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Vicent Ferrer e la predicazione medievale

Vicent Ferrer and medieval preaching

Carlo Delcorno

Università degli Studi di Bologna

ORCID: https://orcid.org/0000-0002-3723-0542

Riassunto: La predicazione di Ferrer rinnova il sermone medievale nei temi e nelle forme retoriche. La bolla di canonizzazione e l’iconografia diffusa dall’Ordine dei Predicatori mette l’accento sul contenuto apocalittico del suo messaggio, che peraltro ha come fine l’invito alla penitenza e si fonda sulla precisa denuncia dei mali che corrompono la società contemporanea. Lo studio di un campione degli schemi personali copiati nel ms 477 del convento di S. Domenico di Perugia (1407-1412) mette in evidenza l’attenzione per le architetture più adatte all’uditorio laico: lo svolgimento iuxta seriem evangelii, già noto a Tommaso d’Aquino e alla sua scuola (da Remigio dei Girolami a Giordano da Pisa a Aldobrandino da Toscanella); le grandi allegorie delineate con minuziosi particolari (la nave della penitenza, la battaglia spirituale). La novità della sua predicazione si dimostra in modo straordinario nei panegirici dei santi, per i quali egli utilizza la ricchissima letteratura liturgica ed agiografica promossa dai Frati Predicatori, in particolare le Vitae Patrum e la Legenda aurea di Iacopo da Varazze. L’analisi dei sermoni per la festa di s. Giorgio (dallo schema del codice di Perugia alle reportationes latine e volgari fino ai modelli messi a stampa) sono un efficace esempio delle molteplici innovazioni drammatiche di un racconto fissato a grandi linee da Iacopo di Varazze.

Parole chiave: Predicazione, Domenicani, Retorica, Agiografia, Allegoria, Pubblico.

Abstract: Vicent Ferrer deeply renewed the contents and rhetorical structures of the medieval sermon. The bull of canonization as well as the iconography elaborated by the Dominicans underline Ferrer’s apocalyptical message strictly connected with an exhortation to do penance as an atonement for the sins of a corrupted society. A sample of the schemes preached in the years 1407-1412 and collected in Perugia, Library of S. Domenico; MS 477, highlights Ferrer’s preference for simple rhetorical structures, particularly useful for a lay audience. Ferrer often chose a multiplicity of items inspired by a pericope (iuxta seriem evangelii), a strategy already adopted by Thomas Aquinas and his disciples (Remigio dei Girolami, Giordano da Pisa, Aldobrandino da Toscanella). Moreover, Ferrer favoured the allegorical developments based on a dominant image (e.g. the ship of penitence, the spiritual battle). His mastery clearly emerges in the panegyrics of the saints, where he exploited a rich liturgical and hagiographical tradition, particularly drawing from the works diffused in the Dominican school, such as the Vitae Patrum and the Golden Legend. The examination of the sermons for the feast of Saint George (the scheme of the Perugia manuscript, the Latin and vernacular reportationes, the printed model sermons) perfectly shows Ferrer’s original dramatic style in developing a previously established hagiographical narrative. Keywords: Preaching, Dominicans, Rhetoric, Hagiography, Allegory, Audience.

A Vicent Ferrer si deve riconoscere innanzitutto la singolare consapevolezza della funzione storica che l’Ordine dei Predicatori, congiuntamente a quello dei Minori, ebbe lungo i quasi due secoli trascorsi dal momento della fondazione; e in quel quadro spicca la convinzione ferma del proprio compito di missionario della penitenza e della conversione nell’attesa escatologica. La famosa visione avvenuta nel convento domenicano di Avignone il 3 ottobre 1398, e raccontata da Ferrer nella lettera inviata a Benedetto XIII da Alcaňiz il 27 luglio 1412, mette in scena i due santi fondatori, Domenico e Francesco, in preghiera ai piedi di Cristo, e Cristo stesso che, da loro accompagnato, scende al letto del «religiosus valde infirmus» cioè frate Vicent, tocca la sua mascella quasi accarezzandolo, con un gesto che indica il compito di riprendere e rilanciare la predicazione itinerante dei Mendicanti: «maxillam eius tangens quasi demulcendo, manifeste innuebat eidem religioso infirmo, quod ipse iret per mundum apostolice predicando quemadmodum predicti sancti fecerant» (Ferrer, 2002: 559). È noto che lo stesso Benedetto XIII provvide a diffondere questo testo, ed è significativo che un’ampia parte sia dipinta alle spalle di uno dei più antichi ritratti di Ferrer, precedenti la canonizzazione, in un affresco della cappella di Santa Maria Assunta di La Stella (Macello, Pinerolo) (Rusconi 2016, 310). La visione di Ferrer è modellata sulla cosiddetta visione delle tre frecce, l’episodio fondante dell’Ordine dei Predicatori. Cristo - così si legge ad esempio nella Legenda aurea (cap. CIX De sancto Dominico) - nel punto in cui sta per scagliare tre frecce sul mondo irrimediabilmente corrotto è trattenuto dalla Madre, e concede una proroga, un breve tempo prima della fine del mondo, in cui trova spazio la predicazione di penitenza dei Mendicanti (Iacopo da Varazze, 1998: 724). Nella situazione fallimentare della società, della Chiesa ferita dallo Scisma, degli stessi Ordini Mendicanti, tale prorogatio è rinnovata nella persona di frate Vicent, predicatore apostolico «a latere Christi» (De Garganta, 1980:138), identificato con il primo degli angeli dell’Apocalisse che, inviato «ante diem iuditii» grida: «Timete Dominum […] quia venit hora iudicii eius» (Apc 14, 6). Questo evento, che dà l’avvio alla ventennale itineranza apostolica di Ferrer, è più volte ricordato nella sua predicazione, ben prima della sopra citata lettera di Alcaňiz. Così nel sermone sull’Anticristo recitato a Toledo l’8 luglio 1411 egli racconta la visione, la «revelación a un religioso que es vivo», sempre riferendola ad una terza persona: «E yo lo conosco e yo he fablado con él e me lo dixo por muchas vezes» (Catedra, 1994: 571). Ferrer rilanciava in termini nuovi la predicazione escatologica che connota l’ordine domenicano fin dalle origini, come documentano la bolla di canonizzazione di s. Domenico, la Fons sapientiae (3 luglio 1234), animata da accenti gioachimiti (De Fraja, 1999: 397-398; Rainini, 2002: 307-342; Bériou-Hodel, 2019: 766)¸ e la tradizione dei panegirici in suo onore. Così in uno dei sermoni di Iacopo da Varazze per la festa del santo, egli è identificato con la stella della sera contrapposta a quella del mattino, cioè Giovanni Battista (Iacopo da Varazze, De sanctis: 8ra; cfr. Delcorno, 1986, 59):

Sicut enim Johannes Baptista huius previum prenunpciavit adventum, sic et iste vicinum creditur prevenisse judicium (Luc. XIIII ‘misit servum suum’ idest, secundum Gregorium, ordinem predicatorum, ‘hora cene’, idest in fine seculi). Missus est ergo iste servus in extremo temporum quia, sicut dicitur 1 Cor. X ‘Nos sumus in quos fines seculorum devenerunt’[…] Missus est ab extremis terre, idest de finibus Yspanie […] Missus est usque ad extremum terre […] Missus pro extremo fine, pro assequendo extremum finem idest ipsum Deum.

