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Vitalità della Commedia Europea

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Giulio Ferroni

Università La Sapienza di Roma

La storia della commedia dal Medioevo all’età moderna si dispone in un orizzonte europeo comune, a cui ha prestato grande ed essenziale attenzione l’infaticabile attività di Federico Doglio, come si può riconoscere da quelli direttamente riconducibili alla commedia tra la serie dei trentatré convegni da lui organizzati per il «Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale». Anche nelle sue particolarità regionali e linguistiche, nei suoi legami con luoghi e circostanze specifiche, la commedia si è sempre proiettata in un ambito europeo, rivolgendosi verso orizzonti «moderni» e identificandosi, nell’atto della sua rifondazione rinascimentale, come rappresentazione della vita moderna, genere della modernità prima dell’avvento del romanzo, genere che ha alimentato la forma moderna del romanzo.

Tra tutti i generi del «rinascimento dei moderni» (ricordo una formula messa in circolazione dal carissimo Giancarlo Mazzacurati) la commedia assume una singolare crucialità storica per lo stesso destino della modernità occidentale, per la piena apertura della sua cultura all’esperienza del quotidiano, ai caratteri della vita più normale e dimessa, a quell’orizzonte «minore» prima parzialmente affidato ai fabliaux e alla novella o a sotterranei ambiti popolari e carnevaleschi. Se nel primo Cinquecento questa modernità della commedia si costruisce entro il ritorno all’antico, nella riscrittura dei modelli plautino e terenziano, è vero d’altra parte che alla sua vitalità contribuiscono anche le carsiche tradizioni del comico medievale, le molteplici persistenze di un universo basso, «negativo», appunto carnevalesco, con le più varie disposizioni al rovesciamento, all’alterazione, alla fisicità, alla gestualità; e sul piano della tradizione «colta» vi gioca un ruolo non trascurabile proprio la novella, specie con la suggestione del grande esito del Decameron, animato già in sé di una fortissima carica «teatrale». Insomma i retroterra medievali e volgari vengono a dare nuovo inedito spessore ai modelli ricavati dal teatro antico, anche nella forma più direttamente qualificabile come «erudita»: vengono ad arricchirli, agitarli, complicarli. E se nella prima e fondante esperienza italiana può sembrare imporsi la forma più regolare e classicamente sorvegliata, quel retroterra riemerge prepotentemente in tante singole esperienze e nel propagarsi e trasformarsi di quella forma nell’orizzonte europeo e da noi nella commedia dell’arte.

Il proporsi come genere della modernità è determinato dallo stesso tradizionale e «classico» circoscriversi della commedia come ambito a cui toccano azioni che si svolgono in spazi di esperienza di tipo «basso», secondo la formula di origine ciceroniana di «specchio di vita privata», con vicende che, partendo spesso da complicazioni e pericoli, tendono a risolversi in modo positivo e felice, e con situazioni che variamente sollecitano il riso. La commedia come genere offre spazio essenziale per l’espansione del comico: campo aperto per il ridicolo, nel suo collegamento con gli ambiti «bassi» e minori dell’esperienza, in opposizione al serio e a tutte le modalità estetiche che si pongono ad un livello «alto». È evidente però che non si dà un’immediata coincidenza tra comico e commedia: il comico non si risolve tutto nella commedia e può agire anche in generi e in forme comunicative di tipo diverso. Molteplici possono essere le occasioni, le situazioni, le strutture capaci di veicolare il comico, nella sua natura di «modo» essenziale dell’esperienza, che ha fondamento in un intreccio di identificazioni e di motivazioni psichiche, in rapporto con il fenomeno fisiologico del riso: molteplici e variamente definiti nelle diverse culture sono i «generi» artistici riconducibili all’ambito del comico, anche se lo stesso termine e concetto di comico si è sviluppato proprio dal seno della commedia e per un lungo tratto della tradizione occidentale la commedia è stato il genere più strettamente collegato al comico, lo ha intimamente saldato ad un’articolazione drammatica e ad una destinazione teatrale.

