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LA RIFORMA IN ITALIA
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ERNESTO MASI.
Nel marzo del 1536 due giovani Francesi, partendo da Basilea, sotto finto nome e travestiti in modo da non dare nell'occhio e da non destare sospetti, attraversavano le Alpi al passo fra Coira e Chiavenna e pei territori della Repubblica di Venezia fra l'Alpi ed il Po s'avviavano a Ferrara.
I loro nomi veri erano Luigi du Tillet e Giovanni Calvino.
Questi aveva allora allora pubblicato a Basilea il suo libro, divenuto poi famosissimo, della Instituzione Cristiana e senza indugio s'era in compagnia del Du Tillet allontanato da quella città.
La ragione di questo viaggio del celebre riformatore c'è data da Teodoro di Beza, il suo biografo, quegli che Calvino chiamava la perla dei suoi amici, il compagno indivisibile degli ultimi anni della sua esistenza, l'uomo fra le cui braccia Calvino morì, e c'è data con poche parole e per verità poco chiare. Dice in sostanza, che, pubblicato il suo libro, Calvino desiderò visitare la Duchessa di Ferrara, di cui tutti vantavano allora la somma pietà, e salutare alla sfuggita l'Italia. Venne, confermò, per quanto potè in quella fretta, la Duchessa ne' suoi buoni propositi e se n'andò. Nelle confidenze, che faceva al Beza, Calvino soleva anzi dire: “in Italia non ho fatto altro che entrare ed uscire!„
Tuttociò può parer strano, sebbene sia in realtà semplicissimo, e forse nessuno n'avrebbe fatto caso, se non si trattasse d'un gran nome, come quello di Calvino, perchè tutti possiamo trovare in noi stessi il ricordo di qualche viaggio sconclusionato, senza che altri si metta a fantasticare e a crearci sopra un romanzo.
Ma poichè si trattava di Calvino, questo suo viaggio in Italia divenne a poco a poco il soggetto di mille lucubrazioni le più diverse ed opposte, in forza delle quali ora si complicò e s'ingigantì fino alle proporzioni d'un grande avvenimento storico, ora s'impicciolì e si restrinse a segno da dover all'ultimo domandarsi: “è venuto in realtà Calvino in Italia? o non se l'è mai neppure sognato?„
Perocchè la critica recò grandi benefici (chi potrebbe dubitarne?), ma è pur vero che se su certe questioni storiche piglia l'aire, non si suole fermare a mezzo e ricostruisce o scrolla tutto con una facilità talmente sbalorditiva, che incrociar le braccia e mettersi meditabondi a sedere fra le due corna del dilemma d'Amleto: essere o non essere, pare ed è alle volte la conclusione più scientifica e sempre poi l'atteggiamento più degno di chi niente niente la pretenda a scienziato.
Su questo viaggio di Calvino in Italia, il quale per lungo tempo non ebbe altra testimonianza nota che quella del Beza, abbiamo quindi una prima versione, la versione ricostruttrice, e s'incomincia dal farlo venire non nel marzo del 1536, bensì nell'autunno del 1535 per aver più larghezza di tempo disponibile, in cui collocare un maggior numero d'avvenimenti. In Ferrara era aspettato a gloria dalla Duchessa Renata di Valois, moglie di Ercole II d'Este, dalle dame e dai cavalieri Francesi, che l'aveano seguita di Francia fin dal 28 e che tutti più o meno erano intinti di Luteranesimo, di cui aveano portato i germi dalla corte di Margherita di Navarra, la protettrice dei primi riformatori Francesi ed insieme la protettrice, l'amica, l'inspiratrice della giovinezza di Renata, innanzi che essa venisse sposa in Ferrara del bello ed elegante figliuolo di Lucrezia Borgia.
E a far capitare Calvino nell'autunno del '35 s'ha ancora un altro vantaggio, cioè che il Duca Ercole era in quel momento assente per visitare Paolo III a Roma e Carlo V a Napoli, il che mostrava chiaro che Calvino avea voluto appunto approfittare dell'assenza del Duca per non imbattersi a prima giunta in lui, che di Francesi a corte, e per di più sospetti d'eresia, doveva ormai averne abbastanza, se, per suo gusto, non n'aveva già di troppo.
Tornato il Duca nei primi del 1536, Calvino gli fu presentato come un innocuo letterato qualunque, nè egli, che tenea già in corte il poeta Clemente Marot, scappato anch'esso di Francia, e tutti i dotti e umanisti, che componevano l'abituale società della cultissima Duchessa, avea di che meravigliarsi del nuovo venuto. Se non che questi non era uomo da starsene e da non fare la parte sua ad ogni costo. Catechizzò quindi non solo la Duchessa, ma molti altri della corte, predicando da prima in segreto, poi quasi in pubblico nella cappella e nella sala dell'Aurora, dipinta da Tiziano nel Castello degli Este, e lo stesso Tiziano era fra gli ascoltanti e fece anzi il ritratto del riformatore.
In un subito, che è, che non è? il Duca si risovviene d'essere buon cattolico e vassallo del Papa e fa arrestare Calvino. Ciò tronca in fiore (alcuni dicono) i suoi disegni, che non si limitavano a Ferrara e alla Duchessa Renata, ma miravano ben più in largo e più in alto.
Comunque, mentre per ordine dell'Inquisizione Calvino era condotto prigioniero da Ferrara a Bologna, alcuni armati assalgono i suoi custodi e lo liberano. “Onde fosse venuto il colpo, — scrive nient'altri che il Muratori, — ognuno facilmente l'immaginò„ cioè da Renata.
Uscito da quel mal passo, Calvino fugge, traverso Modena, Reggio, Scandiano, e per Parma e Piacenza giunge in Piemonte. Ritenta la sua predicazione a Cuneo, a Saluzzo, ma è preso a sassate. Lo accolgono invece i Valdesi a braccia aperte nelle loro valli. Ma esso ed il suo Du Tillet, risalendo ad Ivrea il corso della Dora, se ne vanno in Aosta per rivalicare le Alpi, trovano tutta la valle agitata da questioni religiose, si gettano in mezzo a quei trambusti per farne loro pro, un Vescovo Gazzino ed un Maresciallo Conte di Chaland, zelantissimi, eccitano contro i due eretici il popolo, che li caccia a furia, sicchè sentendosi quasi alle reni la spada del Conte di Chaland, Calvino e il suo compagno, per uno stretto passo delle Alpi, a tutti ignoto, fra i ghiacci e le nevi, riescono a stento a salvarsi.
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E non crediate, signore, che manchino le prove anche a tutta questa parte Valdostana della grande leggenda sul viaggio di Calvino, perchè a sostegno di essa stanno nient'altro che una colonna commemorativa su una piazza d'Aosta, un monogramma, che credo ancora si vegga impresso sugli usci di parecchie case della città, l'usanza in Val d'Aosta di suonar mezzogiorno a undici ore per significare la sollecitudine dei fedeli Valdostani a liberarsi dall'eresia, i ruderi di una bicocca, dove si vuole che Calvino abbia abitato, e finalmente uno stretto passaggio delle Alpi, per dove sarebbe scampato, ed a cui è rimasto il nome di finestra di Calvino.