Predicare la penitenza nell’imminenza della fine e del Giudizio è idea ben radicata nella tradizione domenicana e nell’ambiente in cui cresce Ferrer (Esponera Cerdan, 1998: 351). La tensione emozionale nell’attesa della fine che incombe «cito, et bene cito, ac valde breviter» (Ferrer, 2002: 562) è il ‘motore’ della sua predicazione (Ysern i Lagarda, 2015: 33) poiché l’esortazione alla conversione e alla battaglia contro i vizi acquista una specifica urgenza proprio perché il tempo è ormai brevissimo. È, questo, il messaggio trasmesso dalla iconografia diffusa dall’ordine dei Predicatori dopo la canonizzazione: il santo alza l’indice della destra verso la scena sovrastante del Giudizio ultimo, e con la sinistra regge un libro aperto su Apocalisse 14, 7; ma talvolta su altri testi, come nel celebre polittico dipinto (c. 1472) dai ferraresi Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti, un tempo nella cappella della famiglia Griffoni in S. Petronio, a Bologna, e ricomposto in occasione di una mostra al Palazzo Fava della stessa città (Natale-Cavalca, 2020: 212).

«Que predicaba san Vicente Ferrer?» era la questione che Josep Maria de Garganta poneva in una memorabile relazione tenuta a Roma nel 1979 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, e rispondeva con un rapido e completo elenco dei temi dottrinali e morali della predicazione di Ferrer, che in gran parte coincidono con gli argomenti comuni alla predicazione ‘nuova’ degli Ordini Mendicanti, e peraltro sottolineava la specifica preoccupazione ‘apostolica’ per le minoranze religiose, le comunità ebraiche e islamiche («la presencia de moros y judios»),1 così vive e importanti nella società contemporanea (De Garganta, 1980: 147). Lungo questa direttiva altri recenti studiosi, e in particolare alcuni autori di notevoli antologie della predicazione di Ferrer, hanno messo in rilievo la sua tendenza a rinnovare originalmente un sistema dottrinale e pastorale ereditato dalla cultura e dalla spiritualità domenicana, un complesso di argomenti già indicati sommariamente nelle Constitutiones dell’Ordine dei Predicatori e nel commento di Umberto di Romans (De Garganta, 1980: 148-149). Orientata dal versetto tematico suggerito dalla liturgia, la predicazione di san Vicente è «un cosmos perfectamente cerrado» che accoglie gli argomenti più diversi con sorprendente libertà (Ysern i Lagarda, 2015: 99). Egli ha per fine la divulgazione delle verità della fede opposta alla deriva delle pratiche magiche e superstiziose, l’educazione ai sacramenti (a cominciare dalla confessione) e alla preghiera; su questa base è costruito l’insegnamento propriamente morale, che riguarda a tutto campo la società del suo tempo negli aspetti pubblici e privati: dall’amministrazione della giustizia al commercio e al lavoro; dal comportamento sessuale al gioco, alla bestemmia. Tuttavia quello che può sembrare un repertorio comune alla predicazione dei Mendicanti è proposto con una straordinaria tensione spirituale, con una partecipazione attenta alle vicende politiche, con un’oratoria inimitabile che unisce l’abilità retorica, le doti di un giullare e l’uso della lingua parlata. In questo mio contributo vorrei mettere in rilievo, sia pur sommariamente e per campioni, l’intreccio di tradizione e innovazione nella architettura del sermone, nell’uso degli strumenti di lavoro, e nella drammatizzazione del racconto agiografico.

La predicazione è una delle forme più complesse e, per certi aspetti, più raffinate della retorica medievale, e se ne ha conferma dal corpus dei sermoni volgari e latini di Ferrer. Componente non trascurabile del suo successo è la cura esigente della parola in tutti i suoi aspetti, la sua «conciencia estilistica» (Ysern i Lagarda, 2015: 76). Non di rado egli richiama la necessità di preparare accuratamente il sermone, con l’atteggiamento del buon artista che si compiace dell’efficacia e della bellezza della sua parola, e prova a suo modo «una punta de satisfació literaria» (Fuster, 1975: 141). In un sermone inedito sulla «vera dilectio» - Audistis quia dictum est: Diligite inimicos vestros [Mt 5,43] - alla vanagloria che rovina le iniziative virtuose si contrappone l’ onesta soddisfazione di chi vede il felice compimento della propria iniziativa; in particolare del predicatore che prova «quoddam gaudium mentis et complacentia cordis»2. In una predica sulla moltiplicazione dei pani - Colligite que superaverunt fragmenta (Io 6, 12) – uno dei pani è allegoricamente inteso come la «providencia intellectualis» della quale Cristo dà esempio chiedendo consiglio a Filippo, che pure è il meno acuto tra gli apostoli, «ut in dubiis non verecundemur petere consilium ab illis qui sciunt»; e ciò per ammonire i cattivi predicatori «qui nunquam studuerunt theologiam» e si vergognano di usare i sermonari preparati da altri, «ymo verecundantur studere in sermonibus aliorum vel petere auctoritatum declaraciones».3

Negli anni di preparazione passati negli Studia di València, Lérida, Barcelona, e poi nel periodo trascorso alla corte pontificia di Avignone e nelle missioni in Italia, Ferrer dovette conoscere in tutta la sua ampia e varia tradizione l’ars praedicandi elaborata dai Mendicanti, ed ebbe familiarità con gli strumenti di lavoro preparati dai Domenicani, a cominciare dai sermoni modello, ai quali. come si è visto nel sermone Colligite, egli allude esplicitamente. Non si può escludere che egli avesse notizia dell’Ars predicandi populo di Francesco Eiximenis, una delle prime opere del famoso frate francescano; non potevano lasciarlo indifferente la trattazione delle forme retoriche adatte alla predicazione ai laici, la dettagliata esposizione dell’ars memorativa che cattura l’attenzione con le immagini (imagines agentes).4 Tuttavia si è notato che Ferrer, rivolgendosi al pubblico, ricorre proprio ad una formula («Bona gent») in uso nell’oratoria civile (Fuster, 1995: 125, nota 144) e censurata dal trattato di Eiximenis (Martínez Romero, 2002: 56). Non pochi studiosi (De Garganta, 1980: 156; Robles Sierra in Ferrer, 1995, 24) hanno piuttosto richiamato l’attenzione sull’influsso decisivo della tradizione retorica propria dell’ordine dei Predicatori, in particolare del De modo componendi sermones di Tommaso Waleys, che si ispirava alla propria esperienza di insegnamento negli Studia dell’Ordine («secundum ea quae in Ordine Praedicatorum a pueritia enutritus et in diversis studiis generalibus ac provinciis conversatus de arte huiusmodi comprehendo») (Charland, 1936: 95 e 328), oltre che alla conoscenza diretta della predicazione italiana e avignonese.5 Nemico del formalismo, Waleys prova simpatia per gli schemi popolari che danno spazio alle narrazioni evangeliche, e pone una netta distinzione tra le artificiose e complesse strutture del sermone universitario e il più semplice disegno che procede per distinctiones, adatto all’uditorio laico, e prediletto –come subito vedremo – da Ferrer. La predicazione di san Vicente Ferrer è documentata da uno straordinario corpus di testi: dagli schemi brevissimi ad uso proprio e dei suoi discepoli alle reportationes latine e catalane fino alla raccolta dei manoscritti di Tolosa preparata in vista della canonizzazione, dalla quale probabilmente deriva la serie dei sermonari latini a stampa (Gimeno Blay, 2019: 155).

