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III.

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Questo giovane principe salito al trono nell'età di anni 18, per la immatura e violenta morte del fratello, ebbe la ventura di rimetterlo in onore, e di ristorare le sorti della Persia. E conoscendo quanto importava a quella regione la ottima corrispondenza colla repubblica di Venezia, pei rispetti del comune nemico, e per quelli del traffico che minacciava dirigersi tutto per la nuova via aperta alla navigazione, egli mandò varii oratori a Venezia collo scopo di dare, come si espresse con formula singolare, una mossa o scorlo alla catena che teneva strettamente congiunto l'amor suo alla repubblica, e lo interesse reciproco dei due Stati.

Di già i consoli veneti nella Siria ed i baili a Costantinopoli avevano riferite in senato le gesta e le virtù di Abbas, che fu meritamente onorato del nome di grande, ed in particolare Alessandro Malipiero nell'anno 1596 aveva minutamente informato intorno le riforme date da esso ai suoi stati, le conquiste fatte, e le sue differenze col kan dei Tartari rispetto all'acquisto del Korassan, le quali difficoltarono le sue marcie nei paesi ottomani[86].

Ecco il ritratto di Abbas, letto in senato dal Malipiero:

« Questo principe è di mediocre statura, di corpo ben disposto e proporzionato, di carnagione bruna, di aspetto nobile e di occhi vivi e molto spiritosi. È per natura affabile, molto umano e tratta con ogni sorta di persone domesticamente, lontano in tutto da quella tanta grandezza che sogliono ostentare i Turchi. È magnifico e molto liberale, massime coi soldati, i quali da ogni parte con larghissimi partiti va raccogliendo. Ma soprattutto è di mente giustissima, di spirito molto capace ed intendente, risoluto e presto in tutte le azioni sue. Ha gran concetti nell'animo, ed aspira a rimettere il regno di Persia nell'antica sua grandezza ed onore: nè manca altro alle eroiche sue condizioni, che forze corrispondenti alle qualità del suo generosissimo animo ».

Pietro Della Valle poi, nel suo raro e curioso libro Sulle conditioni di Abbas re della Persia, stampato in Venezia nel 1628, narra che la conquista del Laristan, che è la chiave del golfo Persico, sia stata fatta da quel re per eccitamento dei Veneziani che dimoravano alla sua corte, e dei quali altamente i consigli apprezzava. « Un mercatante venetiano, così egli dice, era andato in Ormus pei suoi traffici, e da Bassorati avea ivi condotta una giovane christiana della quale erasi invaghito. Seppe egli che dai ministri ecclesiastici portoghesi voleasi torgliergli la donna sua; laonde pensò ricondurla a Bassorah, et allestite le cose sue, si diresse a quella città attraversando il paese di Lar. Quivi dominava Ibraim kan, il quale, avute nuove di quella giovane, e saputo che era bella, la volse per sè, e fecela con violenza rapire, mandando a male tutte le robe del venetiano. Questi punto atrocemente nell'amore e nell'interesse, pensò di ricorrere al re Abbas, presso il quale sapeva trovarsi un altro veneziano, allora molto favorito, siccome il primo europeo che era capitato a quella corte; e col suo mezzo fece istanza al re di vendicare gli oppressi: considerandogli, come qualora i viaggiatori patissero per quelle vie tali ingiurie, si sarebbero i mercatanti stranieri disanimati a far quei viaggi con detrimento del commercio persiano. Altamente Abbas si sdegnò, e chiesta inutilmente ad Ibraim la restituzione della donna e della roba del veneziano, ordinò all'esercito di Alla hurdi di penetrare nel paese di Lar e di non cessare la guerra fino a che non lo avesse soggiogato del tutto. Così in fatti avvenne, e in poco tempo, fatto anco prigioniero Ibraim, potè il re di Persia unire ai suoi stati il paese di Lar ».

