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CAPITOLO II. Nel quale Monsignor Rutilante spiega la sua autorità.

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— Leggete reverendo — disse la contessa Gilarda Liturgico porgendo a Monsignor Rutilante una lettera sgualcita: — Leggete e ditemi se non ho ragione!

— Comunque sia... — aggiunse Monsignor Rutilante scrollando il capo — ... basta, vediamo.

Inforcati gli occhiali, spiegò il foglietto, e cominciò lentamente, con voce roca e nasale:

Cara mamma,

«scrivendoti, il peccato che sto per commettere mi appare in tutta la sua gravità e ne chiedo umilmente perdono a Dio. So di errare e non posso trattenermi da l'errore. Sii buona, perdonami, perdonami mamma, perchè ti voglio tanto bene e sono molto infelice! (Uhm! commentò Monsignor Rutilante estraendo un suo enorme moccichino rossastro).

«Ho pregato, ho seguito vigilie e digiuni, ho chiesto consiglio al mio confessore; ma nulla, nulla mi è stato di giovevole conforto in questo gran male.

«L'amore è una cosa triste e ineluttabile; io lo sento e chiedo perdono a Dio per la mia debolezza.

«Andrò molto lontano di qui; in qualche chiesa remota, consacrerò a Dio questo disperato amore che mi consuma, poi mi prostrerò su la terra, piangendo.

«Non so scriverti più perchè il pensiero si perde.

«Addio, ti bacio forte, addio.

«Didino.»

— Povero figliuolo! — disse Don Eucaristia.

La contessa Gilarda e Monsignor Rutilante si guardarono negli occhi.

— Che ne diranno i repubblicani? — chiese Don Barchetta con la sua voce stridula e infantile; poi si volse verso la finestra e guardò giù, nel giardino, con aria pensosa.

— Non è un'infamia? — riprese la contessa Gilarda interrogando Monsignor Rutilante.

— In questa faccenda vi deve essere un colpevole — rispose il savio prete — e lo scopriremo. Però mi permetterete dirvi, cara contessa, che se da parte vostra vi fosse stata sorveglianza maggiore e saggia oculatezza, il male che ora ci troviamo inaspettatamente su le spalle, si poteva evitare. I ragazzi non hanno ancora sufficiente discernimento, non possono, nella loro mente, troppo presa dalla fantasia, fare una netta e sicura distinzione fra il bene ed il male, sicchè da l'uno a l'altro, per inavviste propagini, si perdono.

Sta alla precettrice o al precettore che li guida il saperli indirizzare per la retta via, nel santo timore di Nostra Madre Chiesa; essi sono come una barca senza timone, ed attraversano il mare dei perigli; sono come un augello nella tempesta e possono disperdersi negli artifizi del nemico, nelle male reti degli uccellatori. Io so di molti casi consimili, nella mia esperienza di padre.

Certamente, per voi, cara contessa, questo è un grave caso di coscienza e dovrete purgarvene.

— Seguirò la volontà di Dio e la vostra, padre! — disse la contessa Gilarda inchinandosi.

— Ora però — riprese Monsignor Rutilante, dai vivi occhi volpini — conviene cercare la linea di condotta più opportuna per evitare mali peggiori: Quali erano gli amici di vostro figlio?

— Non ne aveva.

— È impossibile contessa. Un giovane di vent'un anno ha sempre qualche amico.

— Didino era un giovanetto solitario...

— Male! — chiosò Don Barchetta.

— ... e non aveva affetto per nessuno, se non forse per un suo cugino che capitava qui due volte all'anno e non più.

— Come si chiama? — chiese Monsignor Rutilante.

— Fedele Barbigi. È figlio del marchese Barbigi...

— Conosco conosco! — Esclamò monsignor Rutilante assentendo.

— È un giovanetto pallido, biondo, tutto gentile di viso: pare una donnina. Didino ne aveva molta compassione.

— E perchè? — chiese Don Barchetta.,

— Per naturale devozione ai deboli! — rispose la contessa Gilarda: — È un insegnamento di nostro Signor Gesù Cristo!

Don Eucarestia, agitando il capo, assentì.

— Non sapete se vostro figlio tenesse corrispondenza col marchesino? — riprese Monsignor Rutilante.

— Si scrivevano qualche volta.

— Le lettere le leggevate voi?

— No.

— Male! — ridisse Don Barchetta.

L'interrogatorio continuò da parte di Monsignor Rutilante:

— E, avete frugato fra le carte di vostro figlio?

— No.

— Neppure una volta?

— Mai, padre!

— Questa è cosa necessaria. Volete avere la cortesia di farmi recare qui la corrispondenza di Manso Liturgico?

— Subito! — rispose la contessa, e toccò il bottone di un campanello elettrico.

Allorchè Monsignor Rutilante s'ebbe i documenti incriminati, cominciò a scorrerli con occhio attento. Passò una pausa durante la quale non si udì che il respiro asmatico di Don Eucaristia; poi, riprese il vescovo dalle grandi ciglia:

— E a voi non era nato mai il desiderio di leggere queste lettere?

— Mai.

— Peccato! Perchè sono veramente degne di essere osservate!

Don Barchetta volse gli occhi al soffitto in atto di squisita distrazione.

— Pare impossibile — riprese il maestro e donno — sembrano scritte su la falsariga di un epistolario galante.