La varia sperimentazione delle forme retoriche del sermone medievale e le scelte decisive di Ferrer sono documentate nel codice del convento domenicano di Perugia (ms. 477) che contiene ben 477 schedulae raccolte a cominciare dal 1407, con successive aggiunte fino ad una data posteriore al 1412, anno della già citata lettera a Benedetto XIII copiata sotto il num 430.6 Il sermonario riflette una lunga esperienza: copiato quando il santo è ancora attivo, è uno strumento messo a disposizione dei suoi discepoli. Già l’osservazione di una parte, sia pure ridotta, delle schede (le prime 150), permette di identificare una linea netta di tendenza e di scelte retoriche: si tratta degli schemi per le prediche di Avvento, del periodo natalizio, della Quaresima fino alla settimana dopo l’ottava di Pasqua; si aggiungono, ad apertura del sermonario, i sermoni dalla domenica XXII alla domenica XXIV post Trinitatem7. Solo 14 sermoni sono costruiti mediante divisio del versetto tematico8, secondo le norme del sermone moderno o scolastico, «iuxta singula verba» come si esprime Ferrer all’inizio dello schema «De beato Thoma apostolo» (num. 45) o «iuxta verbum thematis» come si legge nella divisione del sermone per la domenica infra Octavam Epiphanie (num. 64). Thema ovvero fondamento del discorso, in questo caso, è il versetto Proficiebat sapientia et etate et gratia (Lc 2, 52), articolato in tre membri che riprendono le tre parole (o dictiones) «sapientia», «etate», «gratia». Gran parte di questi 14 schemi sono ripetuti nei cicli di predicazione di Ferrer, ma alcuni sono abbandonati, forse perché troppo complicati9.

Ben più frequentemente Ferrer ricorre ad un altro modo di articolazione del discorso, che fa riferimento non alle singole parole del thema, ma all’intera pericope, percorsa per intero e suddivisa con criteri analoghi a quelli in uso nell’esegesi biblica e nelle antiche omelie. Basti un esempio, la scheda per il lunedì dopo la domenica delle Palme (num. 136): un abbozzo che Ferrer sviluppò e colorì molte volte nella sua predicazione effettiva (Perarnau i Espelt,1999b; 791, num. 875). Il versetto tematico è Venit vox de celo dicens: Et clarificavi, et iterum clarificabo (Io 12, 28), e il sermone riguarda le forme di onore secondo le quali Cristo è glorificato: con l’amicizia («ex amicabili dilectione»), con l’ammirazione («ex intellectuali admiratione»), con la devozione («ex spirituali devotione»), per la voce del Padre («ex celestiali loqutione»). Questi punti sono esposti e illustrati «iuxta seriem Evangelii hodierni», percorrendo per intero il capitolo 12 del vangelo di Giovanni (la cena di Betania e l’unzione dei piedi di Gesù, il suo ingresso trionfale in Gerusalemme, la richiesta dei Gentili di vedere Gesù, e infine la proclamazione dall’alto).

Nelle prime 150 schede del codice di Perugia, che abbiamo scelto come campione, il modello «iuxta seriem evangelii» ricorre 36 volte, con una frequenza particolare nei sermoni di quaresima10. Un tale disegno narrativo era singolarmente adatto alla presentazione dei vangeli quaresimali incentrati su scene e episodi noti al pubblico laico. Non è un caso che sia costantemente usato nelle domeniche della Quaresima11, quando la presenza dei fedeli doveva essere più numerosa: si tratta allora delle tentazioni nel deserto (num. 99), della preghiera della donna Cananea (num. 106), dell’ingresso trionfale in Geruslemma (num. 135), episodi notissimi, che si prestavano a veicolare e memorizzare efficacemente gli insegnamenti dottrinali e morali del santo12.

Questo metodo espositivo che tempera il rigore delle enumerazioni con l’esposizione omiletica dei racconti evangelici era ben nota ai Mendicanti e soprattutto era in uso nella scuola domenicana. Sembra ben noto a Parigi, come documentano alcune reportationes del 1272-73: un sermone tenuto a Saint Gervais dal domenicano Gilles d’Orléans13, e un sermone di un anonimo francescano alle beghine nella domenica delle Palme14. Ma una testimonianza più antica e autorevole si trova nella predicazione di Tommaso d’Aquino, il quale costruisce i suoi sermoni dividendo il versetto tematico, ma poi, sviluppando il discorso, richiama l’intera pericope. Conviene riflettere su quanto dice padre Bataillon nell’Introduzione alla sua edizione critica: «Thomas, tout en explicant le verset choisi, souvent le premier de la péricope évangelique, en le divisant et le developpant, arrive à donner également une explication de tout le passage liturgique»(Tommaso d’Aquino, 2014:137*). Se ne può vedere un esempio nel sermone per la prima domenica di Avvento, svolto a Parigi il 1 dicembre 1269: Osanna filio David. Benedictus qui venit in nomine Domini. Osanna in excelsis (Mt 21, 9). La tavola del sermone (divisio sermonis) premessa al testo dall’editore permette di constatare che san Tommaso ha sì diviso in tre parti il versetto tematico, ma in seguito tratta l’argomento con suddivisioni che permettono di richiamare e di raccontare l’intero evangelo. È una scelta bilanciata tra sermo modernus, commentario biblico e antica omelia che è accolta nei sermonari dei primi discepoli italiani di san Tommaso, ad esempio Remigio de’ Girolami e il suo allievo Giordano da Pisa, Ambrogio Sansedoni e Aldobrandino da Toscanella (Delcorno, 1975:102-103; Delcorno, 2015: 516-517). Meritano particolare attenzione i sermoni modello di Aldobrandino, attivo nella Provincia Romana nell’ultimo ventennio del secolo XIII e autore di strumenti per la predicazione molto diffusi in tutta Europa (Kaeppeli, 1970: 239-246). Nel suo sermonario De Tempore la formula in tota serie evangelii è usata sistematicamente, si direbbe col valore di un termine tecnico. Si veda, ad esempio, il sermone per la domenica II di Avvento, sulla ‘piccola apocalisse’ di Luca: Erunt signa in sole et luna et stellis (Lc 21, 25-33). costruito appunto su quattro punti che toccano ordinatamente l’intera pericope evangelica. «In tota serie huius evangelii domenicalis de quatuor agitur» è la proposizione iniziale che si riferisce a v. 25 (Erunt signa), v. 27 (tunc videbunt filium hominis), v. 28 (hiis autem fieri incipientibus), v. 29 (videte ficulneam) (Aldobrandino da Toscanella: 14va; cfr. Schneyer, 1969: 223, num. 5). È un modulo compositivo che trova ulteriore testimonianza nella predicazione domenicana fra Tre e Quattrocento, ed esattamente tra i sermoni latini di un altro illustre predicatore, Giovanni Dominici (1355-1419), contemporaneo di Vicent Ferrer (Colosio,1970: 9-48; Ben Aryeh Debby, 2001; Delcorno, 2018: 175-179). In un codice miscellaneo di fine Trecento che contiene sermoni de Tempore e de sanctis attribuiti al Dominici si legge un panegirico per santo Stefano che ha per thema un versetto della invettiva di Cristo contro scribi e farisei, Ierusalem, Ierusalem que occidis prophetas etc. (Mt 23, 37). L’incipit ricorre alla nota formula: «Ex serie huius evangeli aggravatur peccatum Iudeorum circa necem sanctorum ex quinque», cioè «a bonitate interfectorum», «a modo interficiendi», «diuturnitate temporis», «a sanctitate loci», «a cause iniustitia»; argomenti svolti con rinvio ai versetti 34a, 34b, 32 e 35, 3715.