Nel giorno 1º di giugno dell'anno 1600 si presentò nell'eccellentissimo collegio il dragomanno Giacomo Nores [Documento XXIX] per annunciare l'arrivo di un oratore del re di Persia.

Il messo persiano chiamavasi Efet beg, persona di stima e di molta grazia appresso quel re. Fu egli introdotto l'8 di giugno in collegio, e fatto sedere vicino ai Savii di Terraferma, fece la sua esposizione con alquante parole in lingua persiana, interpretate dal dragomanno Nores, in significazione della buona volontà del sufi verso la repubblica, il cui nome era non solo amato, ma riverito grandemente nella Persia, ed in favore del reciproco commercio dei due Stati. Portatosi quindi a baciare la mano al doge gli presentò la lettera di Abbas [Documento XXX] che ricercava favore particolare intorno alla provvisione di alcune merci, e si estendeva in ufficii di confirmazione di quella buona amicizia che aveva sempre sussistito tra la repubblica di Venezia e la Persia.

Ad attestare la quale portò inoltre il persiano, a nome del suo re, un panno tessuto d'oro e di velluto rappresentante l'Annunciazione di Maria Vergine, fatto fare apposta, in misura di 7 a 8 braccia e che fu riposto nelle sale del Consiglio dei Dieci[87].

Il serenissimo principe assicurò l'oratore persiano, che la repubblica teneva in gran conto la perfetta corrispondenza col suo re, cui augurava ogni prosperità, e ringraziandolo del dono recato, gli promise favorevole risoluzione intorno a ciò che ricercava la lettera dello shàh. Il senato in fatti aderì ad ogni inchiesta del persiano, ed ordinò che gli venissero dati pel suo re alcuni doni del valore di ducati d'oro duecento, ed una lettera ducale la quale attestasse allo shàh Abbas « che mai in alcun tempo egli potrebbe desiderare migliore, nè più ben disposta volontà di quella che in tutte le occorrenze le comproverebbe il sincerissimo animo della veneta signorìa [Documento XXXI] ».

Questo oratore precedette di poco tempo una splendida legazione pervenuta dalla Persia in Venezia nell'anno 1603, ed accolta colle più solenni formalità.

Annunciata dal dragomanno Nores fu la legazione persiana introdotta a' dì 5 marzo 1603 nella sala del collegio[88]. La componevano Fethy bei, persona di alta condizione, ed agente particolare del re[89], il dragomanno, sei persiani e tre armeni del seguito, ciascuno dei quali portava doni per la serenissima signoria.

Posti i Persiani a sedere a destra ed a sinistra del principe, rimase in piedi dinanzi al tribunale il solo Fethy bei, che nella sua lingua interpretata dal dragomanno disse: « Che si rallegrava di veder la faccia di Sua Serenità, come quella di signore giusto, potente e glorioso ».

Ed avendogli il doge risposto « che sentiva di ciò piacere, e che lo vedeva di lieto animo, perchè inviato da un principe, grande, potente e molto amato dalla repubblica ». Il persiano così continuò[90]: « Sogliono alle volte li principi grandi visitarsi l'un l'altro col mezzo di lettere, per continuare ed accreditare di questa maniera l'amicizia e buona corrispondenza che hanno insieme; laonde il mio signore che onora ed ama grandemente la repubblica, mi ha accompagnato con una lettera a Vostra Serenità, per continuare ed accrescere l'amicizia e la buona corrispondenza che hanno insieme »; e poichè eragli stato ordinato di presentarla nelle proprie mani del doge, la trasse dal seno, ove la teneva riposta entro una borsa di seta rossa ricamata in argento, la baciò ed offerse al doge [Documento XXXII]: aggiungendo, che in essa il re raccomandava inoltre la persona sua e la spedizione dei suoi affari, che consistevano nell'acquisto di archibugi e di zacchi.