Inoltre il comico si articola in varie modalità (ironia, parodia, satira, umorismo, motto di spirito, ecc.), che di per sé non coincidono con la commedia, ma che possono variamente agire entro la commedia: mentre il percorso tipico della commedia da un turbamento o confusione iniziale ad un lieto fine può darsi anche in generi non drammatici, specialmente di tipo narrativo. Ogni classificazione, comunque, va confrontata con la complessità dello sviluppo storico: quasi tutte le tipologie e tassonomie che sono state messe sul tappeto (specie dalle varie teorie del Novecento) e tutte le distinzioni che sono state suggerite tra la commedia e le altre forme del comico e tra i diversi sottogeneri della commedia appaiono aleatorie e controvertibili. In questo ambito, del resto, non possono darsi parametri obiettivi e ogni pretesa di sistemazione «scientifica» è quanto mai illusoria: le teorie letterarie agiscono più come costruzioni interpretative, modi di dialogo con i testi della tradizione, che come rassicuranti modelli scientifici.

Proprio a partire da questi dati «strutturali», ad ogni modo, la modernità della commedia si esplica nell’offerta ai pubblici più diversi di molteplici e affascinanti occasioni di divertimento e di piacere estetico, garantendo la provvisoria sospensione della realtà quotidiana nella gioia del riso. Essa trasmette il piacere di soste non pericolose in ambiti di esperienza «bassi», generalmente negati dalla cultura ufficiale, da poteri e valori repressivi. Apre spazi inediti per fantasie di liberazione immaginaria dai vincoli della realtà. Dà libero sfogo all’aggressività verso figure umane, forme di vita, caratteri percepiti come «negativi». In vari modi garantisce la possibilità di sfiorare l’altro da sé senza sentirsene minacciati, ma riconoscendolo addirittura come parte di sé. Grazie alla commedia si danno ricche e contraddittorie occasioni di identificazioni con ciò che è basso, negato, proibito, messo ai margini, socialmente interdetto: ma i modi e le correnti di identificazione non seguono una linea omogenea e assumono caratteri diversi in rapporto alle diverse situazioni storiche, alle forme che in esse la commedia ha assunto: e le originali soluzioni dei più grandi commediografi sfuggono spesso ad ogni pretesa di fissare la commedia in formule fisse, in schemi «normali» e normativi.

Nel suo complesso e variegato rapporto col comico, la commedia si pone come il genere che, più di ogni altro, nell’evidenza della forma drammatica, convoglia l’esperienza del comico nel quadro della finzione, nell’artificio di una mimesi scenica della vita reale, attraverso una «finta» rappresentazione / ripetizione della realtà, dell’azione, dell’evidenza dei corpi e delle voci: in un tempo illusorio che è nello stesso tempo vero, che si dispone entro il tempo reale, scandendolo con la ripetizione di atti e parole che emergono da un universo fittizio, da un ambito di invenzione culturale (personaggi, mondi del passato, vite che vengono da altrove ma che proferiscono parole presenti, ecc.). Gli umori molteplici delle disposizioni comiche, la gamma varia delle possibilità e degli usi del comico e delle sue modalità, inserendosi nel quadro della mimesi, che (anche se non c’è un’immediata traduzione in spettacolo) allude ad un apparire scenico dell’esistenza, all’evidenza di una illusion comique, si fissano come forma culturale, convergono nella fruizione controllata di una realtà apparente che non è realtà, che della realtà neutralizza gli aspetti pericolosi e distruttivi. Ci si trova davanti a forme che, nel chiamare in causa l’esistenza quotidiana, non coincidono con essa: esse vengono a rendere controllabili, disponendole in spazi riflessi, in modelli culturali, in occasioni piacevoli, le emergenze del caso e dell’imprevedibilità, che sono invece incontrollabili nell’esistenza reale.

La proiezione della quotidianità nella finzione dà luogo, secondo i diversi orizzonti culturali e secondo le diverse disposizioni psichiche, ad un’indefinita possibilità di intrecci tra identificazione e sua negazione: lo evidenzia molto chiaramente la formula suggerita da Francesco Orlando, che indica il vario sovrapporsi, di fronte alla sostanza psichica del comico, tra non sono io / sono io e viceversa. Più che ad una varia azione del «ritorno del represso», questa formula può essere riferita ad un continuo oscillare tra riconoscimento di dati reali e loro neutralizzazione nella finzione. Si tratterebbe di tradurla in così è la vita / così non è la vita: dove vengono a convergere e contraddirsi sguardo fuori di sé e sguardo dentro di sé, sospensione della soggettività e suo trionfo. In un agire simmetrico di minaccia e attrazione del diverso, di apparente trionfo della disgregazione, del «vizio», del fallimento, e di loro rassicurante esorcizzazione.