Or bene, di tutto quanto io v'ho narrato, e che dai più gravi scrittori era tenuto per pura storia fino a pochi anni fa, non esiste quasi più niente. La critica ha disfatto nella massima parte la poetica leggenda; la gran scena di Ferrara, così ricca di contrasti drammatici, di personaggi importanti e di sorprese romanzesche è ridotta una vera miseria; la pittoresca catastrofe alpina è scomparsa del tutto; la colonna, il monogramma, le campane, che suonano mezzogiorno a undici ore, la bicocca di Bibiano, la spada del Conte di Chaland, la finestra di Calvino, sono come gli attrezzi e gli scenari smessi d'una commedia finita; non sono più altro, vale a dire, che i materiali della leggenda, quale s'è formata dopo, sovrapponendo, come suole, un nome famoso a ruderi di monumenti e di ricordi, dei quali s'era smarrito con l'andare del tempo il nome vero e la primitiva significazione.
Dopo la versione, che chiamai ricostruttrice, la versione demolitrice trascorse tant'oltre, che seriamente s! dubitò, ripeto, se il viaggio di Calvino in Italia era mai avvenuto, o se era invece da mettere insieme alle tante apparizioni e predicazioni attribuite anche a Lutero, il quale fu bensì in Roma nel 1511, quand'era ancora un oscuro frate Agostiniano, ma che, quando s'era già apertamente ribellato, si pretese pure, senza alcun fondamento, che avesse tentato il suo apostolato a Como, a Menaggio, nella Valtellina e nei Grigioni.
Negar tutto però in cospetto alla precisa affermazione del Beza era troppo, e di fatto oggi nessuno contesta più che realmente Calvino sia venuto in Italia. Dopo tanti anfanamenti e travagli per fare e disfare, s'è anzi ritornati nè più nè meno alla versione del Beza, e non dirò, per non tediarvi di troppe minuzie, qual via si tenne per ritornarvi; dirò soltanto che la sua testimonianza non è più sola, che fra altre prove ed indizi, una lettera di Giovan Sinapio, medico di corte di Renata, scritta da Ferrara a Calvino il 1.º settembre 1539, dice espressamente d'averlo visto in Ferrara e dice di più, quasi in aria di amichevole rimprovero: “quando, anni sono, foste qui, faceste di tutto perchè io non indovinassi con qual uomo avevo da fare„; il che dimostra altresì che contegno tenne Calvino in Ferrara, al tutto contrario cioè a quello attribuitogli dalla leggenda. Calvino dunque è venuto in Italia tra il marzo e l'aprile del 1536, è rimasto pochi giorni quasi nascosto nella Corte di Ferrara, e se n'è andato molto probabilmente per la stessa strada, da cui era venuto. Tutto il resto è leggenda, anzi favola. Ma io ho voluto narrarvelo, perchè codesto viaggio di Calvino in Italia e le fasi diverse delle ricerche critiche intorno ad esso, rappresentano, secondo me, come in iscorcio, tutto il destino, sto per dire, della storia della Riforma in Italia nel secolo XVI. Si ondeggia cioè tra un perpetuo sì e no, fra l'ingrossare a disegno fatti di poca importanza o toglierla ad altri che, quando pure non siano che dissensi, tentativi, manifestazioni timide, incompiute, individuali, ne hanno, in così delicata materia, una grandissima, almeno per chi non crede che la storia stia tutta in battaglie, conquiste, invasioni e mutazioni di governi, per chi pensa invece che la più difficile, ma la più importante ricerca sia quella soprattutto dei fatti della coscienza umana, dei quali la storia è il grande deposito, che interrogare questa coscienza con diligenza di analisi sia una delle più utili attività della critica, che far tacere finalmente più che si può le proprie passioni e i proprii preconcetti, affinchè quella coscienza umana possa rispondere in ispirito e verità, sia la meno arbitraria, forse la sola, ancora possibile, filosofia della storia.
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Ora fra i fatti della coscienza umana, ve n'ha forse che superino d'importanza quelli che s'attengono al sentimento religioso? Eppure, da un lato v'ha chi considera inutile o per lo meno imprudente ogni trattazione di questo genere, perchè in tali argomenti ogni passo fuori del solco più comunemente battuto gli par materia da teologi e non da storici, quasichè l'uomo nel tempo e le vicende della sua vita interiore ed esteriore non siano anche in tal caso l'oggetto della ricerca storica, e v'ha d'altro lato chi non se n'occupa, perchè gli ideali religiosi e le loro manifestazioni nella storia gli sembrano non avere colla politica, in cui consiste per essi tutta la storia, alcuna relazione.
Valgano ad esempio i nostri grandi storici del Cinquecento. È grazia, se accennano a Lutero ed al moto Tedesco, che pure distaccò per sempre dalla dominazione spirituale di Roma più d'un terzo d'Europa. Per essi il Papa è sempre e prima di tutto un principe Italiano. Che se scandagliate più a dentro l'animo, per esempio, del Guicciardini, vi risponderà: “il grado, che ho avuto con più Pontefici, m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la grandezza loro e, se non fosse questo rispetto, avrei amato Martino Lutero, quanto me medesimo„. Se interrogate il Machiavelli vi risponderà: “abbiamo con la Chiesa e coi preti noi Italiani questo primo obbligo d'essere diventati senza religione e cattivi„; deplorabile obbligo, ma, poichè la realtà è tale, bisognerà rassegnarsi a far della storia e della politica senza tener conto della religione che non entra nel computo.
S'intende quindi che coloro, i quali si fanno bruciar vivi per amore di dottrine Luterane sono tenuti per lo meno per pazzi, e niente esprime meglio il sentimento degli statisti Italiani del Cinquecento di quel che facciano le lettere di Cosimo I intercedente da Pio V la grazia dell'eretico Carnesecchi. A consegnarlo Cosimo non avea esitato un istante. Si trattava d'un amico; in quel momento era anzi suo commensale; ma ragion di Stato va sopra a tutto. “Servii da bargello„ dice schiettamente da sè; ma col Papa c'era di mezzo nient'altro che la questione di precedenza fra il Duca di Toscana e quello di Ferrara e il titolo di Granduca. È giusto dire però che Cosimo fece quanto potè per salvare il Carnesecchi e che la severità del Papa gli parve eccessiva verso di uno che, a suo giudizio, non peccava che di leggerezza, di vanità e di pedanteria. Ad ogni modo, e checchè sia della condotta di Cosimo verso il Carnesecchi, definir l'eretico un pedante, come fa Cosimo, e come già prima di lui avea fatto nel 1542 il cardinal Guidiccioni nelle sue lettere ai Lucchesi, è così caratteristicamente Italiano e Cinquecentista, che nulla più. La storia della Riforma non ebbe miglior fortuna più tardi. Se si tolgano gli storici del Concilio di Trento, pochi ne scrissero, stranieri i più, sempre nell'interesse di una polemica ora Cattolica ora Protestante, quasi mai con criteri puramente storici ed obbiettivi, quasi mai indagando se v'è un nesso fra quel qualunque contraccolpo, che ebbe in Italia la Riforma Tedesca, e la storia politica e quella del pensiero e della vita morale del popolo Italiano. Dei consensi più o meno palesi nessuno parla e molti si stizziscono anche oggi che se ne parli come d'una curiosità indiscreta. Le rovine, le fughe, gli esilii, le prigionie, i supplizi, gli esodi di tanta gente sono pietose novelle, ma delle quali si può anche tacere o dire come l'Ariosto:
Lasciate questo canto, che senz'esso
Può star l'istoria e non sarà men chiara.