Il serenissimo principe Marino Grimani, presa la lettera rispose: « che la dimostrazione così continuata di amore e di ottima volontà del re di Persia verso la repubblica era largamente corrisposta da una vera e sincera affezione, e che a suo tempo si darebbe al suo ben accetto oratore la risposta, assicurandolo intanto che la persona sua, come raccomandata da S. M. sarebbe stata benissimo trattata ed interamente soddisfatta ».

Allora il persiano, offerendo una piccola nota scritta nella sua lingua [Documento XXXIII], soggiunse che il suo re presentava alla repubblica i doni ivi indicati, e che erano portati dai nove uomini del suo seguito, e pregò il doge di farseli recare davanti.

Così fu fatto. E per primo fu spiegato un manto tessuto d'oro. « Questo, disse il persiano, il mio re ha fatto fabbricare apposta per la Serenità Vostra, ed è tutto di un pezzo senza cucitura, e lo manda a Lei in particolare, acciocchè si contenti per amor suo ed in memoria di S. M. portarlo Ella stessa in dosso. Ne ha fatto fare un altro simile a questo, e lo ha mandato a presentare al re di Mogol suo grande amico ».

Fu poi spiegato un tappeto di seta, tessuto in oro, ed a colori, lungo quattro braccia, e largo tre; « Questo, disse il persiano, è dei più belli tappeti che si facciano. Il mio re avendo inteso che ogni anno si mette fuori il tesoro di S. Marco, tanto famoso per tutto il mondo, lo manda alla Serenità Vostra, perchè si contenti ordinare che ogni volta che si esporrà il tesoro sia esso esposto sopra questo tappeto[91] per la sua gran bellezza ».

Quindi, mostrato un panno di velluto, colle figure di Cristo e di Maria tessute in oro, lungo 7 braccia: « E questo, disse il persiano, il re manda perchè sia presentato alla chiesa di S. Marco ».

Furono inoltre spiegate sei vesti in pezza, cioè tre di seta tessute in oro, e tre altre di seta leggiera a varii colori.

Il serenissimo principe rispose: che aggradivasi il nobilissimo presente ben degno di re così grande, e tanto amato ed onorato dalla repubblica, e che sarebbe riposto in luogo degno, a perpetua memoria della Maestà Sua[92].

E nel giorno seguente ordinavasi che tutti i doni recati dal legato persiano fossero consegnati alla chiesa di S. Marco, commettendo a quei procuratori di far convertire le vesti in tante pianete, e di esporre il tappeto nei giorni solenni sullo sgabello del doge[93]. Ordini che furono puntualmente eseguiti[94]. Comandava inoltre il senato ai 6 di marzo [Documento XXXIV] ed ai 14 di agosto, che si spendessero duecento ducati in rinfrescamenti di Fethy bei, e lo si regalasse di alcune vesti di seta pel valore di altri ducati duecento; che a ciascun uomo del suo seguito si donasse una veste di panno scarlatto[95], e finalmente che si spendessero ducati mille trecento sessanta nei doni pel re della Persia, i quali furono: un bacile con ramino d'argento dorato a figure, ed uno simile di argento puro, un catino d'argento con oro e brocca simile, due fiaschi d'argento intagliati col vetro, un'armatura completa, due zacchi forniti l'uno verde in oro, l'altro rosso, e quattro archibugi lavorati in radice con perle e oro[96]. Inoltre il legato persiano fu favorito nei suoi acquisti[97], e gli fu consegnata una lettera ducale pel suo re, colla quale ringraziandolo della missione dell'ambasciatore, lo si assicurava, dell'ottima disposizione della repubblica verso la Persia, e del desiderio vivissimo di manifestarla al mondo, mediante veri effetti, e di aumentarla a beneficio del comune commercio [Documento XXXV].

E per tramandare la memoria di così splendida ambasceria, il senato commetteva a Gabriele Caliari di dipingere la presentazione degli oratori persiani, in una tela che ancora si ammira nella sala delle quattro porte del palazzo ducale, ed è una delle migliori sue opere[98].