Come molti dei predicatori popolari anche Ferrer ricorre prevalentemente alle distinctiones, a serie di argomenti suggeriti dal versetto tematico, o alla pericope liturgica presa nel suo assieme. È una costruzione semplice, facilmente memorizzabile, ma non uniforme, anzi adatta a originali e sempre nuove variazioni. Particolarmente efficace e memorabile era la struttura per distinctiones quando l’intero sermone si basava su un’unica allegoria. Un ottimo esempio si trova nella scheda del Sermonario di Perugia per il sabato dopo le Ceneri (Ferrer, 2002: num. 98) che ha per thema Erat navis in medio mari (Mc 6, 47). La nave, stretta agli estremi e larga al centro, è allegoria della penitenza, che è difficile all’inizio e anche alla fine, quando si approssima la fine della vita, mentre è agevole quando si è entrati in quello stato. Le tre coperte della nave rappresentano le tre parti della penitenza (contrizione, confessione e soddisfazione); l’albero è la croce, la vela indica la «caro Christi mundissima», mentre la gabbia è l’iscrizione dettata da Pilato. Nei pericoli della navigazione, così continua l’allegoria, è necessario affidarsi a un gubernator esperto, cioè Cristo. Ferrer rinnova a suo modo un’allegoria antica, molto diffusa nella letteratura cristiana. Tuttavia l’allegoria della navigazione, che rappresenta la vita umana o la vita religiosa o la penitenza, è topos particolarmente vivo nella tradizione domenicana (Bataillon, 1992: XI, 386). Le immagini marinare sono presenti sporadicamente anche in altri sermoni, come in quello per la festa dei santi Pietro e Paolo (Ferreiro, 1998), ma non pare che Ferrer abbia avuto una particolare predilezione per questo tipo di allegoria: lo schema del Sermonario perugino risulta utilizzato solo nella raccolta dei sermoni modello messi a stampa (Ferrer, 1488: p4rb-va).

Ebbe invece grande successo la predica sulla battaglia spirituale tra vizi e virtù, tra Carnevale e Quaresima, una grande allegoria suggerita dal vangelo per la terza domenica di quaresima: Fortis armatus custodit atrium suum (Lc 11, 21). La schedula perugina (Ferrer, 2002: num. 113) fu ampliata e colorita in molteplici variazioni documentate nelle reportationes catalane e latine e nelle raccolte a stampa (Perarnau i Espelt, 1999b: num. 354). Si tratta, come è stato detto, di un testo «totalizador», che raccoglie le molteplici allusioni al tema della pugna spiritualis disseminate in tutta la predicazione del santo (Ysern, 2019: 304). Il tema della battaglia allegorica e delle armi spirituali, fondato su un celebre passo paolino (Eph 6, 10-11), è tra i più frequentati dai predicatori e dagli scrittori di testi religiosi. Nella penisola iberica, e soprattutto in Catalogna, quell’allegoria aveva assunto implicazioni spirituali in opere ben note, come il Libre de l’ordre de cavalleria di Ramon Lullo, il Dix de lo Christià di Francesco Eiximenis (Ysern, 2019: 289), l’Arnès del Cabalier di Pere March (Ysern i Lagarda, 2015: 253). Per quanto riguarda la predicazione domenicana non si deve dimenticare che nella famosa Summa de virtutibus et de vitiis di Guillaume Peyraut, uno dei libri più diffusi del tardo Medioevo, databile a prima del 1249, è inserito il trattato De Prudentia, che descrive fasi e pericoli della vita spirituale come una battaglia che va affrontata con prudenza. Domenico Cavalca ne derivò concetti e immagini rimaneggiati in una delle sue opere più fortunate, il Trattato delle trenta stoltizie che si commettono nel combattimento spirituale (Zacchi, 1920: 312; Kaeppeli, 1970: 309-312; Delcorno, 1979: 577-586; Troiano, 2018). Nello schema perugino per la terza domenica di Quaresima Ferrer elenca innanzitutto le armi fornite dalla Chiesa al combattente: lo scudo del digiuno, l’elmo della preghiera, la lancia della confessione. Nella pericope del giorno si legge appunto dell’ossesso muto che Cristo libera, immagine del peccatore ammutolito dal demonio e liberato nella confessione.16 Il predicatore dilata il discorso con la descrizione particolareggiata del campo di battaglia e dei combattenti, mettendo in evidenza aspetti della tecnica militare che dovevano interessare fortemente il pubblico nel loro significato letterale. Modello è l’esercito del re, composto di esploratori, balestrieri, trombettieri, portabandiera («vexillarii»), cavalieri, pedoni, addetti alle salmerie. Si dispiega in tutta la sua pienezza la logica della distinctio, la poetica dell’enumerazione. Ogni parte dell’esercito del re indica un tipo di fedele e la sua funzione nella battaglia fra Cristo e Satana, tra la Chiesa e il diavolo: i contemplativi, gli attivi che praticano le opere di misericordia, i predicatori, i peccatori passati sotto le insegne di Cristo, i vergini che dominano il loro corpo come i cavalieri tengono a freno il cavallo, mentre ai soldati a piedi corrispondono i «continentes emendati»; vengono infine i presbiteri che ristorano con l’eucaristia, medicano le ferite e forniscono nuove armi nella confessione. È il disegno ancora sommario di un sermone narrativo o spettacolare (Catalán Casanova, 2013: 314), attentamente colorito nelle reportationes in catalano. Tuttavia anche nella più vivace e ricca peformance, quella tenuta a València nel 1413 (sermone XXII), la scena rimane distinta rigidamente in sette quadri, senza una veduta d’assieme, un movimento grande e generale dell’esercito, paragonabile al De pugna et saccomanno Paradisi che conclude il De christiana religione di san Bernardino (Bernardino da Siena,1950: t. II, 452-471). In Ferrer bisogna piuttosto ammirare la rapida descrizione dei particolari, le «frases gràfiques de pensament sintetic», per usare la bella definizione di Sanchis Sivera (1999: 187), che si succedono con una forza e un effetto straordinari. Si vedano, ad esempio, gli esploratori a cavallo (algarers), leggeri «quasi volants, van guardants deçà e dellà»: sono i contemplativi che vanno correndo «per muntanyes», scoprendo «los aguaits dels diables»; e la descrizione sembra concludersi in un gesto: «Sus! Allà s’en pugen aquest a la montanya del cel contemplant»; ma poi si allarga alla considerazione di tutte le parti dell’oltremondo, alla meditazione sulla miseria umana e sull’imminenza del Giudizio (Ferrer, 1973: I, 180).

