massimo. Il Decumano Massimo lo avrebbe tagliato in senso perpendicolare e, all'incrocio delle due strade principali, sarebbe sorto il Foro. Publio Decio Mure, che era più un tecnico che uno stratega, aveva invece deciso dove sarebbero sorti l'anfiteatro e il teatro e dove sarebbe stata costruita la grande cisterna per l'approvvigionamento idrico. In seguito, se l'insediamento fosse rimasto abitato, al di là della sua funzione strategica, sarebbero state costruite le Terme, i Templi e le case dei Nobili Patrizi.

Per i Romani, la collina su cui Kakin stava lavorando la terra era a mezzo miglio di distanza ed era uno dei loro primi obiettivi. Da parte sua, Kakin era abituato a calcolare le distanze in maniera diversa, in piedi, passi e giornate di cammino, ma capiva bene che quell'accampamento romano così vicino in linea d'aria rappresentava un estremo pericolo, non solo per la sua libertà, ma per la sua stessa vita. Non avrebbe mai tollerato di diventare schiavo dei Romani, e dover coltivare la sua terra per dover cedere le olive, e il grano, e l'uva, e rimanere solo con qualche frutto, a malapena sufficiente per sopravvivere. Meglio morire con onore che perdere la propria libertà.

Mentre questi pensieri affollavano il suo rozzo cervello, Kakin iniziò a udire uno strano rumore, come un sibilo, la cui intensità aumentava sempre di più, provocando un forte fastidio alle orecchie. Alzò lo sguardo verso il cielo e vide un'enorme palla di fuoco, che stava precipitando dal cielo a una velocità incredibile. Che cos'era? Non aveva mai visto nulla di simile in vita sua. L'oggetto, continuando nella sua inesorabile traiettoria, proiettò la sua ombra sulla figura di Kakin, che, da lì a qualche istante, non avrebbe rivisto mai più la luce del sole. L'impatto dell'oggetto infuocato con il terreno fu devastante. Una nuvola di terra, polvere e detriti rocciosi si sollevò per almeno trecento piedi, mentre l'oggetto, del diametro di circa duecento cubiti, sprofondava nel terreno fino a raggiungere la falda acquifera. La terra tremò con violenza e la scossa fu avvertita per miglia e miglia. Il contatto dell'oggetto incandescente con l'acqua della falda freatica fece risalire dalle viscere della terra un forte getto di vapore acqueo, che fuoriuscì dalla voragine appena formatasi. La massa di terra e detriti che si era sollevata verso l'alto ricadde in parte all'interno della voragine stessa, a ricoprire l'oggetto che ne aveva provocato l'apertura, in parte tutt'intorno per un raggio di almeno un quarto di miglio. Kakin era stato sepolto dai detriti. I Romani che stavano costruendo l'accampamento rimasero sconvolti da ciò che avevano visto. In seguito alla scossa sismica, molti erano caduti a terra e le opere che stavano costruendo erano crollate. I due Consoli, Quinto Fabio e Publio Decio, usciti dalle loro rispettive tende non appena avevano udito quello strano sibilo, erano rimasti allibiti di fronte allo spettacolo avvenuto nell'altra collina. Una nuova arma distruttiva del nemico? Cosa accidenti avevano escogitato i Galli? La prossima palla infuocata avrebbe colpito Aesis? I due Consoli scelsero un manipolo di soldati fidati e si avviarono verso la collina opposta a quella in cui stavano costruendo l'accampamento, per andare a rendersi conto di persona di cosa fosse accaduto.