L'arrivo di Fethy bei a Venezia, oltrecchè giovò a mantenere quella corrispondenza tra la Persia e la repubblica che tanto conveniva agli interessi politici e commerciali dei Veneziani; destando gelosie al gransignore, lo rese così disposto alla pace, che rinnovò ed ampliò gli antichi trattati colla repubblica[99].

L'oratore persiano, nel suo ritorno alla patria, trovò accesa la guerra fra il suo re e gl'Ottomani, sicchè arrivato nella Siria gli furono sequestrati tutti gli oggetti che portava seco, parte dei quali poterono essere posti in salvo dal console di Venezia, e parte in questa stessa città furono rimandati.

Laonde poco tempo dopo lo shàh Abbas, cui era impedito dall'esercito ottomano di spedire una formale legazione a Venezia, incaricava l'armeno Chieos di presentare una sua lettera al doge per annunciargli non solo la guerra che allora fervea, ed esprimergli il suo desiderio di unirsi ai principi cristiani ed in particolare alla repubblica; ma eziandio per chiedergli notizie dell'ambasciatore Fethy bei [Documento XXXVI]. E quando poi egli seppe che le merci ed i doni della veneta signoria erano presso il console della Soria, od a Venezia, qui spedì un altro suo messo, il chogia Seffer, che arrivava nel gennaio 1610.

Il console nella Soria Giovanni Francesco Sagredo, raccomandava questo oratore persiano al veneto senato, in contemplazione della potenza acquistata dallo shàh Abbas, la cui alleanza potea altamente giovare alla repubblica, e per corrispondere all'ottima inclinazione che quel re sempre avea addimostrata al nome ed agli interessi veneziani, per modo che alla sua corte qualunque ancorchè di bassa condizione fosse o si facesse credere veneziano, era accolto e trattato con tale famigliarità e cortesia da non potersi desiderare di più [Documento XXXVII].

A' 30 di gennaio 1610 il chogia Seffer con quattro persone di seguito, vestite tutte alla persiana, si presentò nel collegio, introdotto dal dragomanno Giacomo Nores; espose lo scopo della sua venuta, il quale era di attestare alla veneta signorìa il desiderio vivissimo del re di Persia di perseverare nell'ottima corrispondenza ed unione, che ab antiquo sussisteva fra i due Stati e di accrescerla maggiormente [Documento XXXVIII]; e presentando una lettera involta in due borse, una di raso, e l'altra di velluto, chiuse entro una scatola coperta di ricchissimo drappo, soggiunse: « che con quella il re pregava eziandio il serenissimo principe ad ordinare, che, al suo messo fossero consegnate le robe di Fethy bei, che erano ritornate a Venezia[100] ».


Letta dal dragomanno la lettera, il doge espresse i ringraziamenti della repubblica all'onorevole ufficio dello shàh di Persia, e promise di corrispondere al desiderio di lui.

Quindi il senato deliberava che fossero a chogia Seffer consegnati i chiesti oggetti [Documento XL] con un dono in danaro di ducati 200, ed in rinfrescamenti di ducati 100, e con una lettera ducale al re della Persia per risposta a quella recata dal suo oratore [Documento XLI].

Conchiusa poi la pace fra la Persia e la Turchia, pervennero a Venezia nell'anno 1613, accompagnati da una lettera di raccomandazione dello stesso Nasuf bashàh[101], primo visir a Costantinopoli, due inviati persiani, Alredin e Sassuar, per annunciare il felice evento della pace, ed attestare che il re della Persia: « nel suo puro et real animo, che a guisa del sole non riceve in sè nè macchia, nè menda di cattivi pensieri, desiderava di continuare nella solita amicizia ed unione colla signorìa di Venezia, avendo inteso con grande soddisfazione dell'animo suo la stima ed il conto che negli stati della repubblica si faceva del nome persiano, e bramava che si ristorasse la pratica ed il commercio che sussisteva prima della guerra, assicurando che i veneti mercanti sarebbero accolti con ogni favore nella Persia, nè mai molestati da alcuno o danneggiati, per quanto importa un minimo capello della testa [Documento XLII] ».