Si è talvolta richiamato l’attenzione sulla presa di distanza di Ferrer dalle correnti umanistiche che si andavano diffondendo in Catalogna, e a tale proposito è consueto citare un passo del suo sermone per san Paolo: «Predicate Evangelium», questa è la missione data agli apostoli, «no diu Virgilium ne Ovidium set Evangelium» (Ferrer, 1971-1988: II, 56 sermone XXXI); e in altra occasione egli ricorda che il predicatore deve annunciare solo la «paraula viva» della Scrittura: «No cure de poetes, Virgilio, Dantes, ne d’aquelles cadències etc. mas tant solament de la santa Scriptura» (s. XXXIII: II, 72), Non si tratta, come è stato notato (Martinez Romero, 2002: 37-41), di una dichiarata ostilità ai nuovi orientamenti provenienti dall’Italia e da Avignone, ma della fedeltà ad una vivissima tradizione domenicana che reagisce ad ogni scelta culturale che metta in dubbio la centralità della Scrittura e dell’esegesi biblica. «Dobbiamo leggere ne’ libri de’ santi dottori approvati dalla Chiesa», scriveva Iacopo Passavanti a metà Trecento, «i quali spongono sanamente la Scrittura, e non si dee cercare ne’ libri vani de’ filosofi e de’ poeti mondani» (Passavanti, 2014: 419). Ferrer, come già si è accennato, esortava all’uso e allo studio attento degli strumenti di lavoro composti nelle scuole degli Ordini Mendicanti, innanzitutto dai Domenicani, e aveva l’abitudine di citare questi libri non solo nelle schedulae perugine, ad uso privato, ma anche dal pulpito, come risulta dalle reportationes. La Glossa ordinaria, le Postille di Nicolò di Lira, il «Mestre de les Sentencies» ovvero Pietro Lombardo, il «Mestre de les ystories», cioè Pietro Mangiadore, autore dell’Historia scholastica, sono menzionati con grande frequenza come strumenti necessari alla comprensione dei testi biblici (Catalán Casanova, 2013: 353-384). Interessa qui segnalare l’uso di opere che distinguono più esattamente la cultura dei Frati Predicatori. Non mi pare comune, ad esempio, il riferimento esplicito ai commenti scritturali di Nicola Gorran (Smalley, 1972: 380; Kaeppeli, 1970-1993: III, 207-208) come si nota, ad esempio, in un sermone per la domenica delle Palme, sul versetto Ite in castellum quod contra vos est (Mt 21, 2). Vedendo che si avvicinava il tempo della prova, così spiega Ferrer, «vocavit duos discipulos suos, scilicet Petrum et Iohannem, alias Philippum», notizia tratta tacitamente da Nicolò di Lira; e li manda «in castellum quod erat contra eos, id est ante, secundum quod dicit Gorran in postilla super Matheum [XXI 2]» (Ferrer, 1995: 104).

Altri ben più noti autori caratterizzano la cultura e la spiritualità tipicamente domenicana di Ferrer. Se la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino è, dopo la Scrittura, il riferimento più importante, la «colonna vertebrale» del suo pensiero (Robles Sierra in Ferrer 1995: 23) - e si potrebbero aggiungere non pochi rimandi al commento sulle Sententiae di Pietro Lombardo e alla Catena aurea (Catalán Casanova, 2013: 358) - è fuor di dubbio che la Legenda aurea di Iacopo da Varazze e le Vitae Patrum sono fonte e stimolo grande per digressioni narrative e per rappresentazioni drammatiche. La frequenza di exempla derivati dai detti e dalle storie dei Padri del deserto non meraviglia, se si pensa che proprio le Vitae Patrum e le Collationes di Cassiano erano tra i libri che il maestro dei novizi, secondo le norme di Umberto di Romans, doveva raccomandare ai giovani (Tracy Brett, 1984: 140); e soprattutto se si riflette che la rigorosa spiritualità del deserto faceva parte dell’identità domenicana (Delcorno, 2016a: 36-37). È difficile stabilire se Ferrer si limitasse alla consultazione delle summe exemplorum, che davano grande spazio agli aneddoti di quella raccolta monastica, o avesse sotto mano una copia delle Vitae Patrum, dalla quale ricavò anche episodi meno noti e comunque meno ripetuti dai predicatori. Lo si nota fin negli schemi del sermonario di Perugia (Martinez Romero, 2002: 97 nota 102) e in analoghe raccolte copiate in alcuni codici della Biblioteca Vaticana. In una di esse (Vat. Lat. 7730, f. 21r) si legge un piano di sermone per il Natale, fondato su un versetto di Luca (2, 34b): Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Israel et in signum cui contradicetur. Le riflessioni del predicatore si concentrano sul termine «signa», sui tre segnali che indicano la via per tornare al Paradiso: castità, povertà e umiltà, evidenti nella nascita di Cristo nel presepe di Betlemme. Tuttavia la superbia ha sottratto questi segnali sicché l’umanità non ha più direzione: «Signa Christi iam sunt ablata quasi de via, ideo difficiliter itur ad paradisum». Alla fine del breve schema si legge un appunto: «Nota hic de beato Machario cuius signa arundinea demon abstulit de via». È uno dei racconti più straordinari del Paradisus Heraclidis, una delle raccolte confluite nelle Vitae Patrum: Macario Alessandrino si inoltra nel deserto per visitare il giardino dove sono sepolti due mitici maghi del faraone (Iannes e Mambres), e per non smarrirsi nelle solitudini del deserto pianta una cannuccia ogni mille passi; senonché il demonio le raccoglie e, mentre il monaco riposa, le depone vicino al suo capo, quasi a insegnargli che la via si trova non con il proprio ingegno ma con l’aiuto divino (Palladio, 2013: 538-541, §§ 6-12; Delcorno, 2009: 754-756 e 1572). Troppo breve è il testo per decidere se Ferrer leggesse l’aneddoto nell’originale latino o nel capitolo De sancto Machario della Legenda aurea (Iacopo da Varazze, 1998: 151)17. Le Vitae Patrum sono citate con enfasi alla fine di un sermone sull’aldilà, fondato sul thema Factum est gaudium magnum in illa civitate (Act. 8, 9), dove si introduce come exemplum conclusivo «hum miracle que legim in Vitis Patrum, autèntich per decret de papa Gelasi» (Ferrer, 1971-1998: I 194, sermone XVI). Si tratta del notissimo incontro di Macario il Grande con il teschio di un sacerdote pagano narrato dai Verba seniorum (III, 16: PL LXXIII, col. 1013), racconto che Ferrer peraltro rielabora profondamente non senza la mediazione del già citato capitolo della Legenda aurea (cfr. Toldrà i Vilardell, 2010: 229). Come nella versione di Iacopo da Varazze si tralascia il particolare della «virga palmae» con la quale l’eremita tocca i resti del pagano ridonandogli la parola, e nulla si dice della diminuzione delle pene ottenuta per i dannati dalle preghiere di Macario, affermazione eterodossa e imbarazzante;18 invece la bipartizione tra i pagani, che occupano la parte superiore dell’inferno e i cattivi cristiani confinati nella zona più bassa, è modificata con l’aggiunta di un terzo gruppo, quello degli ebrei che occupano uno spazio intermedio. Inoltre Ferrer dilata la scena con particolari nuovi e con uno straordinario registro dialogico. Il protagonista è anonimo, è «hun hermità, fort de bona vida»; imbattendosi nel teschio di uno sconosciuto si domanda dove sarà la sua anima; «Si és en infern, volria saber per què; e si és en purgatori, oo! Com pregaria a Déu per ella! E si és en paraís yo la me’n portaria a la mia cel. la e tendria-la per relíquia», e Dio soddisfa questo pio desiderio concedendo la parola al defunto. Il testo latino procede con battute di dialogo ampie ed elaborate, sostituite invece da Ferrer con uno scoppiettante rapidissimo scambio: «‘Digues, és hom o dona?’ Respòs: ‘Hom só’. ‘Es christià?’. ‘No pas, mas pagà’. ‘E on estàs?’. ‘Yo só dapnat en infern’. ‘Mal te va?’. ‘Hoc’». Alla fine, ottenute tutte le informazioni sull’aldilà, l’eremita chiede se può aiutare in qualche modo l’interlocutore; cosa impossibile - non gli gioverebbero tutte le messe del mondo; sicché l’incontro si conclude non con la pia sepoltura del teschio, come nell’originale latino, ma quasi brutalmente con un calcio: «‘Donchs, torna-te’n a ton loch’. E donà hun colp ab lo peu ala calavera» (ivi: 195).