Lo strato esterno di titanio e iridio aveva protetto l'interno della capsula dal surriscaldamento dovuto al contatto con l'atmosfera terrestre. Quando i sensori della sofisticata apparecchiatura di bordo evidenziarono che la temperatura interna si era abbassata a livelli accettabili, il cervellone centrale iniziò tutta una serie di controlli e comandò la disibernazione di Alfa e Beta. Le due celle di ibernazione si aprirono e, nel giro di pochi minuti, due strani individui uscirono e cominciarono a muoversi con familiarità all'interno della navetta. Alfa e Beta avevano la pelle viscida, simile a quella delle rane, e un corpo magro con lunghi arti che terminavano con mani e piedi dalle dita prensili. Le dimensioni della testa erano esagerate rispetto a quelle del corpo, al posto delle orecchie vi erano delle branchie, avevano due fori come narici al centro del volto, due occhi enormi e una bocca senza labbra. Erano anfibi, per cui potevano svolgere la funzione respiratoria sia nell'acqua, per mezzo delle branchie, sia in atmosfera ossigenata, grazie ai polmoni di cui erano forniti. Non usavano linguaggio, in quanto la comunicazione tra loro avveniva per via telepatica. Allo stesso modo, per via telepatica, riuscivano a comunicare e impartire ordini al computer di bordo. Gli altri soggetti ibernati, da Gamma a Omega, erano quanto rimaneva della popolazione di un remoto pianeta, ai limiti della galassia, duemilaseicento anni luce di distanza, alla ricerca di un nuovo pianeta che li accogliesse, in cui le condizioni climatiche e il livello culturale della popolazione favorisse la loro integrazione, al fine di poter perpetuare la specie, che non aveva più speranza in quel pianeta che stava morendo. La stella di quel sistema aveva infatti ormai esaurito la sua energia, il pianeta era sprofondato nel buio e nel gelo totale e l'unica speranza era andarsene da lì. I pochi superstiti avevano osservato bene il pianeta Terra, un pianeta circondato da un'atmosfera ricca di Ossigeno, in cui c'erano grandi masse d'acqua e nelle terre emerse esistevano insediamenti, città più o meno grandi, illuminate artificialmente durante le ore di buio, abitate da individui dotati di intelligenza non proprio pari alla loro, ma che vi si avvicinava molto. Secondo i loro calcoli, se non fossero stati visti dai Terrestri come una minaccia, sarebbero stati ben accolti, avrebbero avuto modo di utilizzare le loro tecnologie per assumere sembianze il più vicino possibile agli abitanti autoctoni e avrebbero avuto anche la possibilità di accoppiarsi con loro per garantirsi una progenie. Lo scambio sarebbe stato vantaggioso per entrambi, loro si sarebbero potuti riprodurre, mentre i terrestri avrebbero potuto trarre giovamento da nuove tecnologie fino ad allora sconosciute. Così avevano programmato il viaggio, avevano predisposto le celle di ibernazione e avevano impartito le opportune istruzioni al cervellone di bordo. Alfa e Beta erano rimasti alla consolle di comando manuale fino all'allontanamento dall'orbita del loro vecchio pianeta, poi avevano inserito il pilota automatico e si erano infilati nelle loro celle criogene. Terminata la procedura di ibernazione, il cervellone aveva impartito all'aeronave il comando per un'accelerazione estrema. Nel giro di pochi nanosecondi, la capsula fu lanciata nell'iperspazio a velocità mille volte superiore a quella della luce, coprendo una distanza incredibile in un tempo relativamente breve. In pratica l'aeronave aveva percorso, in un tempo corrispondente a quello che erano tre anni nel suo pianeta di origine, una distanza di duemilaseicento anni luce.

Alfa e Beta saggiarono innanzitutto l'ambiente in cui erano in quel momento. La capsula era immersa nell'acqua, ma la pressione non era tale da far pensare a profondità oceaniche. Era un leggero strato di acqua, al di sopra del quale c'era atmosfera ossigenata. In ogni caso per uscire all'esterno dovevano servirsi della camera stagna, al fine di evitare che del liquido entrasse all'interno, rovinando le apparecchiature elettroniche. Risalirono, respirando per mezzo delle branchie, fino a pelo dell'acqua, da cui, parecchio più in alto, potevano vedere arrivare della luce. Aiutandosi con mani e piedi, come mosche, cominciarono a risalire le pareti verticali di quel pozzo, scavato dalla caduta della loro stessa aeronave. Man mano che salivano, la luce che giungeva dall’alto appariva sempre più evidente. Dal foro circolare, Alfa e Beta potevano vedere un cielo azzurro, cosa che in vita loro non avevano mai potuto ammirare. Mentre guardavano in alto videro alcune teste sporgersi nell'apertura. Si appiattirono contro le pareti del pozzo cilindrico, mentre un secchio legato a una corda scendeva all'interno e risaliva poco dopo pieno d'acqua.