Questi oratori persiani furono onorevolmente accolti e favoriti. Recarono essi a Venezia 50 colli di seta e molti diamanti, ed esportarono merci preziose di vario genere che lo shàh aveva loro commesso di comperare, con un memoriale del quale sarà fatto cenno nella Parte seconda, siccome saggio della qualità delle merci che in quel tempo la Persia ricercava a Venezia.

Sassuar ritornò poi di nuovo a Venezia, quale oratore persiano, nel 1621, per migliorare i rapporti internazionali dei due stati. E presentatosi in senato al 1º febbraio 1621 insieme ad agì Aivas di Tauris [Documento XLIII], offrì una lettera dello shàh Abbas [Documento XLIV] con un dono di 4 tappeti, 25 pezze di giurini, e 25 di lizari d'India. Benedetto Tagliapietra consigliere anziano ricevette, in assenza del doge, l'oratore persiano, e ringraziatolo della lettera e del dono, lo assicurò che la sua raccomandazione sarebbe stata tenuta in gran conto, molto importando alla repubblica l'amicizia del suo re, ed il facile commercio colla Persia.

I preziosi drappi recati da Sassuar furono quindi consegnati ai procuratori de supra per essere usati nelle pubbliche cerimonie della chiesa di S. Marco[102] [Documento XLV].

Allorquando poi la repubblica veneta fu minacciata dell'impresa di Candia, per la cui difesa sacrificò e sangue e ricchezze, invano chiedendo agli Stati europei aiuto possente per sostenere in quell'isola l'antemurale della civiltà, non mancò di dirigersi eziandio alla Persia, colla speranza di trovare almeno da quella parte una importante diversione, che le lasciasse agio a difendere i proprii possedimenti.

Nell'anno 1645, il senato mandò all'ambasciatore veneto in Polonia Giovanni Tiepolo[103] una lettera pel re di Persia, incaricandolo di spedirla in quel regno con apposito legato, e di pregare il re di Polonia di unire anch'egli un suo oratore per lo interesse comune della cristianità, minacciata dalla prepotenza ottomana. E commetteva inoltre a Domenico Santi, che era diretto in Persia dal papa, dall'imperatore, dal re di Polonia e dal gran duca di Toscana [Documento XLVI], di prendere la via della Siria e di recare una consimile lettera al re persiano, per eccitarlo a muovere dalla sua parte contro la Turchia.

Le due lettere ducali allo shàh della Persia portavano le date 2 dicembre 1645 [Documento XLVII] e 17 luglio 1646 [Documento XLVIII].

Ricordavano esse, come l'Ottomano avesse più volte portate le armi contro i di lui predecessori, per rendere più vasta e formidabile la sua potenza. Che politica tradizionale della Persia era di mirare all'indebolimento di lui, e che ora le si offeriva la opportunità, dacchè stavano le armi ottomane impegnate in una impresa che non avrebbe mancato di spingere tutti i principi di Europa a frenare le usurpazioni della Turchia; e che già la campagna era incominciata coi più lieti auspicii, avendo la veneta armata assalita e danneggiata la ottomana nello stretto.

Il re di Polonia aderì alle istanze dell'ambasciatore veneziano, ed incaricò il nobile polacco Slich di recarsi in suo nome nella Persia, insieme al veneto legato padre Antonio di Fiandra domenicano, cui il Tiepolo avea consegnata la lettera ducale per lo shàh e le credenziali.