Una parte notevole del Sermonario di Perugia, esattamente 62 delle 477 schede, sono dedicate al ciclo santorale. Alle varie forme della narrativa di Ferrer – esempi, «semblances», parabole, miracoli, scene della vita quotidiana – attentamente analizzate e distinte dagli studiosi, si aggiunge come tratto fondamentale della sua oratoria proprio il repertorio agiografico che utilizza un complesso sistema di fonti medievali, agiografiche e liturgiche, tra le quali si distingue la già citata Legenda aurea (cfr. Viera, 1988, 1991, 2001). L’ agiografia ha per Ferrer un valore poco meno inferiore a quello della Bibbia. L’arte del dialogo, il taglio spettacolare del racconto, l’attenzione ai particolari della realtà quotidiana rinnovano profondamente i vecchi disegni dell’agiografia, e in modi sempre nuovi, come documentano la molteplice performance di uno stesso modello di sermone. Se ne ha una prova eccezionale nel sermone per san Giorgio, disegnato negli snodi essenziali in un schedula perugina (Ferrer, 2002, num. 171) e ampliato e arricchito in una straordinaria serie di reportationes catalane e latine fino al sermone modello diffuso dalle stampe (Perarnau i Espelt, 1999b, num. 75).

Come è noto, alla figura del martire celebrato da numerosi scritti agiografici fin dal secolo V, si aggiunsero, fra XII e XIII secolo, i tratti del cavaliere che libera la principessa dalla minaccia del drago. Iacopo da Varazze, pur consapevole dei sospetti che gravano su questo dossier agiografico, raccoglie le notizie di diversa provenienza in uno dei più popolari racconti dell’agiografia medievale, fonte della predicazione, del teatro e dell’arte (Viera-Piqué, 1996: 275-285). Nonostante alcune discrepanze e manipolazioni, non vi è dubbio che il capitolo LVI della Legenda aurea (Iacopo da Varazze, 1998: 391-398) sia la fonte alla quale si riferisce Vicent Ferrer. Nella scarna traccia del Sermonario di Perugia, san Giorgio è un modello universale di santità, è il beatus vir menzionato nel versetto tematico: Beatus vir qui inventus est sine macula (Eccli 31, 8), la vittima senza macchia, senza vizi, quale è prescritta dal Levitico (22, 21), vittima che prefigura il sacrificio di Cristo «quia sacrificia veteris legis erant signa passionis Christi». Lo schema di sermone consiste appunto in una rassegna di virtù contrapposte ai sette vizi o peccati capitali: superbia, lussuria, avarizia, ira, gola, accidia e invidia; variazione del consueto ordine gregoriano dei vizi (SALIGIA), mediante lo spostamento di Lussuria al secondo posto19. Nella predicazione effettiva Ferrer presenta san Giorgio come un modello di penitente, quasi di flagellante. Così nella predica recitata a València nella quaresima del 1413 (25 aprile) egli contrappone il suo zelo al vizio dell’accidia, sottolineando che in tempo di pace il santo «portava cilici e batia’s ab disciplines, e dormia en terra, e feia oració en la nit, e per lo matí oia sa missa, e cada dimenge confessava e combregava»(Ferrer, 1973: II, 193). La bellezza e la novità delle soluzioni narrative ideate da Ferrer risaltano singolarmente al confronto con i sermoni dedicati al santo cavaliere da non pochi predicatori domenicani. Basti ricordare che proprio Iacopo da Varazze nel primo dei cinque modelli per la festa di san Giorgio raccolti nel suo sermonario De sanctis, sul thema Induite vos armaturam Dei (Eph 6, 11) indugia sul senso allegorico della battaglia tra il drago e il cavaliere: il fiato pestifero rappresenta la tentazione, gli spruzzi d’acqua sollevati dal mostro emergente dal lago sono le cattive cogitazioni; la minuziosa descrizione dell’armatura si risolve ovviamente in un elenco di virtù e di buone disposizioni (cfr. Delcorno, 1989: 90-91). L’intento morale insomma appiattisce e soffoca la narrazione. Al contrario nel panegirico di València Ferrer adatta il breve schema del Sermonario perugino all’uditorio di una città che vanta di essere stata riacquistata dai cristiani col soccorso del santo cavaliere, e sembra assumere la forma di un sermone ad statum, rivolto in particolare ai cavalieri. Giunto, nel secondo membro del sermone, a trattare della castità di san Giorgio, contrapposta alla lussuria, il predicatore introduce, quasi come esemplificazione di quella virtù, «una singular cosa», un caso particolare, la leggenda della principessa offerta in pasto al mostro e salvata dal cavaliere (Ferrer, 1973: II, 190). Cadono gli antecedenti del racconto (i tentativi del re per salvare la figlia a prezzo d’oro, il congedo della figlia concluso dalla benedizione paterna). Il predicatore sembra adottare lo stile delle meditazioni, invitando gli uditori a ricostruire la scena, a immaginare: «Lo dimoni donà a entendre que la filla del rei havia d’esser oferida al drac, e lo rei pensau, pensau com estava!». Si aggiunge inoltre un particolare di grande effetto: i cittadini guardano dall’alto delle mura la principessa che si avvia alla morte; «e la gent, per terrats et per lo mur, mirant»20. Si moltiplicano i dettagli per così dire militari: Giorgio per divina ispirazione sopraggiunge in riva al lago infestato dal drago con uno scudiero, allontanandosi dall’esercito; vede la donzella, scende da cavallo affidandolo allo scudiero. Invece del lungo dialogo che si legge nel testo latino di Iacopo da Varazze con la triplice esortazione alla fuga ripetuta dalla principessa («Velociter equum ascende», «Fuge velociter», «Fuge, bone domine, fuge velociter»), Ferrer introduce un unico scambio di battute, e mette in rilievo che il duello è tra «nostre senyor Déu Jesucrist»» e il demonio. La morte del drago è rappresentata in modo totalmente diverso; Il cavaliere monta a cavallo «e diu ‘Jesus!’, e ferilo»21, un colpo mortale, mentre – si ricorderà - nella leggenda la principessa trascina in città il mostro ferito, legandolo con la sua cintura, e solo dopo la conversione e il battesimo dell’intera città, il cavaliere lo finisce. Rientra nella strategia retorica del predicatore l’insistenza sull’antitesi tra la castità del valoroso cavaliere e la condotta dei moderni cavalieri, che in quella situazione avrebbero detto: «venet-se ab mi, e jo seré lo drac que us devoraré»(Ferrer, 1973: II 191).

