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CAPITOLO IV. Nel quale gli anarchici prendono consiglio.

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Allorquando Gargiuvîn si fu allontanato fra la folla che tumultuava e l'ultima eco delle grida si perse nel consueto silenzio delle piccole vie lontane, Schignòtt aprì l'impannata della breve finestra che dava luce al suo momentaneo rifugio, sogguardò intorno e, assicuratosi che nessuno era in agguato, prese con sè Plè e uscì camminando in fretta rasente ai muri. Dopo aver percorso un laberinto di vicoletti, giunse sotto le mura, alla piccola tana di Don Vitupèri. Raccolse un sasso e battè su l'uscio (nel quale era aperto, verso la base, un piccolo passaggio quadrato per il gatto e le galline) prima tre colpi rapidi, poi tre più a rilento e tre ancora.

Una voce cavernosa rispose da l'interno:

— Novità?

— Apri — disse Schignòtt.

Poco dopo l'uscio si dischiuse e il pezzente entrò accompagnato da Plè.

Don Vitupèri era un prete lungo ed ossuto, dal viso magro e rugoso e dagli occhi celesti. Indossava una veste rossigna, un tricorno verdastro e aveva un vestigio di scarpe.

Egli era anarchico di convinzione e i compagni suoi l'avevano in alto concetto, riconoscendo la sua sapienza.

Schignòtt andava ora a prendere consiglio.

Quando l'uscio fu chiuso, Don Vitupèri, riaccovacciandosi sul suo giaciglio, innanzi ad un vecchio libro, chiese in tono distratto:

— Novità?

Schignòtt protese il collo e rispose:

— Hanno imprigionato Gargiuvîn!

— Ah! — fece Don Vitupèri senza scomporsi; e non alzò gli occhi dal libro.

— Come? la notizia non ti fa impressione? — riprese Schignòtt.

— Niente affatto! — rispose il prete senza scomporsi.

— Ma siamo in pericolo tutti!

— E perchè?

— Perchè ci accusano di aver rapito una figlia di Gian Battifiore.

— Davvero? E per quali ragioni?

— Per vendicarci.

— E di che cosa?

— Delle continue persecuzioni.

— Eh! — fece Don Vitupèri alzando una mano come a significare una inconcepibile invenzione; poi riabbassò gli occhi sul libro.

— Che cosa conti fare? — chiese Schignòtt.

— Nulla.

— E se ti legano?

— Buonanotte!

— Ma lo scandalo per te?

— Lo scandalo? — fece il prete alzando le sopraciglia a semiluna: — E ti pare che ciò possa commuovermi? Lo scandalo per noi è una parola come tante altre; il fatto non esiste. Noi siamo liberi da tali legami e in ciò è il pregio della povertà. Ci hanno confinato quaggiù, siamo straccioni, il nostro stato è quello delle bestie, avremo diritto ad una nostra morale, mi pare!

Schignòtt tacque con gli occhi fissi e assunse l'aria compunta di colui che non intende ed è per maravigliarsi.

— Poi — riprese il prete — siamo innocenti.

— Questo è vero! — disse Schignòtt: — Però oggi o domani ci porteranno al buio.

— E che vorresti fare?

— Ti chiedevo consiglio. Apulinêr non è in casa?

— No; ma tornerà fra poco.

— Dio mi castighi, se non ho una paura maledetta.

— Dei poliziotti?

— No, della prigione.

— E perchè?

— Perchè?... perchè senza sole, il respiro mi manca; perchè voglio morire in fondo a un fosso come mio padre, e non in un letto di infermeria. Io ho paura degli uomini, sai?...

— Hai paura?

— Sì.

— E vivi delle loro elemosine?

— Non è vero! — gridò Schignòtt scattando. — Io vivo di ciò che trovo per le strade!

Vi fu una sosta in cui Plè e Miarù, il vecchio gatto di Don Vitupèri, si azzuffarono, si rincorsero, riempirono la stanza di mugolii sordi e minacciosi, di cupe grida, di soffi e di guaiti. Plè, avanzando con prudenza la grossa testa spelata dalle lunghe orecchie penzolanti e piagate, girava intorno al nemico per prenderlo alla sprovvista; Miarù, inarcato come un orciòlo, col pelo arruffato, la coda diritta, la bocca aperta e minacciosa, seguiva col giro lento degli occhi verdi il cane, muovendosi a pena in agili scatti.

Interruppe l'aspra battaglia, un gracchiare roco, e il subito apparire, dalla piccola apertura praticata ne l'uscio, di un'ombra nera.

— Ecco Apulinêr! — disse Don Vitupèri.

— Lèdar lo precede sempre — soggiunse Schignòtt.

Lèdar, la cornacchia, giunse zoppicando nel bel mezzo della stanza, spiccò il volo ed andò ad appolaiarsi sopra un'asse vicina al soffitto.

Poco dopo, Apulinèr socchiudeva la porta. Non appena vide gli amici, sussurrò:

— Gargiuvîn è in prigione!

— Lo sappiamo — risposero — e ti aspettavamo.

— Arfàt e Marcôn sono già partiti — soggiunse.

— Lasciali andare.

— Che faremo noi?

— Rimarremo al nostro posto! — disse Don Vitupèri. — Chi parte si condanna.

— Sei stato mai in prigione? — chiese Apulinèr, curvandosi.

— No.

— Allora non puoi sapere! Vieni con noi, andremo alla montagna, non ci troveranno più.

— Lassù mi conoscono e sarebbe peggio.

— Vuoi rimanere coi lupi, allora?

— No, rimango con Miarù e guarderemo alla casa. Andate andate. Al vostro ritorno mi troverete ancora qui. In quanto a vivere si vivrà. Gli spazzini sono pigri, fino alle quattro di mattina non lasciano le loro mogli e abbiam tempo di far bottino. Miarù non pretende molto, a me, lo sapete, basta un rosicchiolo secco e si trova sempre. Quando tornerete di lassù...

Ma poi non finì la frase, riabassò il capo sul libro e s'immerse nella lettura.

Schignòtt e Apulinèr si guardarono un istante, alzando le spalle e si dissero:

— Andiamo.

Schignòtt legò al collo di Plè una cordicella; Apulinèr fece un fischio e dischiuse l'uscio. Per l'aperto quadrato, s'intravidero gli ori del tramonto. Lèdar, gracchiando, scese dal suo nido vicino al soffitto e s'involò innanzi ai due che prendevano il cammino silenziosamente.

Plè seguì con la coda bassa e si volse a tratti per tema che il selvaggio Miarù lo seguisse.

Ne l'aria si udì lo stormire dei pioppi sotto il vento della sera.

— Oh, uomini uomini! — esclamò Don Vitupèri che s'era fatto su la soglia e guardava il rosseggiare dei cieli. — Uomini uomini! Più vale un grillo e una formica e una monera anzichè tutta la vostra prosopopea.

Io mi chiamo l'Ultimo fra voi, ma la vendetta mi guida!

E tese le braccia scheletriche, alte sul capo, sogghignando.

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