Eppure, guardate, signore! Consideriamo la Riforma, o, come più giustamente l'ha chiamata il Ricotti, la Rivoluzione Protestante del secolo XVI nelle sue linee più larghe. Essa riempie tutto il secolo! La rivalità fra la Casa d'Austria e la Francia, l'insurrezione dei Paesi Bassi, le guerre civili di Francia, l'innalzamento dell'Inghilterra, la decadenza della Spagna, la servitù dell'Italia, la grandezza nuova della Germania, lo spirito animatore della cultura moderna, tutti i fatti capitali della storia del Cinquecento sono in strettissima relazione con essa. Consideriamola ora in relazione all'Italia soltanto. L'Italia è la culla del Rinascimento, cioè del maggiore coefficiente della Riforma; l'Italia è la sede del Papato, cioè della grande istituzione che dalle nuove dottrine è più minacciata; è in Italia soprattutto che il Papato trova la forza d'arrestare, se non di vincere, la rivoluzione Protestante, opponendole il Concilio di Trento, il dispotismo monarchico, il Sant'Uffizio, la Compagnia di Gesù, tutto un sistema gigantesco di reazione, che s'impossessa per secoli della scienza, delle lettere, dei costumi, delle scuole, delle anime, dei corpi, che domina per secoli tutta quanta la vita pubblica e privata con una energia, una perseveranza, una intensità, un'unità d'intenti e di mezzi, anche oggi meravigliosa e pur troppo inimitabile; l'Italia finalmente partecipa essa pure, poco o molto che sia, al moto Protestante.
O non intender nulla adunque del Cinquecento Italiano (e capisco bene che molti ci si rassegnano senza grande sacrificio) o collocare al posto che le spetta anche in Italia la storia della Riforma.
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La lotta contro il potere temporale dei Papi era antica in Italia, come sapete; più antica ancora quella contro il potere spirituale, e le deviazioni dogmatiche, che appariscono nelle scuole filosofiche del Medio Evo, sono numerosissime.
Prevale però il concetto, che la Chiesa Cattolica cerchi e trovi in sè medesima la volontà e la forza del proprio rinnovamento.
Al secolo XVI, il dissidio profondo, che esisteva fra il Cattolicismo e lo spirito del Rinascimento, quel dissidio, contro le minaccie del quale aveva inutilmente tuonato l'eloquenza del Savonarola, quel dissidio, che i Papi avevano creduto di togliere, promovendo essi per primi, proteggendo essi per primi la nuova cultura da Niccolò V a Leone X, quel dissidio si palesò tutto ad un tratto e colse il Papato nel momento peggiore, quando cioè più per forza degli eventi, che per volontà sua, era senza più divenuto uno dei tanti signorotti Italiani e mirava a difendersi o ad allargarsi colle arti e le violenze comuni a tutti gli altri.
È strano sentire ora il Creigthon, uno scrittore Protestante, sostenere la tesi opposta e dire che se la crisi fosse sopravvenuta, quando il Papato era politicamente insignificante, esso non avrebbe potuto resistere e si sarebbe forse ridotto un Vescovato Italiano. Per me non lo credo. Non credo che possa aver giovato al Papato una serie di Papi, come quella che, salvo poche eccezioni, va da Innocenzo VIII e dal Borgia a Clemente VII e a Giulio III. Ciò accrebbe, invelenì il dissidio sempre più, scrollò sempre più dalle fondamenta la moralità pubblica e privata, separò sempre più la politica dalla morale e dalla religione, tanto che, svanito fra le fiamme d'un rogo il tentativo eroico del Savonarola, corsa e ricorsa l'Italia dagli stranieri, fra tanto abbassamento e contaminazione di tutto, il patriottismo disperato del Machiavelli gridava in quell'agonia: “poichè il Dio invocato dal Savonarola non viene, facciamo senza di lui, ma la patria si salvi!„ Tutto il Machiavelli è qui, ma neppur esso potè per allora salvare l'Italia.
Allorchè scoppiò in Germania la rivoluzione Protestante, le anime, che in Italia se ne sentirono subito agitate e commosse, furono quindi appunto le più atterrite e sgomente di questo abisso, che sempre più s'allargava fra la vita e la fede, fra la civiltà del Rinascimento e l'antico sentimento religioso. Le vediamo riunirsi subito in Roma nell'Oratorio del Divino Amore, più tardi in Venezia a San Giorgio Maggiore, in Napoli presso Giovanni Valdes, in Treviso presso Gregorio Cortese, Luigi Priuli, Marco Antonio Flaminio, in Padova presso Pietro Bembo, il quale s'associa a queste riunioni più forse per evitare i possibili eccessi d'una reazione seccante e meticolosa, che per vero spirito religioso; altra notevole varietà d'uno stato d'animo, che è di carattere puramente Italiano. Poco prima, poco dopo, in questa o quella città d'Italia tali riunioni raccolgono uomini, donne, ecclesiastici, letterati, il fiore dell'intelligenza e del patriottismo Italiano, scampato in parte alle guerre del Milanese e di Napoli, al sacco di Roma, alla caduta della repubblica di Firenze.
La questione, che le agita tutte, è quella della giustificazione per la sola fede, formola, che è bensì, come sapete, il fondamento della protesta Luterana, ma di cui allora era perfettamente lecito discutere, perchè antica nella dottrina ortodossa e non ancora definita, come lo fu poi nel Concilio di Trento. Tale questione (senza che io entri ora in sottigliezze teologiche, che non converrebbero nè a voi, nè a me) è naturale che primeggiasse e accendesse gli animi, perchè col dar prevalenza ai meriti della sola fede e della redenzione di Cristo, coll'ammettere cioè che la fede da sè sola basta all'eterna salute, sentivano d'opporsi a tutta quella corruzione della Chiesa, per cui la religione pareva ridotta a sole forme esteriori, la fede a zelo di persecuzione, l'assoluzione delle colpe alla confessione o a comprate indulgenze, e tutto il destino dell'anima umana pareva abbandonato all'arbitrio d'un sacerdozio non meno corrotto del laicato ed unico intermediario fra Dio e l'uomo.
Da questi prodromi scaturiscono tre tendenze diverse, nelle quali è compresa intiera la storia della Riforma in Italia. La prima, che segue irresistibilmente l'impulso ricevuto dalla rivoluzione Luterana Tedesca, e non solo si associa ad essa, ma spesso, com'è dell'indole Italiana, la oltrepassa; la seconda, che senza separarsi mai del tutto dal Cattolicismo prosegue fino all'ultimo la generosa utopia d'una conciliazione e termina in una piena sconfitta; la terza, che dà mano a rinvigorire, a risanare in parte, a stringere gli ordini della Chiesa, ne accresce terribilmente la forza militante e trionfa col Sant'Uffizio, l'Inquisizione, i Gesuiti ed il Concilio di Trento.
La prima di queste tendenze, quella che si associa alla ribellione Protestante, è, se si considera in sè stessa, la più curiosa e pietosa, ma se si considera ne' suoi effetti, certamente la meno importante; ed è naturale che sia così in una società, com'è l'Italiana del Cinquecento, la quale o è in gran parte indifferente e non presta fondamento a nessun vero e largo movimento religioso, o ha già percorso collo sviluppo della sua cultura, pagana d'inspirazione e novatrice di desiderio, tutti i gradi di questo indifferentismo sino, direbbe il De Leva, “alla negazione della persona morale consacrata dal Vangelo„, e neppur la formola Luterana le può più bastare.