Quinto Fabio e Publio Decio, giunti sul posto, avevano visto la voragine prodotta dalla palla di fuoco piovuta dal cielo. Poco più in là, dalla terra smossa fuoriusciva la testa di un uro dalle grosse corna.

«Quell'animale è ancora vivo, tiratelo fuori e soccorretelo, può esserci utile. E scavate quella terra, deve esserci un altro bovino e un uomo», ordinò Publio Decio ad alcuni uomini. «Di solito i galli fanno lavorare questi animali in coppia e il contadino guida l'aratro a tracciare i solchi.»

Quinto Fabio si preoccupò invece di guardare cosa ci fosse in fondo alla voragine e notò dell'acqua, ma non si accorse nella maniera più assoluta dei due strani esseri che stavano risalendo lungo le pareti di terra. Ordinò a un soldato di legare un secchio a una corda e di prelevare l'acqua.

«Quell'oggetto ha scavato per noi un pozzo, proviamo se l'acqua è buona!»

Ordinò poi a uno dei suoi uomini di assaggiarla. Come questi bevve, subì una trasformazione evidente. La pelle, resa rugosa dal sole e dalle cicatrici delle battaglie, ridiventò liscia come quella di un ragazzino dedito ai primi esercizi con le armi, i muscoli divennero vigorosi ed evidenti sulle superfici lasciate scoperte dalla tunica, l'aria malaticcia del soldato, dovuta a un enfisema polmonare incipiente, si dileguò. Quinto Fabio prese la spada e abbatté l'uomo, in quanto non poteva sopportare che uno dei suoi soldati apparisse più forte e più bello di lui. Poi bevve con avidità l'acqua del secchio fino a non farne rimanere neanche una goccia. Nel giro di pochi secondi, il suo corpo di veterano si trasformò in un robusto e giovane guerriero. Quinto si sentiva come quando, sedicenne, aveva preso per la prima volta in mano una spada di ferro e aveva sfidato i suoi commilitoni sopraffacendoli uno dopo l'altro. Mentre ammirava i suoi poderosi bicipiti, i due esseri viscidi fuoriuscirono dal pozzo, attirando l'attenzione del manipolo di soldati romani che, vedendoli come strani nemici o come fonte inusuale di cibo, si avventarono su di loro. Ogni colpo che cercavano di sferrare con lance, spade, asce o con le mani nude, veniva bloccato da un'invisibile barriera che circondava i due strani soggetti.

Alfa comunicò con Beta per mezzo delle onde cerebrali.

«Questi esseri sono strani, non sono affatto intelligenti come ci aspettavamo. Anche l'ambiente è del tutto diverso da quello che avremmo dovuto trovare in base alle nostre osservazioni.»

«Cerchiamo di catturare i soggetti più interessanti e portiamoli all'interno della navetta, avremo modo di studiarli e di fare le opportune considerazioni. Prendiamo quello che sembra il capo e l'uomo che hanno appena tirato fuori dalla terra, sembrano i più forti. Neutralizziamo tutti gli altri. Meglio non avere testimoni per il momento.»

Puntando il dito indice della mano destra verso i loro bersagli, neutralizzarono uno per uno i soldati Romani, che caddero tramortiti sul terreno, colpiti da un intensissimo raggio laser. Non sarebbero morti, sarebbero in seguito rinvenuti, ma non avrebbero ricordato nulla dell'incontro con gli alieni.

Alfa prese Kakin, mentre Beta si caricava sulle spalle Quinto Fabio, anch'egli reso innocuo dal raggio laser, e si addentrarono di nuovo nel pozzo verticale, per rientrare nell'aeronave con i loro prigionieri. Sia Kakin che Quinto Fabio vennero sistemati, ancora inermi, in una nicchia apposita, in cui il computer di bordo avrebbe studiato la loro costituzione chimica e fisica, le funzioni vitali e il corredo genetico. A polsi e caviglie furono applicati degli elettrodi, mentre la testa dei due soggetti veniva inserita all'interno di una specie di casco.

