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CAPITOLO V. Nel quale Divina piange un dirotto pianto per la soave Primavera.
ОглавлениеErano arrivate le prime canipaiuole, gli usignuoli e le capinere. Africa le aveva udite cantare fra le siepi del brolo, nelle notti in cui non poteva dormire perchè le lenzuola odoravano troppo acutamente di lavanda e passava la primavera la quale ha qualche perfidia per le zitelle che aspettano invano il guanciale compagno.
Gli alberi avevan posto la loro gaia animazione floreale ne l'aria azzurrina e il vecchio melo, che sorgeva con le sue rame vicino alla finestra della stanza ove dormiva la solitaria, sorrideva già nel suo bianco diadema, per le nozze feconde rinnovantesi ad ogni nuovo ritorno della dolce-prolificante sorella.
Era per l'aria l'invincibile languore primaverile che fa fiorire il viso degli adolescenti.
Africa passava le sue giornate, intenta ad agucchiare, muta e astratta nel suo unico pensiero d'amore e contava le foglie e contava le rame, e aspettava il sorgere delle stelle, sempre intenta a trarre il favorevole responso alla sua speranza dolorosa e continua.
Asia, la cupa Asia dai grand'occhi obliqui, dai miseri capelli e dalla grande magrezza stridente, poichè Europa aveva seguìto il suo ignoto destino, era divenuta più strana, più irascibile, più agitata. La sua voce suonava ora, alta e sovrana in infinite querele. Tutto le dava ragione di sospetto e di male, tutto l'accendeva di sacro zelo e paure incomposte le attraversavan la mente di continuo, nate da cause irrisorie. Ella era in moto per tutta la casa dai tetti alle cantine, e ciò dallo spuntare del giorno a l'ultima sera; giungeva trafelata, guardava la disposizione delle cose, lanciava qualche parola e ripartiva per altra mèta, per altre grida, per altre apparizioni trafelate.
Tutto il suo cuore e tutta la sua mente, erano in tale agitarsi; ella non vedeva più in là e le pareva sorreggere il mondo. D'altra parte, le agonie del desiderio nutrivano la sentimentale anarchia.
Asia sapeva che la sua stagione era giunta al termine estremo; sapeva che ormai dalla rossigna sera si levava l'addio che non ha ritorno, epperò gli ultimi assilli, le ultime tentazioni de l'amore le davano l'irrequietezza di chi non può tender le mani al piacere che trema nelle bianche gole delle vergini e zampilla dalla inesausta fonte della vita.
A l'opposto, America era calma e tranquilla perchè sapeva di essere desiderata. In tale pensiero, a volte, lo spirito si acqueta.
Ella era bionda e piacente, ne l'età dei frutti; aveva una bella persona propiziatrice e la primavera non le dava nè malinconie, nè esaltazioni.
Oceania, trillando come gli usignuoli e le capinere, guardava gli astri fatali, in attesa de l'annunzio della sua definitiva assunzione al marital dominio.
Le quattro figlie di Gian Battifiore, vive rappresentanti di una incorrotta ed incorruttibile fede politica, assistevano così, sole e fantasticanti, ciascuna in suo metro, alla stagione che gli uomini, ligi alle loro leggi tetragone ad ogni assalto, dovrebbero chiamare peccaminosa.
E Divina le guardava sospirando, e diceva in cuor suo:
— Quanta bellezza si perde! E gli uomini cantano alla luna!
Ella ci soffriva perchè era nella sua natura l'istinto de l'accoppiamento, istinto che a volte rasentava l'ossessione.
Così, negli occhi suoi, vagava una continua pietà per le padroncine che non potevano sapere niente.
Nel brolo c'eran le canipaiole che hanno gli occhi come due piccoli coralli e Divina ricordava che, sotto la sua casa di grossolane selci, udiva un tempo il fischio di Fiurù, simile al verso delle canipaiole. Le sue quattro ragazze (le teneva ella ne la sua materna protezione) chisà quanto dovevano soffrire per la ininterrotta solitudine!
E se qualcuna le avesse detto:
— Divina, aiutami!
Sarebbe andata in capo al mondo per far entrare di soppiatto l'amore, dove le consuetudini non volevano. Non era giusto forse? La nostra vita è breve — pensava ella — bisogna ben godersela come si può. Quando si è morti, è finita!