La seconda tendenza, quella che anela ad una conciliazione, raccoglie una delle più schiette tradizioni Italiane, e fra i disinganni, gli abbandoni, i dolorosi isolamenti, ci rivela le agitazioni e il segreto d'una parte fra i più elevati e incorrotti spiriti del nostro Cinquecento, fra i quali basta che io vi ricordi Vittoria Colonna e il cardinal Gaspare Contarini.
La terza tendenza, quella che organizza la resistenza ad ogni costo, è troppo vasta nelle cause, nei fatti e nelle conseguenze da poterne discorrere affrettatamente insieme all'altre due.
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Alla formola Luterana, adoperata a significare la necessità di correggere le degenerazioni del dogma e i disordini della Curia Romana e della gerarchia ecclesiastica, anche prescindendo da quelle riunioni, alle quali ho accennato, si potrebbero indicare molti riscontri in Italia subito dopo Lutero ed anche molto prima di lui. Ma sarebbe inutile per noi e soverchia una tale ricerca. Del resto queste anticipazioni dottrinali non mancano mai, ma contan poco. Ogni rivoluzione è di chi la fa e al momento di farla. La ribellione di Lutero ha date certe e stiamo a queste: l'Ognissanti del 1517, quando Lutero oppone le 95 tesi alla Bolla delle Indulgenze, che è il prologo del gran dramma, il 10 dicembre 1520, quando Lutero brucia dinanzi alle porte della cattedrale di Vittenberga e fra una folla di popolo entusiasta la Bolla di Leone X, che lo ha condannato.
Nei due anni o poco più, che intercedono fra queste due date, e dopo poi sempre più, la propaganda coi libri, colle corrispondenze, colle dispute pubbliche, cogli emissari, colle predicazioni è attivissima e larghissima in Germania e nella Svizzera, dove Ulrico Zuinglio, forse qualche mese prima di Lutero, aveva iniziato un movimento analogo al suo e in certe parti più radicale.
Ben presto se ne ripercossero gli echi in Italia, nel Veneto da prima, e poi altrove.
Se non che, intendiamoci, non si tratta di nulla di simile a ciò che accade in Germania o nella Svizzera. Leggendo il libro inglese del Maccrie sulla storia della Riforma in Italia, che è anche oggi il solo, il quale abbia trattato ex-professo e in modo compiuto questo argomento, e vedendo il moto riformista ripercuotersi così rapido e così determinato quasi in ogni città d'Italia, vien fatto di chiedersi: o come dunque l'Italia non è divenuta tutta Protestante? Ma quel libro, ricchissimo di notizie, è nel suo insieme e organicamente sbagliato.
In Italia si sparge subito e largamente una curiosità, un'agitazione, una febbre, che invade specialmente le classi più alte e più culte, gli ecclesiastici, i claustrali, i letterati, i filosofi, e, poichè la questione tocca così da vicino quanto v'ha di più intimo nel cuore umano, le donne, quelle specialmente di animo più elevato e che hanno più approfittato dell'alta educazione femminile del Cinquecento. Ma tutto questo fervore, che diviene anche un poco una moda, non oltrepassa certi limiti. Tutta questa gente, che disputa così accanitamente della giustificazione per la sola fede, che si abbandona con tanta delizia interiore e con tanta ingenuità d'intenzioni al dolce sogno d'una Chiesa e d'una società rinnovata col ristaurarvi e purificarvi il sentimento religioso e cristiano, non pensa, non sospetta neppure di rasentare l'eresia, e molto meno di ribellarsi, o di mettere comunque a repentaglio l'unità della fede. Per questo, nella prima fase, nel primo riecheggiare in Italia del moto Protestante Tedesco, i consensi sembrano così rapidi, così larghi, così numerosi. Ma innanzi tutto questa agitazione si ferma in alto; non discende che pochissimo dalle classi superiori alle inferiori; non acquista mai o quasi mai carattere schiettamente popolare; ed in secondo luogo quando la Chiesa dominante si rende conto essa stessa, ha essa stessa coscienza del grave pericolo che la minaccia, i più indietreggiano, pochi si risolvono di varcare il limite estremo, il moto s'impicciolisce, diviene sempre più isolato, individuale, e scompare.
Le conseguenze morali (diciamolo) sono disastrose, perchè manca alla Chiesa dominante, come le è mancata sempre, l'intelligenza delle cagioni profonde, per le quali più d'un terzo d'Europa s'era distaccato da lei; perchè tutta impigliata ad armeggiare colle esagerazioni sofistiche, che Lutero, negli impeti della lotta, deduceva da' suoi stessi principii, e che Calvino esagerò sempre più, la forza vera di quei principii, le loro conseguenze vere le sfuggono; perchè non intende e non sente che l'importanza del moto Protestante non sta già nella fede senza le opere, nella negazione del libero arbitrio, nell'ammettere la predestinazione; il solo concetto ragionevole per gli stessi credenti essendo anzi quello che Dio giudichi gli uomini non per quanto avranno creduto, ma per quanto avranno operato; perchè, non intendendo e non sentendo questo, la Chiesa dominante mira quindi, più che a riguadagnare il terreno perduto, a salvare quello che le rimane, e lo fa, e le riesce, ma più esagerando alla sua volta il principio d'autorità contro il principio del libero esame, che rinnovando intieramente sè stessa.
Ad ogni modo, è verissimo, la sua resistenza è enorme e meravigliosa. Ma non è quella, che le chiedevano i più veggenti, i più moderati, i più pii fra i suoi amici contemporanei alla rivoluzione Luterana; non è quella, a cui accennò essa stessa per un momento, quando sotto Paolo III l'azione del cardinal Gaspare Contarini, capo dalla parte conciliatrice, prevaleva nel Sacro Collegio, e quando nel 1536 era eletto un Consiglio per la correzione della Chiesa, in cui col nome del Contarini, vediamo quelli del Caraffa, del Fregoso, del Sadoleto, del Giberti, del Polo, del Cortese, del Badia, dell'Aleandro, non tutti d'una mente, ma certo i più autorevoli e virtuosi uomini, che avesse allora la Chiesa; non è quella, che questi uomini le proponevano con una relazione, che poco dopo, sotto Paolo IV, diveniva essa stessa un documento addirittura ereticale, e invece di essere adottata dalla Chiesa si pubblicava con un preambolo e le chiose di Lutero.
