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V.

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La rivalità tra Francesco I e Carlo d'Absburgo è determinata infatti da un così complicato intreccio di tendenze morali, e di materiali interessi, che non era dato sempre nemmeno ai due antagonisti misurarne le conseguenze. Grave errore sarebbe imputare solo alle cupidigie loro l'asservimento d'Italia, e non riconoscere che noi stessi fummo artefici sconsigliati della nostra fortuna. Di quanto non si sarebbe, ad esempio, ritardato l'urto formidabile, di cui noi soli dovevamo pagare le spese, se i principi e le repubbliche italiane abbandonando la politica sospettosa e fedifraga seguita fino allora, avessero secondati gli sforzi generosi di Enrico VIII e del Wolsey per formare un'alleanza universale tra gli Stati cristiani! Se non che mentre nei campi dei drappi d'oro il Re inglese induceva a miti consigli Francesco I, e minacciava di abbandonarlo se avesse presa l'offensiva della guerra per far rispettare il trattato di Noyon, il Wolsey stesso si lasciava adescare dall'oro austriaco, e Leone X, che più avrebbe dovuto incoraggiare la diplomazia inglese, raggirava tutti con arti tenebrose, e per un fine non sempre evidente ai suoi stessi negoziatori. La difesa della politica imperialista di papa Leone è stata tentata di recente con dottrina pari all'ingegno; ma quante volte non si ammantano di ingannevoli idealità, i documenti ufficiali della diplomazia! Giulio de' Medici ebbe un bel difendere dopo la morte di papa Leone innanzi a Francesco Guicciardini quella complicata tela di raggiri e di frodi, quasichè il pontefice avesse mirato alla salute della penisola. Se egli trattò segretamente con Carlo V, e provocò di nuovo la guerra, dopo aver ampliato, con turpitudini d'ogni maniera, gli Stati della Chiesa, e minacciato il duca di Ferrara, non la preoccupazione del moto religioso in Germania, o le minaccie osmane ve lo aveano indotto, ma la insoddisfatta brama di Parma e Piacenza. La guerra iniziatasi con prosperi successi per la Francia, nei Paesi Bassi, e ai confini di Spagna riuscì a tutto vantaggio degli eserciti confederati imperiale e pontificio. Gli Spagnuoli toglievano Milano al Lautrec il 19 novembre 1521, e pochi giorni appresso ricondotto dalle armi straniere Francesco II Sforza sul ducato paterno, Carlo V pagava al pontefice il prezzo dell'alleanza. Leone X non fece a tempo a misurare la fallacia delle sue previsioni. Sul sepolcro illacrimato che il primo dicembre gli si dischiuse fioccarono gli epigrammi, sghignazzò Pasquino durante il conclave, e i clienti arricchiti dalla Curia romana, durante il lungo tripudio carnevalesco del papato Mediceo, perdettero gravi somme accettando favolose scommesse sul nome di Giulio de' Medici, che non raccolse i suffragi. L'eletto fu Adriano d'Utrecht, il precettore di Carlo V. Alle tanto temute influenze francesi si sostituivano le più caute e pazienti della cancelleria spagnuola, e l'Imperatore rallegravasi di quella scelta, come di una vittoria sua propria. Ma quale eredità non avea lasciata al successore Leone X! Il severo fiammingo, che la ripudiò con disdegno, apparve alla Roma rediviva dei Cesari come un fantasma pauroso e grottesco. Sparve dal Vaticano lo sciame dei parassiti e dei cortigiani, sospesero le abbozzate pitture gli scolari di Raffaello; e il solitario pontefice in odio al popolo per la sua avarizia, ingannato e deriso da cardinali beffeggiatori, logorò la vita infelice, proseguendo un ideale irrealizzabile di restaurazione morale, politica e religiosa. La fioca voce di Adriano VI morente, era soffocata dal fragore delle armi proprio allora che la guerra si riaccendeva più aspra che mai in Sciampagna e in Piccardia, e la vittoria della Bicocca (dell'aprile del 1522) avea già assicurato il possesso di Milano ad un principe ligio ai voleri di Carlo V. Con nuovi e insperati successi questi raccoglieva il frutto delle due leghe conchiuse coi Veneziani, col papa e con gli Stati minori d'Italia. Respinta nel 1523 l'invasione del general Bonnivet, sgombrata ancora una volta la Lombardia dai Francesi, perchè non avrebbe