— Davvero? — chiese la contessa, maravigliandosi.

— Proprio così. Sentite.

«... ah! i bei tramonti, i bei tramonti, ricordi Didino mio? su le vette della Cescara, al castello di Belfiore, alle sorgenti del tuo azzurro fiume di cui mi sapevi dire tante cose e sapevi con fascino sì grande narrarmi gli incantesimi. Quanto ti ho amato, quanto t'amo ancora per la tua dolcissima parola fascinatrice, irresistibile, avvolgente.

«Io sono una povera paglia in tuo dominio e tu mi possiedi.

«Ora sono solo, così solo che tutto mi fa sospirare e non penso che a te, e te vedo in tutte le cose e di te parlo ai boschi, alle nubi che scendono verso la lontanissima pianura, al sole che muore nel tuo bel mare pieno di vele rosse.

«Ritorna, ritorna, io ti desidero con tale ardente affetto quale forse non potrai supporre.

«Tutto ti aspetta qui, vieni. Il tempo non sarà avaro a noi di ore deliziose, vieni, vieni!»

— Eccetera! — aggiunse Monsignor Rutilante.

— Si volevano molto bene, infatti! — disse la contessa.

— Pare! — esclamò Don Barchetta.

E Don Eucarestia, un prete ormai vecchio e di costumi antichi, aprì per la ventesima volta la tabacchiera d'argento.

— Ci si sente l'influsso d'annunziano — riprese Monsignor Rutilante.

— Questo poi!.. — sorse a dire con impeto la contessa Gilarda.

— Perchè vi maravigliate?

— Perchè nè Fedele, nè Didino hanno letto mai un libro di quello scomunicato!

— Ne siete ben sicura?

— Sicurissima. Le letture di mio figlio le ho sempre regolate io.

— Che cosa leggeva, per esempio?

— Che so?.. I promessi sposi; La monaca di Monza; il Leopardi...

I tre preti si guardarono in viso spinti da uno stesso sentimento di indignazione, ed esclamarono in coro, prolungando le vocali:

— Il Leopardi?

— È un gran male? — chiese con timido sorriso la contessa.

— O beata inscienza! — esclamò Monsignor Rutilante: — Per te è forse il regno dei cieli; ma quante anime si perdono su la terra per la tua mala guida!

L'uditorio rimase silenzioso e l'esame continuò più rapido, più aspro, più nervoso.

Nella casa non si udiva un sussurro. Era una casa muta, un po' buia, posta in una strada chiusa fra un convento ed una chiesa. Il gran sole che avvolge la piccola umanità litigiosa, vi giungeva a pena sul mattino, per un attimo.

Così, muta nella sua penombra, poteva paragonarsi a qualcosa che stesse fra la camera oscura e la cabina telefonica.

Non appena Monsignor Rutilante ebbe presa visione delle brevi lettere sentimentali, si volse alla contessa Gilarda e disse:

— Una cosa traspare da queste missive, una cosa che non avrebbe dovuto sfuggire alla vostra femminil perspicacia. Fedele, il biondo cuginetto, sapeva tutto ed ha incoraggiato il parente.

— Possibile mai? — esclamò la contessa Gilarda.

— Nè più nè meno di quello che vi ho detto. Ora, per aver ben sicure traccie del fuggitivo, bisogna chiamare al più presto Fedele Barbigi.

— Lo faremo.

— Non v'è altra via. Frattanto i repubblicani, i socialisti e gli anarchici avranno il lor daffare! (A questo penso io!). Così guadagneremo tempo.

— Però... la cosa è fatta! — osservò la contessa. — Non c'è via di scampo! Converrebbe fargliela sposare onestamente.

— Mai! — gridò Monsignor Rutilante levandosi. Gli occhi suoi neri, lampeggiarono d'odio. — Mai! Un servo della Chiesa deve rimanere fedele a' suoi principî, in tutte le azioni della vita.

— E se Gian Battifiore lo vuole?

— Noi siamo più forti contessa; ricordatelo!

— Io affido nelle vostre sante mani il mio destino.

— Così sia! — disse Don Barchetta guardando co' suoi occhi miopi, attraverso ai vetri, un giardinetto malinconico nel quale cresceva, fra quattro mura verdastre di muffa, una vegetazione miserrima.

Il servo, alla chiamata della contessa Gilarda, riaccompagnò i tre preti a l'uscita; poi, quando il silenzio ritornò nella stanza semibuia, la signora si diresse verso una porta nascosta da ricchi cortinaggi e, con voce impaziente, si dette a chiamare:

— Messibèll! Messibèll!

Si udì una corsa, un mugolio, indi comparve, aggroppando la coda, tutto tremante e festante, uno di quei piccoli canini africani ch'ebbero in dono da natura, fra le altre bellezze, quella di non avere, sul corpicciuolo malfatto, l'ombra di un pelo.

Messibèll si rizzò su le zampe posteriori, abbassando le orecchie con l'aria di timido ebetismo che è sì propria a questi piccoli amici de l'uomo intelligente. La contessa se lo recò fra le braccia, prodigandogli ogni sorta di vezzeggiativi amorosi e una volta ancora, nelle avversità della vita, riconobbe come l'eterna provvidenza, per istabilire il divino equilibrio delle cose, creasse l'uomo, il dolore e il cane.

Gli Uomini Rossi

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