Da un giorno all'altro il programma del Contarini è abbandonato, ed (è giusto dirlo) non per intiera colpa del Papato, ma molto ancora delle generali condizioni politiche europee e dell'ormai trionfante preponderanza Spagnuola; gli uomini, che hanno caldeggiato il programma del Contarini, finiscono nella disgrazia e nell'abbandono, alcuni anzi, come il Morone, processati e carcerati; la resistenza ad oltranza e le persecuzioni incominciano e allora va cessando altresì quella larga e numerosa agitazione, che la protesta Luterana avea da prima suscitata in Italia; il moto si isola qua e là; diviene frammentario, disgregato, individuale; ha martiri, non capi e seguaci; si mostra qui in un convento, là in una corte, altrove in un'accademia, in un gruppo di famiglie; non ha seguito, non contrasti vigorosi, non consensi efficaci; tra gli stessi ribelli veri, i più forti oltrepassano subito le precise dottrine Luterane e Calviniste, in molti altri si rinnova il caso delle antiche lotte politiche dei nostri rabbiosi Comuni. Come cioè s'ebbero allora i Ghibellini per forza, così si hanno ora gli eretici per forza. Molti non domanderebbero di meglio che fermarsi a mezza via, ma le persecuzioni del Sant'Uffizio, istituito nel 1542, il fanatismo degli Inquisitori, i sospetti dei Principi, l'intolleranza spietata, che vede eretici dappertutto, che spia e commenta ogni atto, ogni gesto, ogni parola, un segno d'allegrezza, una smorfia di malumore, il terrore, che non dà quartiere e non conosce misericordia, gli spinge, gli incalza, gli costringe all'aperta ribellione.
Voi vedete, signore, che quantità di ardui problemi e delicatissimi contiene questa storia della Riforma in Italia. C'è un modo di spicciarsi di tutti con franca disinvoltura, collocarsi al punto di vista protestante e propagandista del Maccrie, o a quello del Sant'Uffizio e degli Inquisitori dell'eretica pravità. La prospettiva è allora una sola e invariabile; poco monta chi sgarra più e chi meno, son tutti eretici di tre cotte e o col Maccrie s'incoronano di gloria o col Sant'Uffizio e gli Inquisitori (e diciamolo pure col Cantù, nonostante tutte le sue contraddizioni) si decreta a tutti quanti rogo e anatema. Ma questa non è storia!
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Ogni volta che ho pensato al moto filosofico e religioso in Italia nel Cinquecento, m'è sempre ricorso spontaneo alla mente il confronto con quello dell'emancipazione civile d'Italia nei tempi nostri. Nell'uno o nell'altro gli stessi velami, le stesse esitanze, le stesse clandestinità di consensi, gli stessi eccessi, le stesse diversità e gradazioni di tendenze, di apparecchi, di tentativi, di silenzi longanimi e di audaci rivolte. Il confronto non si potrebbe continuare senza dare in falso. Ma io non voglio dir altro se non che l'elemento morale nella storia è altrettanto necessario quanto il positivo, e che se lo studio dei fatti si sottomette ad un preconcetto, che vi tiranneggi il cervello, o si scompagna dallo studio psicologico, si perde ogni speranza di cogliere a distanza di tempo e riprodurre meno imperfettamente la realtà piena delle umane vicende. Tanto più nella storia d'un qualsiasi moto religioso, tanto più in una storia, come quella della Riforma in Italia.
Quando la ribellione è affermata coll'apostasia, il caso è più facile, benchè non sempre così semplice, come a prima vista parrebbe. Quando invece l'affermazione recisa dell'apostasia manca, le tendenze diverse che notai già scaturire dai primi echi Italiani della Riforma Tedesca non sempre sono distinte; più spesso ci troviamo a fronte di gente, che rivela solo una piccola parte dei proprii pensieri, che afferma, che nega, si disdice, si contraddice, nè sempre è dato cogliere intiero il segreto di quelle anime e distinguerle, a comodo nostro, nelle esatte categorie della storia. Dove, per esempio, gli indizi apparvero più deboli o contradditorii, gli scrittori Cattolici più zelanti se ne valsero per gridare alla calunnia, e scagionare senz'altro i più grandi nomi da questa, secondo essi, nota d'infamia, e non pensarono che quanto più alto era il grado, l'autorità, la fama, tanto più era naturale che il segreto fosse gelosamente custodito. Niuno potrà mai in tal caso pretendere di definire esattamente la misura di una ribellione o di un assentimento, che si svolgevano nella coscienza e poco o nulla si palesavano al di fuori con aperte professioni o con atti di proselitismo, i quali costavano libertà, vita, onori, fama, fortuna, e vi sbalzavano addirittura fuori del consorzio sociale, quando pure non laceravano vincoli ed affetti più intimi. Eppure la storia della Riforma in Italia non va considerata soltanto nelle precise e formali adesioni alle dottrine Luterane e Calviniste, bensì deve cogliersi ovunque si manifesta in anime religiose uno di quei dissensi o una di quelle indiscipline, a cui la Riforma era certamente pretesto od occasione. Tenendo conto di tutto questo si può soltanto presumere di approssimarsi almeno alla verità.
Accennai al Veneto, come a una delle prime regioni Italiane, che in qualche modo risentirono il contraccolpo della Rivoluzione Tedesca e m'interruppi per delineare quelli che, secondo me, sono i caratteri generali e speciali di tale contraccolpo e del moto che in Italia gli tenne dietro. Raccontare ora partitamente i casi dei personaggi più notevoli che quasi in ogni città d'Italia si mostrano seguaci delle nuove idee e quando giunge l'ora della persecuzione o della repressione violenta, o si sottomettono o pagano coll'esilio o colla vita il fio della loro ribellione, non potrei senza eccedere di troppo i limiti di tempo, che mi sono concessi. Del resto quei casi si susseguono e si rassomigliano: lo spionaggio, la denunzia, la fuga, oppure il carcere, un processo, in cui le torture morali di una lotta corpo a corpo colla capziosa casuistica dei giudici eguagliano quasi il tormento delle torture fisiche, alle quali l'inquisito è sottoposto, e infine il supplizio, ora orribilmente misterioso e segreto, ora pomposamente teatrale e solenne, quello a Venezia, dove l'eretico scompare nottetempo nelle acque della muta e nera laguna, questo a Roma, dove fra una processione di monsignori, di soldati in arme e di frati salmeggianti l'eretico sale il rogo a Ponte Sant'Angelo o in Campo de' Fiori. A questi lagrimevoli ricordi si collegano i nomi (per non dire che dei più celebri) di Pier Carnesecchi, di Aonio Paleario, di Fanino da Faenza, di Bartolomeo Fonzio, di Baldo Lupetino, di Giovanni Mollio, e di tanti altri, che sarebbe lungo enumerare. Preterendo adunque di necessità le ribellioni e i sagrifici individuali, accenniamo piuttosto dove il consenso alle nuove dottrine religiose fa gruppo, raccoglie aderenze più calde e più numerose, s'intreccia a vicende di storia politica, e nel dissolversi ci indica personaggi importanti, che poi seguono diverse tendenze di pensiero e di vita.
Notevolissimo a tale riguardo il gruppo, che verso il 1535 attornia a Napoli lo Spagnuolo Giovanni Valdes. Nella sua casa a Chiaia e in vista di Posilippo, o sull'incantevole isola d'Ischia nella villa della Colonna si radunavano il Vermigli, l'Ochino, il Carnesecchi, il Flamminio, il Caracciolo ed altri letterati, teologi e cavalieri, e con essi parecchie gentildonne Italiane e Spagnuole, fra le quali brillavano come stelle Vittoria Colonna, l'inconsolabile vedova del Marchese di Pescara, e Giulia Gonzaga Duchessa di Trajetto, vedova di Vespasiano Colonna, quel prodigio di sempre virginale bellezza (checchè ne dicono le Pasquinate del tempo) che il corsaro Ariadeno Barbarossa tentò sorprendere nel suo castello di Fondi e rapirla per farne dono al Sultano.