egli dato ascolto alle sollecitazioni del duca Carlo di Borbone, il ribelle feudatario di Francia, che lo stimolava a penetrare in Provenza, a congiungere le forze tedesche alle spagnuole, a marciare direttamente su Lione per strappare dal capo del suo avversario la mal difesa corona? Se non che la spedizione della Provenza del 1524 non fu più avventurata delle successive. Il duca faceva affidamento sul concorso de' suoi partigiani, e l'odio così gli accendeva la fantasia da non scorgere che ribelli nei popoli devoti e affezionati alla casa di Valois. Onde gravissimi dissapori tra lui e il marchese di Pescara, che sotto le mura di Marsiglia, mirabilmente difesa dalla flotta francese capitanata da Andrea Doria, vedeva dolorosamente svigorirsi l'esercito dell'Impero. Durava ancora l'assedio quando giunse al campo notizia che il re di Francia ritentava in persona l'impresa d'Italia. “Chi vuol cenare all'inferno, esclamò il marchese di Pescara, torni pure all'assalto, ma chi vuol salvare a Cesare la Lombardia farà bene a seguirmi.„ Il progetto della rivincita torturava da lungo tempo l'animo di Francesco I; il tradimento infame del duca Carlo di Borbone non fece che ritardarne l'esecuzione. Le serie obbiezioni del La Tremouille non valevano meglio delle preghiere e delle lacrime di Luisa di Savoia per distogliere il re dall'affrettata deliberazione. Il 12 agosto del 1524 nel castello di Gien sulla Loira egli affidava la reggenza del Regno alla madre, e prendeva commiato dalla regina Claudia, dalla sorella, dalle dame della sua corte. Pochi giorni appresso muoveva da Avignone per la Liguria, inseguendo gli Imperiali, che aveano levato a precipizio l'assedio di Marsiglia, e il 20 ottobre passava il Ticino. Milano, spopolata dalla peste, priva d'armi e di denaro, per consiglio di Girolamo Morone gli apriva le porte il 24, e sulla fine del mese il maggior contingente dell'esercito vittorioso, per improvvido suggerimento del Bonnivet, concentravasi sotto le mura dell'infausta Pavia. Chi avrebbe mai preveduto, dopo una così rapida restaurazione delle sorti francesi, la catastrofe del 24 febbraio 1525, la morte sul campo del Bonnivet, del La Palisse, del La Tremouille, la rovina di tanta parte della feudalità francese, l'umiliazione e la prigionia del re? Non ne indagheremo le molteplici cause; ma certo l'immane disastro colpì come fulmine, e disarmò i principi italiani delle speranze fin allora nutrite di rialzare la parte francese per salvar la penisola dalla minacciata soggezione spagnuola. Nel vecchio e pur inevitabile errore di associare alla fortuna di un re straniero le sorti d'Italia ricadevano ben presto il pontefice, i Fiorentini, Venezia. La tela delle simulazioni e degli inganni con tanto accorgimento tramata da Leone X ai danni della Francia, si ritesseva ora a rovescio, e con minore risolutezza ed energia dal nuovo pontefice Clemente VII. Nemici a lui i Colonnesi, fedeli a Cesare, insofferenti del giogo mediceo i Fiorentini, Clemente VII acquetava quelli dandosi a credere legato ancora a Carlo V dai vecchi patti, appagava questi con false promesse di liberali riforme nel reggimento politico di Firenze, che illudevano i nostri politici, non avvezzi più a limitare l'acuto sguardo entro la ristretta cerchia degli interessi cittadini, ma preoccupati della salute d'Italia. Resistere a Carlo V significava inoltre per il pontefice non impegnare la Chiesa romana in riforme dogmatiche e disciplinari, che ne offendessero le tradizioni, ne minacciassero gli antichi diritti, spogliassero il papato del principato terreno. Gravi preoccupazioni politiche ispirate talvolta ad una idealità di principî, che lasciavano fredde e indifferenti le moltitudini, persuadevano la repubblica veneta a secondare il nuovo indirizzo della politica pontificia. Riconquistato faticosamente il dominio di terraferma, usurpatole dai collegati di Cambray, Venezia acquistava ogni giorno più la coscienza della sua italianità. Estranea per lunghi secoli alle dolorose vicende della penisola, essa offriva all'ammirazione della scienza politica l'organismo meraviglioso della sua costituzione interna proprio allora che dai