Merita ricordare le variazioni introdotte nella redazione del medesimo sermone secondo la reportatio latina – un latino ampiamente mescidato col volgare - registrata nel codice di Ayora, un interessante caso di diffrazione della parola del predicatore, simile ad altri documentati dalle reportationes delle prediche di Bernardino da Siena (Delcorno, 2009). Nel prothema, regolarmente concluso dalla preghiera alla Vergine, si ricorda che san Giorgio soccorse i cristiani «in conquesta istius Regni tempore regis Iacobi bone memorie», si intende Giacomo I il Conquistatore (Ferrer, 1995: 380). La condanna dei moderni cavalieri è molto più insistita: «Non erat de militibus que sodegan les portes a les dones maridades et alias ara», anzi «emparabat mulieres iuvenes». Si direbbe che in questa redazione si presti particolare attenzione ai movimenti del drago. Mentre i due giovani scambiano le battute del concitato dialogo, il drago «elevavit caput» - particolare ripreso esattamente da Iacopo da Varazze, 1998: 393 («Dum hec loquerentur, ecce, draco veniens caput de lacu levavit») - e pensa: «pensavit inter se ‘Iste miles vult venire contra me’ «22. Non vi sono dubbi sull’immediata uccisione del drago: «arripuit ensem et dedit sibi unum ictum taliter quod ipse occidit draconem». La principessa non solo desidera le nozze, ma chiede al padre di darle per marito il cavaliere, il quale però non viene meno alla sua verginità. «Quomodo fecissetis vos?»: così Ferrer interpella i cavalieri presenti al sermone, «Delibereretis eam de drachone stagni, sed devorassetis eam in peccato inmundicie» (Ferrer 1995: 383) Notevoli sono anche le variazioni che si notano nel sermone per san Giorgio presente nel famoso ciclo trasmesso dai codici della cattedrale di València (Ferrer, 1971-1988: VI 77-82, sermone CC), databile ai primi anni del secolo XV (Viera-Piqué 1996: 275). Il padre vuole che la principessa sia ornata riccamente di perle e di oro «molt gentilment», come se andasse a nozze («com si hagués ésser nòvia»): particolare che riprende il testo della Legenda aurea, e che viene abilmente utilizzato nel seguito del racconto. San Giorgio infatti, che cavalca «tot sols», vede la «donzella bella molt ben ornada» e si rivolge a lei con uno stile accentuatamente cortese, feudale. ‘Senyora’ è il titolo invariabilmente usato nel dialogo dopo l’iniziale ‘donzella’; non filia come si legge nella fonte latina. In questa versione di València san Giorgio smonta da cavallo e affronta il drago uccidendolo con una «gran lançada», non con la spada come nella citata predica del ciclo di Ayora. Inoltre è il re che vorrebbe dare la figlia come premio al cavaliere, il quale suggerisce di darla in sposa a Cristo, come di fatto avviene con la conversione e il battesimo della donzella e di tutta la città (ivi: 79). Più duro e diretto è il rimprovero rivolto ai cavalieri moderni, macchiati di lussuria:»Ara, vosaltres cavallers, què haguerìa feyt, que trobasseu axi tal donzella ornada? Que? Haguereu-la deshonrada axi com feu a d’altres, que no us studiau en aldre»; e conclude con un insulto: «Oo, traydors!». Se si legge il sermone modello raccolto nella collezione standard di Tolosa, base delle successive stampe, vi si trova una drastica riduzione dei dettagli e soprattutto dei dialoghi, quasi con un ritorno alle linee essenziali dell’originario schema fissato nel Sermonario di Perugia. Il testo è ridotto spesso a semplice didascalia per il predicatore: «Dicatur quomodo draco exivit de lacu et beatus Georgius signavit se signo sancte crucis et exivit contra eum quem percussit» (Ferrer, 1503: [g7vb]). Sono invece dilatate le osservazioni morali, ad esempio la tirata contro i vizi dei «moderni milites».

Vicent Ferrer è per tanti aspetti una «exception mès que una norma» (Catalán Casanova, 2013: 397), un evento unico che tuttavia condiziona lo svolgimento del sermone in Europa, soprattuttto nella penisola iberica, dove la storia della predicazione può essere distinta tra l’epoca che precede e quella che segue l’intervento carismatico del santo (Sanchez Sanchez, 2000: 804). L’originalità della sua parola, sia per quanto riguarda i temi, sia per i mezzi espressivi e per gli strumenti di lavoro è largamente debitrice alla esperienza secolare degli Ordini Mendicanti e soprattutto della scuola domenicana e all’esercizio vario, instancabile, della comunicazione adattata a un pubblico esigente e inquieto alla fine del Medioevo e negli anni di una crisi grave della cultura e della sensibilità religiosa.

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1 Su questo aspetto della predicazione di Ferrer esiste una estesa bibliografia. Si veda in questo volume la relazione di Marina Montesano.

2 Ferrer, Reportationes 1413-1417: 3r. Cfr. Perarnau i Espelt, 1999b: num. 54. Ferrer distingue sottilmente tra la vanagloria che guasta fin dall’origine l’azione buona e il «motus vanaglorie» che insorgendo quando l’opera è già intrapresa non può corromperla. Ne dà esempio s. Bernardo che conobbe questa sorta di compiacimento mentre predicava «gratiose» e che ciò nonostante non interruppe il suo discorso.

3 Ferrer, Reportationes 1413-1417: 48r (Sermone per la dom. IV di Quaresima). I cinque pani allegorici sono «penitencia temporalis», «providencia intellectualis», «ordinacio regularis», «confidencia supernalis», «misericordia supernalis». È tra i sermoni più usati da Ferrer. Cfr. Perarnau i Espelt, 1999b: num. 107. Alcuni testimoni del processo di Vannes ricordano che il santo vi giunse, nel 1417, il sabato prima della domenica IV di Quaresima, e che il giorno seguente tenne la sua prima predica sul thema Colligite. Cfr. Fagès, 1904: 4: «celebravit missam cum cantu, qua celebrata, predicavit verbum Dei et sumpsit pro themate Colligite etc.». Con questa testimonianza (dominus Yvo Gluidic presbiter) concorda quella di altri testimoni (pp. 19, 27, 84).