È gran segno del tempo il fervore di quelle riunioni e s'intende bene come tutto quell'ambiente di bellezza, di poesia e di religiosi entusiasmi, su quel paesaggio unico al mondo, rimanesse un lungo e soave ricordo per tutti quegli amici del Valdes, e le loro lettere di molti anni dopo, quando il turbine della reazione gli avea sperperati, rimpiangessero amaramente la memoria del Valdes, morto nel 1540, e i bei giorni di quell'intima comunanza di pensieri, di affetti, di aspirazioni. E due soprattutto sono le circostanze notevoli della congrega del Valdes, l'una che per la prima volta vi apparisce il libro famoso del Beneficio di Cristo, che fu pei dissidenti e Protestanti Italiani del secolo XVI quello che l'Instituzione Cristiana di Calvino fu per i Francesi e per gli Svizzeri; libro tenuto qualche tempo per innocuo e che poi sarà delitto capitale aver letto, averlo posseduto o prestato ad un amico; l'altra il vario e sempre tristo destino, che aspettava tutti i componenti di quella congrega. Di quelli soltanto, che ho nominati, Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga finiscono volontariamente relegate in un monastero; Pietro Martire Vermigli in esilio a Zurigo; Bernardino Ochino in Moravia, dopo aver errato per mezz'Europa e sorpassata di molto col suo pensiero la Riforma Protestante; Pier Carnesecchi a Roma sul rogo; Marcantonio Flamminio in sospettata oscurità, ma più indietreggiando che avanzando; Galeazzo Caracciolo a Ginevra, Calvinista schietto; il che dimostra come dalla riunione del Valdes escano quanti aspetti diversi prese il moto protestante in Italia, quello di chi rimane entro il circolo della dottrina Cattolica, ma non vi trova più nè la tranquilla fede nè la posizione di prima; quello di chi si spaventa a mezza strada e indietreggia; quello di chi si associa del tutto al moto Protestante e per esso dà la vita o si sottopone alla perpetua miseria dell'esilio; e quello di chi neppur trova posa nella dottrina Protestante e finisce anatemizzato del pari dalla Roma del Papa e dalla Ginevra di Calvino.
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Come già dissi, forza di vero e largo consenso popolare la Riforma non trovò mai in Italia. Per questo appunto ci sentiamo tratti ad osservare con più sollecita cura i punti, dove una certa espansione, sia pur momentanea e con fattezze diverse, ci fu, o parve esserci.
Nell'Istria ad esempio, e per opera specialmente d'un uomo, Pier Paolo Vergerio, Vescovo di Capodistria, che è uno dei tipi più complicati ed anche oggi più difficilmente giudicabili, che abbia avuto la storia della Riforma in Italia; grande ingegno, vastissimo sapere, e nel tempo stesso la più strana mescolanza di bene e di male, di tenebra e di luce. C'è in lui del santo e dell'avventuriere, dell'apostolo e dell'imbroglione, del fanatico e dell'astuto; ma se poi si considera ch'egli non avea che da starsene o, date le prime mosse e visto che gli attiravano guai, non avea che da fermarsi, per continuare in quell'auge di fortuna, che lo avea portato subito in cima della scala, e invece tentò, ritentò più volte e corse di deliberato proposito alla propria ruina, bisogna dire che un gran fondo di sincerità, di buona fede e di schietto entusiasmo fosse nell'animo del Vergerio. Certi aspetti del suo carattere vanno dunque forse attribuiti alla mobilità, alla foga, alla superlatività del suo spirito, per cui nella polemica religiosa del suo tempo reca la temerità, l'improntitudine e insieme le male arti dei peggiori politicanti e giornalisti odierni e pare anzi un loro predecessore. Dal 1533 sino a dopo la dieta di Worms del 1540 fu in Germania negoziatore pel Papa e per la Francia di compromessi religiosi e politici coi Protestanti, si abboccò con Lutero e narrò il colloquio in una lettera mirabilmente efficace e caratteristica del 1535. In essa è ancora avverso a Lutero, ma non consentendogli l'acuto ingegno quel dispregio ignorante, che non fa caso di nulla nella Riforma Tedesca, nè di uomini nè di idee, perchè giudica tutto farina del diavolo, accadde al Vergerio, diplomatico Pontificio, di finir persuaso di molta parte delle nuove dottrine. Tornato alla sua diocesi applicò savie riforme e, aiutato dal fratello, Vescovo di Pola, le proseguì arditamente; ed in ciò fare non gli pareva se non di compiere il suo dovere di Vescovo. Processato due volte, respinto dal Concilio di Trento, la persecuzione, l'esilio ne fecero un eretico per forza, ma il moto da lui destato nell'Istria (caso unico in Italia) trovò gran seguito e favore nel popolo e perdurò quasi trent'anni. Quanto a lui, ad ogni passo poneva la meta più innanzi e dopo una vita agitata, errabonda, travagliatissima, finì a Tubinga nel 1565 rimanendo incerto anche oggi, se puramente aderì alla Riforma, se la sorpassò, o se presunse farsi centro ed autore d'un nuovo moto, che da lui solo pigliasse forma e sostanza.
Meno persistente, meno larga, ma pure con un certo carattere di popolarità, che manca altrove, è l'agitazione religiosa di Modena, cominciata fra il 1537 e 38. Poco dopo, come apparisce dal compendio dei processi del Sant'Uffizio di Roma, pubblicato dal Corvisieri, Modena era già una città diffamata per eretica. Intorno all'anno 1540, Alessandro Tassoni il vecchio, cronista Modenese, narra che non solo uomini dotti, indotti e d'ogni condizione aderivano alla Riforma, ma persino le donne ne disputavano, citando a dritto e a traverso Santi Padri e Dottori, che non conoscevano neppur di vista. Quest'entusiasmo, com'è naturale, era cominciato più in alto, in una specie d'accademia, come il volgo la chiamò, che s'adunava in casa dei Grillenzoni, e della quale il personaggio più importante era Lodovico Castelvetro. La casa del Grillenzoni era un interno patriarcale, sette fratelli, dei quali cinque ammogliati e quarantacinque o cinquanta tra figliuoli e nipoti e, se le si univano amici e maestri, una vera falange, che talvolta stava a chiacchiera nella spezieria dei Grillenzoni, e quando si muoveva per andarsene pareva, dice un altro cronista, un branco di stornelli che si disperdesse. Si occupavano di studi umanistici, ma Modena è città arguta, beffarda; i chiacchiericci di spezieria eccitano i begli spiriti delle piccole città; sicchè i cosidetti accademici ebbero buon giuoco nel pubblico a burlare e a interrompere anche in chiesa i predicatori più triviali, esaltando invece il Ricci, l'Ochino, dotti ed eloquentissimi, ma già sospetti di deviazioni dalla pura dottrina ortodossa. Roma e l'Inquisizione si destarono; s'interposero i soliti pacieri, il Morone, Vescovo di Modena, il Contarini, il Sadoleto; fecero firmare agli Accademici una professione di fede e tutto per il momento parve quietato. Ma una burla fatta a Pellegrino degli Erri nella spezieria Grillenzoni risuscitò la tempesta, perchè a vendicarsene costui denunciò per eretici e per lettori e divulgatori di libri ereticali i suoi amici, contro i quali escirono tosto bandi fierissimi. L'Accademia si ecclissò; più degli altri rimase in vista come sospetto Lodovico Castelvetro, forse perchè il più autorevole per ingegno, per studi e per le tendenze della sua ipercritica letteraria, la quale tirò addosso a lui i guai peggiori.