Mentre il computer elaborava i dati relativi ai due terrestri, Beta faceva rapidi calcoli nella sua mente. Quando giunse alle conclusioni, le comunicò ad Alfa.

«Mentre eravamo ibernati, la navetta ha viaggiato a una velocità mille volte superiore a quella della luce. Abbiamo percorso uno spazio infinitamente grande in poco tempo. Considerando che il nostro pianeta è distante 2.600 anni luce da qui, noi abbiamo osservato la Terra come sarà tra più di due millenni rispetto al periodo in cui siamo ora!»

«E quindi non abbiamo speranze di sopravvivenza qui?»

«Non è detto. L'autonomia di queste apparecchiature è di circa duemila dei nostri anni, corrispondenti a tremila anni terrestri. Possiamo lasciare ibernati i nostri compagni e programmare il loro risveglio in un periodo più idoneo.»

«Le celle di ibernazione hanno questa autonomia, ma non il computer di bordo. La procedura dovrà essere attivata manualmente da qualcuno. Chi lo farà fra più di 2.500 anni?»

«Dobbiamo appropriarci dei corpi di questi due terrestri. Addestreremo la nostra progenie in modo che al momento opportuno sia in grado di attivare le procedure e risvegliare i nostri compagni», disse Beta, cominciando a visionare i risultati delle analisi eseguite dal computer sui corpi dei terrestri.

Su un monitor scorrevano dati relativi a Kakin.

Funzioni vitali interrotte, ma facilmente ripristinabili.

Soggetto giovane, cellule in buono stato.

Circonvoluzioni cerebrali dallo sviluppo piuttosto limitato.

La superficie della corteccia cerebrale può essere notevolmente aumentata artificialmente.

Possibilità di respirare solo in ambiente ossigenato.

Possibilità di resistere a lungo in apnea, grazie a una grande capacità polmonare. Niente branchie.

Corredo genetico costituito da ventitré coppie di cromosomi, dati dalla combinazione di nucleotidi complessi.

Beta applicò due elettrodi piatti alla zona toracica di Kakin. L'elaboratore inviò una serie di stimolazioni elettriche, alla giusta intensità e distanziate tra loro in maniera calcolata, fino a riportare il cuore, dopo alcune extrasistoli, a un ritmo sinusale normale. Il torace si sollevò una, due volte, poi anche il respiro si fece regolare. A quel punto, Beta cercò una vena nel braccio del terrestre, vi infilò un ago, collegato tramite un tubo flessibile a uno strano contenitore, poi elaborò nella sua mente delle istruzioni e osservò di nuovo il monitor.

Prima inoculazione di nanobot in corso.

Inoculazione completata.

Nanobot pronti ad adattare i codici genetici dell'ospite al corpo di Alfa.

Eseguito.

Alfa si coricò a fianco del corpo di Kakin e, in breve, i due corpi si fusero: Alfa scomparve all'interno del terrestre, che cominciò a dare segni di rianimazione.

Seconda inoculazione di nanobot in corso.

Inoculazione completata.

Nanobot in opera su circonvoluzioni cerebrali e manipolazione della memoria.

Eseguito.

Tutti i nanobot rimarranno in stand by nel torrente circolatorio, pronti a intervenire nella riparazione di cellule degenerate, invecchiate o impazzite.

Processo completato.

Kakin Alfa si alzò.