Nell’espandersi della comicità come scena, articolata in vari e contrastanti livelli, tutto il pullulante orizzonte dell’esistere, della sua stessa normalità, banalità, casualità, eterogeneità, tutto l’accadere di fatti triti e, se si vuole, banali è nello stesso tempo «altro» e familiare: ma da questo suo essere «altro» scaturisce una particolare tensione vitale, un’esaltata ed esaltante effervescenza. La vitalità della commedia è scatenata proprio da un distanziamento che è nello stesso tempo un avvicinamento, con la promessa del proiettarsi del caos imprevedibile dell’esistere in una possibile integrazione dell’esperienza, in un esito «felice», che peraltro non equivale necessariamente ad un lieto fine. L’esito felice, in fondo, quale che sia la sua conseguenza rispetto alle forze in gioco, afferma e realizza nella «chiusura» della forma culturale quel finale acquisto di un senso definitivo che non è possibile nell’esperienza reale: il concludere del-la commedia, tra integrazioni ed espulsioni, fa da specchio all’inevitabile non concludere della vita.

Nel saluto agli spettatori, ripreso dall’antico valete et plaudite, la nuova commedia rinascimentale, ribadisce questa conclusività, ne afferma il rilievo, anche con particolari giochi allusivi: ma poi, in quel vario sviluppo «moderno», si possono dare vari modi di scalzare la conclusione, di renderla problematica, eterogenea, aperta, fino a romperne l’equilibrio. È inevitabile d’altra parte, che anche il più radicale rifiuto della conclusione, anche la più determinata tensione verso l’opera aperta, non possa in nessun modo prescindere da una chiusura dello spazio mimetico creato, dell’orizzonte drammatico costruito: non può evitare di mettere fine al tempo della finzione.

Il tracciato dei convegni organizzati da Federico Doglio permette di toccare, in una prospettiva integralmente europea, tanti nodi essenziali nel percorso che ha condotto all’imporsi di questa vitalità della commedia come genere per eccellenza «moderno»: percorso in cui il rinascimentale ritorno dell’antico è sostenuto da modalità e tensioni comiche, da tradizioni ed esercizi della parola e del gesto comico variamente sviluppatisi nel Medioevo. Si tratta di un panorama ricchissimo, che conduce dal dialogo che il Medioevo comunque intrattiene con il comico degli antichi (tema del terzo convegno, del 1978, L′eredità classica nel medioevo: il linguaggio comico) al propagarsi europeo di quell’originalissimo sviluppo della «nuova» commedia rinascimentale dato dall’improvvisa (tema del convegno del 2008, il trentaduesimo, Fortuna Europea della Commedia dell′Arte), fenomeno davvero «moderno», matrice di tanta teatralità dei secoli successivi (a parte l’assoluta modernità del definirsi della figura dell’attore nei termini di una piena professionalità). Passaggi intermedi di questo percorso sono i volumi dedicati al decimo convegno, 1986 (Teatro comico fra Medio Evo e Rinascimento: la farsa), al tredicesimo, 1989 (Il Carnevale: dalla tradizione arcaica alla traduzione colta del Rinascimento), al diciassettesimo, 1993 (Origini della Commedia nell’Europa del Cinquecento), al diciannovesimo, 1995 (Origini della Commedia Improvvisa o dell’Arte), al venticinquesimo, 2001 (Satira e beffa nelle commedie europee del Rinascimento).

Percorrere questi volumi offre densissime e cruciali immagini della storia della commedia europea, della sua ramificata vitalità, dei mille rivoli da cui essa scaturisce e in cui si espande nella travagliata vita storica del continente. In omaggio alla sede ispanica in cui ci troviamo a festeggiare Federico Doglio, ricorderò brevemente il rilievo della presenza spagnola, citando i saggi che nei diversi volumi riguardano il teatro comico spagnolo (e tralascio il grande rilevo che questo ha nelle rassegne bibliografiche che accompagnano molti di questi volumi).