Nel 1553 criticò acerbamente la canzone di Annibal Caro in lode dei Farnese e dei Reali di Francia, che comincia coi noti versi:
Venite all'ombra de' gran gigli d'oro,
Care muse, devote a miei giacinti.
Annibal Caro, cortigiano felice, col vento in poppa, colmo di prebende e d'onori, se l'ebbe a male. Ne seguì una delle più atroci baruffe letterarie che si ricordino, finita col denunziare il Castelvetro, prima come eretico, poi come eretico insieme e come assassino. Qui i fiori letterari del Caro, delizia dei buongustai, coprono una trama d'iniquità, di cui il Castelvetro fu vittima, perchè dall'accusa d'assassinio riescì a purgarsi, non da quella d'eresia. Citato a Roma, v'andò; durante il processo, fuggì: stette molti anni fra Chiavenna, Ginevra, Lione e Vienna; nel 1570 tornò a Chiavenna, ove l'anno dopo morì fra le braccia del suo amico e protettore, Rodolfo Salis, il quale sulla tomba dell'esule scrisse queste significanti parole: morto libero, liberamente riposa in libera terra. Pure siamo alle solite di doverci chiedere: fu veramente eretico e quanto lo fu il Castelvetro? Difficile rispondere fra lo zelo degli accusatori e quello degli apologisti. Le apparenze, le vicende della sua vita rafforzano il sospetto, ma manifestazioni precise mancano. Però quasi tre secoli dopo, nel 1823, in una villa prossima a Modena, stata già del Castelvetro, fu scoperto un ripostiglio murato, e abbattutolo si trovò pieno di carte manoscritte e di libri di Lutero, di Calvino e di altri eretici. Le carte furono consegnate a un dabben prete, che, saputele del condannato Castelvetro, le abbruciò; i libri passarono alla Biblioteca Estense e dalle date dei medesimi si rilevò, che il nascondimento risaliva al tempo delle persecuzioni sofferte dal Castelvetro.
Questa voce d'oltre tomba, che esce fioca dopo circa tre secoli dai ruderi della sua vecchia casa, lo accusa dunque, ma, grazie all'imbecillità del pretino incendiario, neppur essa dice tutto; ci lascia solamente congiungere il nome di Castelvetro al piccolo movimento ereticale Modenese, e bisogna contentarsi di questo.
Più aperto, più determinato nelle sue conseguenze è quello invece che contemporaneamente manifestasi a Lucca. Anche qui v'è un nome, che accentra e personifica il moto, Pietro Martire Vermigli, Fiorentino, che già vedemmo a Napoli nella congrega del Valdes. A metà del 1541 fu fatto Priore di San Frediano e avea intorno a sè uomini imbevuti anch'essi delle stesse dottrine, il Martinengo, Bresciano (che fu poi primo Pastore della Chiesa Riformata Italiana in Ginevra), il Tremellio, Ferrarese, lo Zanchi, Bergamasco, il Lazise, Veronese, ai quali s'aggiunse poco dopo Celio Secondo Curione, il più celebre dei Protestanti Piemontesi. Mezz'Italia è qui rappresentata e il Vermigli fonda una scuola, in apparenza pei novizi del suo ordine, in realtà una Scuola Protestante, che accolse altresì le più cospicue persone di Lucca. L'Inquisizione era sull'intesa e vigilava, ma tutto andò quieto, anche quando Paolo III e Carlo V s'abboccarono in Lucca. Un aneddoto curioso è che l'Imperatore fu svegliato una notte da gridi di dolore. Chiesta la cagione, gli è risposto che una gentildonna, dimorante vicino al palazzo, aveva partorito un bambino, che Carlo V per cortesia volle tener esso al battesimo, celebrando il rito Paolo III in persona. Questo bambino fu poi il padre di Giovanni Diodati, il celebre volgarizzatore della Bibbia. Se la paternità spirituale avesse gli effetti, che la scienza attribuisce alla paternità naturale, si direbbe che qui la legge dell'atavismo agisce al rovescio. Più sicura invece si mostra in Michele Burlamacchi, figlio del celebre patriotta e cospiratore Lucchese, perchè troviamo Michele Burlamacchi fra i Protestanti più caldi, ed in lui la ribellione religiosa si direbbe la continuazione e lo svolgimento della ribellione politica paterna. Fatto sta che quando l'Inquisizione ebbe costretto il Vermigli a fuggire e nella sua propaganda gli sottentrò Aonio Paleario, bruciato poi a Roma nel 1565, i rigori aumentarono a segno, che s'ebbe una prima emigrazione di più di venti cospicue famiglie Lucchesi nel 1555 e una seconda nel 1567, la quale comprese anche Michele Burlamacchi con la sua vezzosa donna, Clara Calandrini, il suocero Giuliano Calandrini con l'altra figlia Laura e il marito di lei, Pompeo Diodati, nonchè il fratello e gli altri figli di Giuliano. Giunsero in Francia durante la seconda guerra civile fra Cattolici e Ugonotti, e costretti a seguire le fortune dell'esercito del Principe di Condè, sarebbero periti fra gli stenti e i disagi, tanto più che Clara Burlamacchi e Laura Diodati erano incinte ambedue, se, saputili Italiani e proscritti per causa di religione, non gli accoglieva nel suo castello di Montargis, Renata d'Este, quella Duchessa di Ferrara, presso cui vedemmo già Calvino nel 1536 e che ora dopo la morte del marito, era tornata in Francia fin dal 1560 e vivea solitaria a Montargis, professando apertamente il Protestantismo.