L'ambasciata veneto-polacca partì il 2 ottobre 1646 da Varsavia, accompagnata da 25 gentiluomini polacchi, e per Mosca e Nishni-Novogorod giunse a Casan il 12 febbraio 1647, ove si riposò per tre mesi. Partita poi da Casan a' 3 di maggio per il Volga, dopo un mese di procellosa navigazione sul Caspio, approdò alle spiaggie persiane e si diresse ad Ispahan, ove giunse soltanto al 15 di settembre, pei disagi sofferti nel viaggio dall'ambasciatore polacco. Il quale appena arrivato in Ispahan ammalò gravemente per modo, che non potendo eseguire le commissioni del suo re, mandò a chiamare uno dei principali della corte persiana, e presentandogli il veneto legato, consegnò al padre Antonio le lettere e le credenziali sue proprie, dichiarando che quegli soddisferebbe alla ambasciata in nome del re di Polonia e della repubblica veneta. E pochi giorni dopo egli spirò, e fu sepolto con molto onore nella chiesa dei Carmelitani Scalzi.

Introdotto il padre Antonio all'udienza del re il 27 di ottobre, offerse le lettere del re di Polonia e della repubblica, ed ebbe per risposta che sarebbesi con lieto animo ricambiata la loro amicizia. Invitato poi a stendere in lingua persiana i punti principali della sua domanda, egli li presentò; ma ottenne soltanto una vaga assicurazione che il re avrebbe assai volontieri cercato occasione di corrispondere efficacemente ai desiderii dei principi cristiani, ed una lettera in questo senso al doge di Venezia, affettuosissima, ma senza impegni [Documento XLIX].

La Persia in fatti non era in grado di corrispondere: perocchè aveva in quel tempo mandato un esercito nel regno di Conducar, cogliendo occasione e dalle discordie che dopo la morte del Gran Mogol erano insorte fra i di lui figli, e dalla guerra tra la Porta e Venezia, per ricuperare quel regno al kan dei Tartari Olbek, che dal Gran Mogol ne era stato spogliato.

Ritornato a Venezia, il padre Antonio si presentò in senato a' 28 di marzo 1649, e lesse una interessantissima e finora inedita relazione della sua ambasciata, distinta in tre parti, cioè:

1º Il suo viaggio in Persia, la miglior via per andarvi, e le accoglienze e gli onori ricevuti quale ambasciatore cristiano;

2º Quello che ha trattato col re di Persia;

3º Quello che si poteva sperare dallo shàh in aiuto della repubblica; conchiudendo che terminata la guerra nel Conducar, potevasi ritenere che il giovine e valoroso re persiano avrebbe rivolto le sue armi contro i Turchi [Documento L].

Il padre Antonio presentava inoltre una scrittura in data di Shangai 24 aprile 1648 dell'altro legato in Persia Domenico Santi [Documento LI].

La relazione del Santi che pure trovasi inedita è stillata in lingua italiana frammista di alcuni termini castigliani, locchè farebbe credere che, quantunque egli si annunciasse suddito della repubblica, fosse o nativo di Spagna o avesse ivi gran tempo dimorato. Narra il Santi l'esito della sua missione nella Persia, conforme a quello del padre Antonio di Fiandra, e si estende nei più minuti particolari intorno al disastroso suo viaggio, alle grandi spese che dovette sostenere, ed alla quantità dei doni che fu obbligato di presentare al re ed ai ministri per ottenere benevolo ascolto.

Senonchè peggiorando le condizioni dei Veneti nell'isola di Candia, la repubblica che aveva, si può dire, quasi invano chiesti sussidii ai principi della cristianità, tentò di nuovo dopo il 1660 di ricorrere alla Persia, dapprima con lettere dirette a quel re [Documento LII], quindi accogliendo la offerta segreta dell'arcivescovo armeno Aranchies che proponeva di trattare la lega coi Persiani [Documenti LIII e LIV], e finalmente inviando alla corte dello shàh l'arcivescovo di Nashirvan. Ma pur troppo, mentre duravano queste pratiche, il regno di Candia andò perduto.

La repubblica di Venezia dovea anche in questa terza invasione ottomana resistere sola, e sacrificare generosamente il sangue dei suoi figli ed i propri tesori per difendere l'antemurale della civiltà. Dopo una gloriosa lotta di 25 anni, che rese immortale la fama del valore e della costanza dei Veneziani, il regno di Candia fu occupato dalle truppe ottomane, la croce lasciò il posto alla mezza luna.