Se nel convegno del 1978 si affaccia Raymundo Lull nel saggio di Annibale Gianuario su «Metrica classica e ricerca fonico-musicale seguendo Plutarco, Raymundo Lull e Antonio Lull» (pp. 281-290), che non ha dirette tangenze con la commedia, in quello del 1986 sulla farsa due saggi toccano l’ambito spagnolo: Humberto López Morales —«Parodia y caricatura en los orígenes de la farsa castellana» (pp. 211-226)— tratta di un libro del 1514 in cui per la prima volta nel suolo di Castiglia appare la parola farsa, la raccolta delle Farsas y églogas al modo y estilo pastoril y castellano di Luca Fernández; Javier Huerta Calvo —«El entremés o la farsa española» (pp. 227-266)— con dovizia di rilievi strutturali mette in luce il rapporto e quasi identificazione tra il primitivo entremés e la farsa. Negli atti del convegno «carnevalesco» del 1989 Ana Vian Herrero, —«Una aportación hispánica al teatro carnavalesco medieval y renacentista: las Églogas de Antruejo de Juan del Encina» (pp. 121-148)— analizza testi di grande interesse risalenti alla fine del XV secolo. Nel convegno del 1993 il saggio di Manuel Fernández Nieto —«La comicidad del teatro español del siglo XVI según Augustín de Rojas» (pp. 145-160)— estrae spunti di grande interesse da un’opera di difficile classificazione, El viaje entretenido di Augustín de Rojas, apparsa all’inizio del XVII secolo, mentre la presenza del teatro ariostesco in Spagna (a partire da una rappresentazione dei Suppositi a Valladolid nel 1548) viene illuminata dal saggio di Manuel V. Diago: «Una adaptación española de Il Negromante de Ariosto: La comedia llamada Carmelia de Joan Timoneda» (pp. 161-176). Il convegno del 1995 con il saggio di Monica Pavesio —«La vie est un songe tragicommedia francese del Settecento: punto di incontro fra la “Comedia” spagnola e la Commedia dell’Arte italiana» (pp. 389-414)— presenta il singolare caso di una tragicommedia apparsa nel Nouveau théâtre italien di Luigi Riccoboni che risale al capolavoro di Calderón attraverso tutta una serie di adattamenti e trasformazioni intermedie. Nel convegno del 2001 viene toccata l’opera di un autore di ventotto testi denominati farsas, risalenti al secondo quarto del Cinquecento, da Miguel Ángel Pérez Priego con «La sátira en las farsas de Diego Sánchez de Badajoz» (pp. 159-180), mentre in quello del 2008 è proprio la nostra Irene Romera Pintor —«La impronta española en la nueva vía gozziana: Cimene Pardo, de la Commedia dell’Arte al drama» (pp. 59-87)— a mettere in luce un particolare e suggestivo aspetto dell’impronta spagnola nel teatro di Carlo Gozzi, impronta che viene dall’eco di una vicenda della Spagna del XII secolo, passata attraverso svolgimenti e trasformazioni date nell’ambito della Commedia dell’Arte.

E tra trasformazioni, metamorfosi, divagazioni, mi piace concludere questo piccolo omaggio alla vitalità della commedia e alla vitalità di Federico Doglio ricordando, in questo anno cervantino, che alla fine della Primera parte del Don Quijote viene messa in bocca al curato, nella discussione che intrattiene con il canonico incontrato nel viaggio che riconduce a casa il folle hidalgo, una riflessione sulla commedia, in stretta polemica con le forme «irregolari» del contemporaneo teatro spagnolo (uno dei cui obiettivi impliciti è naturalmente Lope de Vega): e tra l’altro il curato ribadisce una definizione della commedia, che tante volte si incontra nei saggi ad essa dedicati negli importanti volumi a cui qui si è accennato «habiendo de ser la comedia, según le parece a Tulio, espejo de la vida humana, ejemplo de las costumbres y imagen de la verdad» (Don Quijote, I, 48).

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