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Renata è una delle più singolari figure della storia della Riforma in Italia, e i fatti, che le si riferiscono, uno dei più singolari episodi di questa storia. Per opera di lei, figlia di Luigi XII, re di Francia, e venuta sposa nel 1528 ad Ercole II d'Este, la Riforma penetra in una delle più illustri corti Italiane del Cinquecento e la tiene per più di vent'anni agitata così nelle intimità domestiche, come al difuori e per indiretto nelle sue relazioni politiche col Papa e cogli altri Stati Europei. Era il periodo, in cui si dibatteva il problema, se la preponderanza nel sistema politico Europeo dovesse appartenere alla Spagna o alla Francia, ed il principal campo di tale contesa, ormai risoluta in favore della Spagna, era sempre l'Italia. Quindi la difficoltà pei suoi principati minori di reggersi in bilico alla meglio fra i due litiganti, nè già coll'illusione proverbiale d'essere fra i due il terzo che gode, ma appena appena colla speranza di non farsi divorare per primo. A tal fine i pericoli della politica e della guerra erano già troppi senza aggiungerne altri di peggior natura, senza accogliere cioè dottrine nuove di religione, sulle conseguenze politiche delle quali i pensieri dei potentati maggiori non erano forse ancora ben fermi. Tanto più apparisce quindi straordinario l'ardimento di Renata, la quale nel piccolo Ducato di Ferrara, feudo del Papa, osa vagheggiare e tentare due programmi del pari pericolosissimi, una politica risolutamente Francese e la riforma religiosa. Nell'atmosfera morale del Cinquecento, questa donna, che, salvo qualche ora di debolezza nei più penosi contrasti dei suoi affetti, si mantiene fedele tutta la vita a quei due ideali, e quando l'ideale politico le sfugge, perchè la morte del marito la priva del trono, innalza l'ideale religioso sino al concetto tutto moderno della tolleranza civile, e tornata in Francia allo scoppiare delle guerre di religione, rimprovera ai Cattolici le loro crudeltà e agli Ugonotti le loro vendette, questa donna, dico, è senz'alcun dubbio una delle più grandi e nobili figure del suo tempo. Ne sparlino pure scrittori rabbiosi e intolleranti dai contemporanei fino al Cantù. Ci contenteremo che l'abbiano lodata non col solito gergo cortigianesco, ma quasi con senso di misteriosa riverenza l'Ariosto ed il Tasso. Mi duole non aver tempo a narrare i suoi casi, oggetto anche oggi di ricerche e di studi (fra i quali ricordo ad onore quelli del Fontana) e per affrettarmi al fine torno agli esuli Lucchesi, da Renata ospitati, durante la seconda guerra civile di Francia, nel suo castello di Montargis. Vi rimasero fino alla pace di Longjumeau e in questo tempo Clara Burlamacchi mise alla luce una figlia, a cui la Duchessa fu matrina e diede il suo nome, e che ci ha lasciato alcune Memorie delle vicende sue e de' suoi genitori. Da Montargis ripararono a Sédan, da Sédan a Parigi ove nel 1572 si trovarono alla strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo. Anche in quella notte li salvò forse la protezione di Renata, che era in Parigi, perchè trovarono scampo nel palazzo del Duca di Guisa, gran nemico dei Protestanti, ma genero di Renata. Si rifugiarono di nuovo a Sédan, quindi nel 1579 a Muret, ove Clara Burlamacchi morì. Finalmente, ricominciata la guerra, Michele Burlamacchi stabilì di condursi nel 1585 a Ginevra, il già antico rifugio degli Italiani perseguitati per causa di religione ed il solo luogo oramai, dove, allorchè la reazione ebbe domata in Italia ogni velleità di novatori ed ogni resistenza, il solo luogo, dove, si può dire, va a concentrarsi o a terminare (se si eccettuano le valli Valdesi) la storia della Riforma in Italia.
L'arrivo dei Burlamacchi a Ginevra fu una festa pegli esuli Italiani, i quali si recarono tutti uniti ad incontrarli fuori della città. V'erano di Lucchesi i Balbani, i Diodati, i Calandrini, i Turettini. L'anno appresso Renata Burlamacchi sposò Cesare Balbani. Nel 1621, dopo aver pianto la morte di dieci figli perdette il marito, col quale avea vissuto trentacinque anni. Renata Burlamacchi dovea ormai avere un'età più che sinodale, ma nell'austero costume della Repubblica Calvinista le vedove non erano tollerate, perchè sta scritto (lo dirò in latino) in viduis laboriosa castitas. Renata dunque obbedì al precetto di S. Paolo: io voglio che le vedove si rimaritino, e sposò in seconde nozze Teodoro Agrippa d'Aubignè, il poeta, il soldato, il diplomatico dei tempi eroici della Riforma. V'erano a Ginevra altri cinque fratelli di Renata e questi e gli altri esuli Lucchesi furono lo stipite di molte e molte fra le più illustri famiglie Ginevrine; ma sono quelli che poterono adattare l'antico spirito del Rinascimento Italiano alle rigidità delle dottrine Calviniste. Altri invece dei più famosi riformisti Italiani, l'Ochino, i due Socini, l'Alciati, il Vermigli, il Vergerio, preferirono ramingare pel mondo ad un dispotismo peggiore di quello che aveano lasciato in Italia e che andava dritto alle stesse conseguenze, alle quali giungeva Pio V. C'è di più. In Italia v'ha non solo chi aderisce al Protestantismo e chi lo sorpassa, ma trovano aderenti e seguaci anche tutte le sette, tutte le variazioni, per adoprare la parola del Bossuet, nelle quali il Protestantismo si divise in forza del suo più largo e fecondo principio (questo il Bossuet non lo dice) il libero esame, il quale fondava la libertà di coscienza, come la Rivoluzione Francese fondò l'uguaglianza civile.
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Contuttociò la Riforma in Italia non attecchì. Se considerate le condizioni politiche e morali dell'Italia d'allora, non vi occorrerà cercare altre spiegazioni di questo fatto. Sull'indifferentismo dei più un moto religioso non si propaga; trova per eccezione aderenti, trova chi lo sorpassa, trova chi vorrebbe conciliare il nuovo col vecchio, ma non riattaccandosi a nessun avanzo di antiche e tradizionali fazioni politiche Italiane, contrariando anzi del pari Guelfi e Ghibellini, nel momento stesso che Papato ed Impero si ridanno la mano, è naturale che tra questi due colossi si dibatta penosamente con sforzi parziali e individuali, ma finisca per rimanere schiacciato.
Sopravvissero la colonia italiana di Ginevra, e nelle Valli Alpine del Chisone, del Pellice, di San Martino e Luserna, fra il Moncenisio e il Monviso, il piccolo popolo dei Valdesi. La loro storia è assai più antica della Riforma Protestante, ma nel secolo XVI essi l'accettarono e a traverso mille vicende resistettero e perdurarono. V'ha un'armonia tacita e profonda fra certi luoghi e la gente che v'è nata e cresciuta. Nelle valli Valdesi la natura si mostra in tutti i suoi aspetti dal più ridente al più melanconico, dalla vegetazione più ricca e più gaia ai larici, ai licheni, ai muschi; dal mite spettacolo della pianura e del colle all'orrido e solenne dell'Alpe solitaria e coperta di nevi eterne. Tale armonia anche quel piccolo popolo la rivela nella semplicità de' suoi costumi, nel vivere parco e laborioso e in pari tempo nella sua storia, la quale dimostra con che impeto, con che tenacità disperata, quando la sua fede fu minacciata, diè di piglio alle armi, riparò sulle cime de' suoi monti e di là sfidò impavidamente la potenza e la moltitudine de' suoi nemici.
È proprio l'opposto di quanto accadde tra le ricchezze e i monumenti, fra gli splendori e la complicata civiltà delle maggiori città Italiane.
Qui non occorsero eserciti a domare ribellioni, che non vi furono. Un tribunale di frati, un carcere, un rogo bastarono a far tacere per sempre ogni voce fuori di chiave.
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Fu un bene? fu un male? È l'ultimo problema, che nasce spontaneo dalla storia, di cui ho cercato disegnarvi appena i lineamenti principali, ma ormai l'ora è passata ed io non posso che proporlo e dirvi: “pensateci, se vi piace, signore!„ Non curarsi affatto di tali problemi è vecchia abitudine Italiana, prodotta anch'essa in origine dal doppio e contradditorio impulso del Rinascimento critico e razionalista e della grande e opprimente reazione Cattolica del secolo XVI; ma non direi che tale abitudine sia per l'Italia un titolo e un segno di morale e filosofica superiorità. A giudicare da certi effetti mi parebbe quasi il contrario. Ad ogni modo, ripeto, se vi piace e non v'affatica di troppo, pensateci su!