Conchiusa appena la pace colla Turchia, arrivò in Venezia una importante missione dalla Persia. La componevano due padri domenicani: Maria di S. Giovanni ed Antonio di S. Nazaro, incaricati dall'arcivescovo di Nashirvan di presentare al senato la relazione dei suoi negoziati colla Persia, e la risposta dello shàh agli inviti della repubblica [Documento LV]. Gli atti di questa missione, l'ultima che dalla Persia venisse a Venezia, chiaramente dimostrano le relazioni internazionali dei due stati, così rispetto alle comuni aspirazioni, come agli interessi del traffico ed alla tutela dei cristiani nell'Asia.

Il 20 luglio 1673 i padri domenicani presentarono nel collegio la lettera dell'arcivescovo di Nashirvan [Documento LVI] e quella del re di Persia, esprimendo in idioma turco lo incarico avuto dallo shàh di augurare al serenissimo principe le maggiori prosperità, e di attestare la di lui stima ed osservanza alla repubblica[104].

La lettera dell'arcivescovo esponeva: come dopo di aver corsi molti pericoli particolarmente in Erzerum dove fu accusato per spia, egli giunse in Ispahan, presentò le lettere ducali allo shàh che le accolse affettuosamente, ed a cui narrò colla maggior efficaccia possibile le condizioni della guerra di Candia. Il re della Persia ascoltò attentamente ogni cosa, di tutto chiese le più minute notizie e promise di dare pronta soddisfazione alle proposte della repubblica. Ma la nuova sopraggiunta della resa di Candia, dal re con sorpresa e dolore sentita, mandò a vuoto le incamminate trattative; ed il desiderio dello shàh di soddisfare alle richieste del veneto senato, dovette limitarsi a franchigie e protezioni accordate ai cristiani nella Persia, le quali sono attestate nella stessa lettera del monarca persiano [Documento LVII], nè poteansi sperare maggiori: perocchè egli avea dato ordine, che per riguardo alla veneta signorìa venissero i cristiani rispettati ed onorati, e godessero privilegi ed immunità in tutte le città e terre della Persia; ed anzi in qualsiasi luogo, dove si trovassero abitazioni dei cristiani, le immunità loro accordate dovessero estendersi a tutti gli altri abitanti di qualsivoglia condizione o setta si fossero. Assicurava inoltre il re della Persia, di essere disposto ad accogliere con prontezza e di dare immediata esecuzione a ciò che alla veneta signorìa sembrasse opportuno di proporgli, rispetto alle novità che potessero insorgere nei suoi rapporti coll'impero ottomano.

Il dragomanno Fortis presentava quindi al senato una relazione di un colloquio secreto tenuto per ordine dei savii coi padri domenicani, i quali dissero che da lungo tempo il re persiano nutriva sentimento di vendetta contro gli Ottomani; e che se i capitoli della tregua di Babilonia e la guerra nel Conducar l'avevano finora obbligato a simulare l'odio implacabile contro i Turchi, il giovane e valoroso monarca desiderava prossima occasione di battersi contro di loro, d'accordo colla signorìa di Venezia, il granduca di Moscovia ed il re di Polonia, persuaso che tali alleanze avrebbero bastato per finirla una volta coll'impero turchesco [Documento LVIII]. Il Fortis aggiungeva nella sua relazione particolari notizie intorno alla condizione dell'esercito persiano, ed alcuni suggerimenti opportuni a mantenere per diversi scali il commercio colla Persia, durante la guerra, insieme ad una descrizione delle vie che da Venezia conducevano in Ispahan.

La repubblica fu assai lieta di questa legazione, ringraziò il re della Persia per la protezione ed i beneficii che accordava ai cristiani nei suoi regni, promise reciprocanza [Documento LIX], regalò splendidamente i padri dominicani, il contegno, le pratiche e le proposizioni dell'arcivescovo di Nashirvan altamente commendò[105].