Ora, vedeva Africa sospirare per il conte Alfonso De' Bigamia; Asia e Oceania attendere a loro volta il sospiro che si rivolge a qualcuno e America perdere la sua bella giovinezza, nel sonno e ne l'insapienza.
Ciò le dava grande amarezza.
Verso sera, le figlie di Gian Battifiore, poichè la madre Veneranda usciva per le sue pratiche religiose e il padre era assorbito dagli interessi della popolazione, si riunivano in una stanza a terreno, che immetteva ne l'orto e, intente a qualche lavoro femminile, attendevano l'ultimo crepuscolo.
Divina era con loro.
Quella sera, come di consueto, disposte in semicerchio intorno alla porta, per ricever la luce direttamente, stavano chine sui loro lavori. Tre giorni erano trascorsi dalla notte fatale, e quasi un acconsentimento con la sorte era subentrato alla disperazione dei primi momenti; un acconsentimento doloroso, perchè pensavano esse ai paesi felici nei quali Europa fuggiva, guidata da l'amore forse, chè non credevano altrimenti.
Asia lavorava ad un'enorme calza nera; America era curva sul tombolo; Africa ed Oceania ricamavano, sopra una stoffa verde, un gran fiore giallo.
Divina le guardava in silenzio diritta ed immobile dietro loro.
Cigolò d'improvviso una girella rugginosa su qualche antico pozzo delle vicinanze.
— Dio!... — esclamò Asia portando una mano al cuore.
— Che cos'hai? — chiesero le sorelle levando gli occhi, sorprese.
— Questo rumore mi fa male!
Divina scrollò il capo in atto doloroso e disse:
— Povera figlia, povera figlia mia!
Il cigolio continuò per qualche minuto ancora, e fu seguito da una voce limpida, che, in impeto canoro, mandò un suo lungo canto ai cieli crepuscolari.
Poi Oceania mormorò:
— Sentite Neretta!...
Si udì da prima un mormorare sommesso, un picchiettìo di campanellini a pena tintinnanti nella lontananza; dipoi in un crescere, in un distinguersi, come per forza di vento, un gorgogliare, un trillare di un fischio caldo e pieno che si espanse in poche note, fiorì in appoggiature, si estese in cadenze e morì ad un tratto in breve trillio.
— Neretta fa il nido — disse Africa.
Neretta era la capinera che tornava ogni anno ne l'orto dei Battifiore.
E le sorelle in coro, su toni differenti, come un lamento, risposero:
— Sì!
Passò una pausa.
— Dove sarà Europa? — chiese poi Africa, sospirando.
E le sorelle:
— Chisà?
Seguì ancora il silenzio e la luce si spense sempre più dietro gli alberi, in grandi veli di porpora, fra sfumature violette e verdi e d'oro.
A poco a poco, si come il vespero avanzava, ciascuna delle sorelle abbandonò il lavoro e alzò gli occhi verso le alte rame e il cielo. Giunse il suono di un organetto, da una casa vicina, e un tumultuare di voci giovanili.
Divina, sempre immobile, udì e vide: vide le figlie sue impallidire, vide la traccia inesorabile del tempo sul viso di qualcuna, ricordò che la primavera è come un'alito, e che non si può far fidanza ne l'avvenire, sì che, di fronte alla sua impotenza presente, un grande scoramento la prese fino a darle il tremito del singhiozzo, fino a farla scoppiare in gran pianto.
Vespero era sorto fra le rame del melo.
— Divina? — fecero le ragazze volgendosi — Divina?
— È ingiusto! — singhiozzò la gigantessa, con la faccia nascosta fra le palme. — È ingiusto! Europa ha fatto bene!
— Divina!... — gridò Asia scattando.
— Sì — riprese l'ancella fra i singhiozzi — sì... perchè quando è passato il tempo... addio!... È un'altra cosa!...
La magra zitella, cupa ed arcigna, chinò la testa in silenzio nè replicò, perchè il languore, che è come un rettile avvolgente in infinite spire, l'aveva stretta d'improvviso, sotto i vivissimi occhi degli arguti desideri.