4 Per la datazione del trattato, probabilmente anteriore al 1377, cfr. Eiximenis, 2009: LXVII.

5 Egli fu lettore nel convento domenicano di Bologna nel 1326-1327, quindi cappellano del cardinale domenicano Matteo Orsini ad Avignone, e in quella città fu imprigionato come eretico per le sue idee sulla questione della visione beatifica, dal 1333 al 1338. Il trattato di retorica sacra deve essere posteriore alla prigionia avignonese.Cfr. Smalley, 1954, 56.

6 Il sermonario riguarda il primo periodo e solo in parte la seconda fase della predicazione di Ferrer. Vedi Daileader, 2016; Martinez Romero, in c. di stampa, cap. 2.

7 Le schede sono numerate 1-155, ma per la caduta di una carta mancano i numeri 116-120.

8 Sono i numeri 9, 33, 34, 45, 50, 56, 64, 67, 75, 83, 84, 95, 137, 152.

9 Non trovano continuazione nel corpus della sua predicazione due prediche sul Giudizio fondate sulla piccola apocalisse di Luca 21: num. 33 Virtutes celorum movebuntur (v. 26) e num- 34 Tunc videbunt Filium hominis venientem in nube cum potestate magna et magestate (v. 27). Si aggiungono gli schemi per il venerdì e il sabato dopo la domenica di Settuagesima: num. 83 Quid hic statis tota die otiosi? (Mt 20,6) e num. 84 Sic currite ut comprehendatis (1 Cor 9, 24). I numeri 33 e 84 sono pubblicati in Perarnau i Espelt, 1999 a:157-398, 265-266, 271-272.

10 Si tratta di un procedimento costantemente usato nella settimana dopo la domenica di Passione (Ferrer, 2002: num. 129, 130, 131, 132, 133, 134), e prevalente nella quarta settimana di Quaresima e nella settimana dopo Pasqua (num. 123, 124, 125, 126 [martedì-venerdì della quarta settimana di Quaresima], 144, 145, 146, 147, 148 [lunedì-venerdì della settimana dopo Pasqua]).

11 Ad eccezione della terza domenica, Fortis armatus custodit atrium suum (Lc 11, 21). Cfr. Ferrer, 2002: num. 113.

12 Gran parte di queste schedulae narrative sono ripetute con successo nella predicazione effettiva del santo, eccettuata una decina di casi, prevalentemente di sermoni per i giorni feriali. Cfr. Ferrer, 2002: num. 8, 78, 97, 115, 123, 124, 129, 130, 144, 150. Sono schemi per le domeniche i num 8, Dom.XXIII post Trinitatem (Reddite que sunt Cesaris Cesari); 78 Septuagesima (Oculus tuus nequam est quia ego bonus sum); num. 150 in octava Pasche (Gavisi sunt discipuli).

13 Paris, BNF Lat. 16481, f. 123rb (sermone di Quinquagesima): «Cecus clamabat dicens: miserere mei, fili David (Lc 18, 39). Cecus etc. in euangelio hodierno et uult tantum dicere quod quidam cecus clamabat: ‘Biaus sires Des, qui estes fiz de David, eiez merci de moi’. Et possumus ‘en ceste priere’ uidere quatuor que debemus requirere a Domino. Primo, debemus eum rogare de misericordia impetranda pro peccatis, secundo de penis quas pro peccato exspectamus, tertio de periculis uel pro periculis in quibus simus, quarto pro premiis glorie ne ea amittamus. Et debemus facere istas quatuor preces sicut cecus faciebat qui clamabat: ‘Bias sires Deus’, etc. Sed ut melius ista quatuor uideatis, primo narremus in grosso seriem euangelii. Legimus in euangelio hodierno quod dominus quadam die predixit discipulis suis mortem et passionem suam et resurrrectionem et multi fuerunt qui non crediderunt, immo dubitauerunt. Quia cum crederent ipse esse Deum et Dominum omnium rerum, uidebatur eis impossibile quod ipse posset pati. Sed contigit quod cum quadam die iret Ierusalem, appropinquauit Ierico, et quidam cecus mendicans sedebat secus uiam uel extra, et dum audiuit ‘la freint de la genz’ quesiuit et statim alta uoce clamauit ut predixi. Et dicit euangelium quod illi qui erant in societate Domini increpebant eum ut taceret, at ipse magis clamabat: Iesu etc. Et tunc Dominus ‘s’aresta’ et fecit eum adduci ad se et quesiuit ab eo: Quid uis ut faciam tibi? - Domine, ut uideam! Et statim Dominus eum illuminauit et non solum propter rem gestam, sed plus propter rei geste significationem et etiam propter discipulorum in uerbo suo quod predixerat confirmationem, ne ipsi putarent quod ipse posset mentiri. Hec est summa euangelii hodierni in grosso». Cfr. Bériou, 1998: 484. Devo alla cortesia di Nicole Bériou l’indicazione di queste testimonianza e la trascrizione del testo.

14 Cfr. Bériou, 1978: 218-222. Nell’introduzione del sermone (Mt 21, 8 Plurima autem turba straverunt vestimenta etc.) è detto: «Si quis bene Scripturas inspiciat, in hiis uerbis est magnum misterium, sed inter uos laicos qui nescitis inspicere libros, plus proficitis audiendo [ …] Et computabat seriem euangelii, qualiter Dominus prope ciuitatem Ierusalem […]».

15 Bibl. Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 425, ff. 2v-3v. Cfr. Romano, 2008: 43-44. Non è attendibile l’attribuzione della raccolta intera al Dominici, come riteneva Di Agresti, 1970: 152-157.

16 Il sermone fa sistema con quelli della prima domenica che tratta del digiuno e della seconda domenica riguardante la preghiera.

17 Come ritiene Toldrà i Vilardell, 2010: 273. Iacopo da Varazze non distingue tra i due Macarii, e la nota di Ferrer può far pensare che anch’egli li confondesse.

18 Nella traduzione del Cavalca è inserito un commento, che mette in guardia il lettore: «Ma questo punto non è segondo fede perciò che per certo tiene la santa fede che ‘l dannato non à remedio essendo in dello enferno» (Vite dei Santi Padri, Parte III 10,107, in Cavalca, 2009: 924).

19 Questo ordine è seguito appunto in un altro sermone sul versetto Beatus vir (Ferrer, 1971-1988: IV, 43-50) che tratta della «verdadera saviesa», la «saviesa celestial». Cfr. Viera-Piqué, 1996: 282.

20 Particolare citato come esempio di «verismo» da Fuster, 1975: 112, nota 125.

21 Si noti l’nvocazione del Nome di Gesù, che sembra alludere alla devozione talvolta raccomandata da Ferrer. Cfr. Delcorno, 2006: 15.

22 Sull’uso di questi monologhi cfr. Toldrà i Vilardell, 2010: 241-242.

Vicent Ferrer. Projecció europea d'un sant valencià

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