Questa fu l'ultima occasione, che per circostanze fatali la repubblica di Venezia ha perduta; avvegnachè rinnovatasi la lotta colla Turchia nel 1695, essa invano tentò di associare ai suoi minacciati destini la Persia [Documento LX], ed allorquando nel 1714 il divano non potendosi adattare alla perdita della Morea, le intimava di nuovo la guerra siccome violatrice degli accordi di Carlovitz, essa non più ricorse alla Persia che stava impegnata in lotte civili, e soscrisse la pace di Passarovitz, che pose fine alle sue speranze in oriente.

Però anche durante il secolo decimo ottavo le relazioni internazionali veneto-persiane si mantennero nello stesso costante carattere di ottima amicizia e corrispondenza.

Quando la repubblica si avvide di non poter più recare ad effetto l'idea di dividere l'impero ottomano col concorso della Persia, non cessò di coltivare i buoni rapporti con quel governo, nella mira di proteggere gli interessi della cristianità in Asia.

I pochi documenti che si hanno attestano come nel 1669 [Documento LXI], in seguito a spedizione nella Persia di Antonio Doni, quello shàh dimostrasse alla repubblica la più favorevole disposizione ad incontrare i suoi desiderii; e come efficacemente proteggesse ora il vicario generale padre Fassi raccomandatogli dai Veneziani per istanza del granduca di Toscana [Documento LXII], ora il padre Arachieli che pei cattolici volle edificare una chiesa in Erivan [Documenti LXIII e LXIV].

Morto Suleiman nel 1692 e succedutogli Husein, la repubblica mandò al nuovo re, colle lettere di congratulazione, le più vive raccomandazioni in favore dei cristiani che abitavano nella Persia; le quali furono riscontrate con termini di adesione e di ringraziamento, e con espressioni di augurio pel mantenimento della stretta colleganza fra i due Stati.


Questa lettera, di cui diamo nei documenti la traduzione [Documento LXV], e qui il fac-simile, porta in luogo della sottoscrizione, non conosciuta dai maomettani, il grande sigillo reale detto Homajon, nella forma elegante che usavasi pei trattati, lettere patenti o missive all'estero, e il cui disegno, quale la fotografia potè riprodurlo, ponemmo in fronte al presente volume[106]. Esso contiene nel centro fra un bellissimo intreccio di fiori e di foglie la cifra reale Sultan Husein ben Suleiman 1106, cioè il sultano Husein figlio di Solimano, anno 1694. All'intorno nelle dodici nicchie dovrebbonsi leggere i nomi dei dodici Imam, e al disopra la solita formula od invocazione religiosa dei Persiani.

Nell'anno 1697 a' 13 di marzo si presentò in collegio il padre Pietro Paolo Palma arcivescovo d'Ancira con breve di Innocenzo XII al re di Persia[107] pregando la repubblica di mediazione in favore del vescovo d'Ispahan e di quei missionarii che erano stati esiliati dal suo regno. Ed il senato nella prossima tornata del 15 marzo deliberava di rivolgersi allo shàh, al patriarca armeno ed al gran Mogol [Documento LXVI].

Finalmente essendo accaduta nel 1718 la spogliazione della chiesa dei Cappuccini a Tiflis, il veneto senato scriveva il 23 di dicembre [Documento LXVII] al re della Persia pregandolo « di porgere sollievo agli oppressi, di far cessare gli insulti e le animosità, di restituire la religione cattolica alla pristina quiete ».

Le relazioni internazionali della repubblica di Venezia colla Persia, furono pertanto in tutti i secoli improntate della più schietta amicizia, e mantenute costanti da eguali tendenze politiche e da sentimenti di civiltà e di religione.

Oltre a ciò un altro importante rispetto, pur degno di somma considerazione, stringeva Venezia alla Persia: quello del commercio, del quale trattasi nella seguente Parte seconda.

La Repubblica di Venezia e la Persia

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