Le stesse fasi furono ripetute sul corpo di Quinto Fabio. Dopo aver inoculato l'ago in una vena dell'altro individuo, anche Beta si distese accanto al terrestre che gli avrebbe donato il suo corpo. Dopo qualche minuto, Quinto Fabio Beta si sollevò dalla sua nicchia. I due adesso erano anche in grado di comunicare tra loro, e con i terrestri con cui sarebbero venuti in contatto, per mezzo del linguaggio verbale. Entrambi potevano parlare sia il linguaggio dei Romani, che quello dei Galli, e le loro menti avevano la possibilità di sviluppare quei primordiali linguaggi per renderli molto più fluidi e adatti alla comunicazione. Un nuovo senso, mai utilizzato nel loro pianeta d'origine, era l'udito. Era strano, ma molto interessante, riuscire a elaborare i suoni che giungevano a quegli strani nuovi accessori della loro testa, che erano le orecchie. Anche se potevano ancora comunicare per via telepatica, riuscivano ora a intendersi anche per mezzo dei suoni. Era incredibile come emettendo aria dalla bocca e sincronizzando i movimenti di gola, labbra e lingua riuscissero a pronunciare un'infinita varietà di suoni. Ci avrebbero messo pochi minuti, grazie alla loro intelligenza, a imparare a utilizzare queste due nuove funzioni, la voce e l'udito.

I loro corpi nel tempo sarebbero comunque invecchiati. I nanobot avevano infatti la capacità di riparare e rimpiazzare cellule malate, ma avevano una limitata possibilità di rallentare il processo di invecchiamento corporeo. Nel loro pianeta di origine, i nanobot mantenevano in perfetta efficacia un corpo per circa settanta, settantacinque anni, che corrispondevano a circa cento anni terrestri. Per cui Alfa e Beta sapevano che ogni cento anni sarebbero dovuti ritornare alla loro navetta per trasferire il loro essere e la loro mente in un nuovo corpo terrestre. Ma avrebbero avuto tutto il tempo di pensare alle strategie da adottare. Adesso dovevano risalire in superficie e iniziare la loro dura vita sul pianeta Terra.

Ritornati alla luce del sole, un sole che scaldava la loro pelle in maniera inaspettata, si divisero i compiti, per avere la possibilità di proteggere al massimo il sito nel tempo. Kakin Alfa sarebbe rimasto sulla collina, avrebbe costruito un pozzo in muratura che avrebbe garantito l'accesso alla navetta in qualsiasi momento. Avrebbe continuato a coltivare la terra come se fosse il Gallo Kakin e niente fosse accaduto, ma avrebbe comunque costruito delle fortificazioni in pietra, per difendere la collina da eventuali curiosi, male o bene intenzionati.

Dal canto suo, Quinto Fabio Beta, con il suo manipolo di uomini, che non ricordavano nulla se non che erano andati a vedere gli effetti della caduta di quello strano oggetto infuocato, sarebbe ritornato a dirigere i lavori di costruzione della nuova città romana: Aesis. Avrebbe applicato alla sua realizzazione delle nozioni di ingegneria che i Romani non conoscevano e, nel giro di cinquanta anni, la città sarebbe stata una tra le colonie romane più fiorenti e inespugnabili, protetta da possenti mura, avamposto dei Romani verso i territori ancora occupati dai Galli. Sulla parte più alta della città si trovava il Foro, dove banchieri, commercianti e agrari si incontravano. Poco distante sorgevano l'anfiteatro e le Terme. L'enorme cisterna d'acqua, situata nel settore nord orientale della parte più alta della città, comunicava, per mezzo di un ingegnoso e nascosto canale sotterraneo, con il pozzo dall'acqua portentosa situato nella collina opposta. Quinto Fabio aveva provveduto a uccidere tutti gli schiavi utilizzati per la costruzione di quel canale, in quanto nessuno doveva essere a conoscenza della sua esistenza.

Cinquecento anni dopo la fondazione di Roma, a cinquant'anni circa dalla battaglia del Sentino, Aesis era ancora retta dall'anziano console Quinto Fabio Rulliano, che aveva debellato le limitrofe popolazioni di Galli Senoni e Sanniti, per aprire la strada alle conquiste romane verso le coste dell'Adriatico. Ma la collina abitata dal Gallo Kakin, noto alleato dei Romani e di Quinto Fabio, non era mai stata attaccata e ne era stata sempre garantita l'indipendenza, mai messa in discussione da nessun abitante di Aesis.

Tranquilla Cittadina Di Provincia

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