Principati e dalle sopravvissute repubbliche, impotenti a risolvere il problema politico, le derivarono i benefizi della progredita cultura, e i doni preziosi dell'arte rinnovellata. Se non che i generosi sforzi della Repubblica non impedirono che da funeste titubanze, e da diffidenze reciproche non rimanesse impacciata l'opera nostra. La congiura del Morone incautamente condotta, riuscì a tutt'altro fine da quello che se n'era sperato: accrebbe la impotenza personale di Francesco Sforza, svelò il putridume di corrotte coscienze, rese più che mai sospettosa la vigilanza degli Spagnuoli. Dopo il trattato di Madrid, che immobilizzava le forze francesi, e più che mai turbava il già spostato equilibrio, l'Italia sentì più grave il peso dell'oppressione, e accedendo alla lega di Cognac e alla politica inglese, sembrò con un ultimo sforzo risollevarsi dal letto del suo dolore. L'idea generosa di una riscossa ispira la prosa ufficiale del Wolsey, infonde nuovo calore alle lettere diplomatiche del Datario Ghiberti, conforta di pietose illusioni lo spirito travagliato di Niccolò Machiavelli. Ma la Niobe delle nazioni non fece che esporre a nuove e mortali ferite il corpo già flagellato. Piombaronci addosso le coorti indisciplinate del Borbone, i fanatici lanzi del Frunsberg corsero le terre desolate ed arse, traversarono le città spopolate le genti fameliche del Lautrech. Invano il pontefice abbandonato dai Fiorentini, maledetto a Venezia, mancando agli impegni, sconfessava l'opera propria, e implorava misericordia dai nemici furenti. Ministri dell'ira celeste i Tedeschi compivano, col sacco di Roma, il vaticinio di Ulrico di Hutten, detronizzavano il papa, restituivano i diritti su Roma all'Impero, spegnevano la podestà temporale del sacerdozio, preannunciavano al germanesimo sulla risorta civiltà latina una nuova vittoria. Condannò Erasmo, che pur l'avea preparata con l'Elogio della Follia, la rovina di Roma. Ne consacrarono in noiose elegie il funesto ricordo i poeti latineggianti cresciuti alla scuola del Sadoleto e del Bembo. Anticipazione violenta di una legge fatale, il significato storico di quell'orgia di sangue, rimase per gran parte ignoto ai contemporanei, a Carlo V stesso, che non avea voluto impedirla. Sorpreso anch'egli dall'immane disastro, che scompigliava le sue previsioni, ne rendeva responsabile il suo avversario, violatore del trattato di Madrid, ne cercava le cause nella subdola politica inglese, nelle sfrenatezze delle plebi e degli eserciti, nella cupidigia insaziabile del papato. Ma come dissimularsi che il tremendo castigo non fosse commisurato alle colpe di papa Clemente! Come non riconoscere che per punirlo egli si era fatto complice dello spirito ribelle della nazione germanica, e che a lui solo come capo del mondo cristiano, ed erede di Carlo Magno, spettava invece reprimerlo e soffocarlo per salvare l'unità della fede? Gli amari rimproveri che il re di Francia, quasi assumendo di fronte a lui la tutela del mondo cristiano, gli scagliava contro, crucciavano il suo animo esacerbato. Più grave si faceva per Carlo l'imbarazzo di uscir con onore da una situazione pericolosa, più temeva il rischio di dover scendere a patti coi Luterani, di non trarre dall'alleanza imposta al Pontefice proporzionati vantaggi, più sentiva ridestarsi in petto formidabile l'odio contro il rivale che non appena libero dalla prigione, mancando alla fede data, lo avea di nuovo trascinato alla guerra. Il linguaggio di Carlo V verso l'avversario, che forte dell'alleanza di Enrico VIII proponeva condizioni di pace inaccettabili, passava oramai i limiti della convenienza, colmava ogni misura. E così proprio allora che la grande lotta sembrava perdere ogni carattere personale e rappresentare un urto formidabile di principî politici e di tradizioni opposte, i due rivali pensavano di deciderla in campo chiuso, e con le armi alla mano. Il sovrano della più cavalleresca delle nazioni sfidava il re cattolico a singolare tenzone, ed il duello avrebbe offerto un episodio di più al tragico dramma se Carlo V avesse saputo moderare le ingiurie, dopo la sfida.

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