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AL LETTORE.

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— Che cosa avete voluto provare?

— Mi piacerebbe rispondervi citando i notissimi versi di Dante: «Io mi son un che quando amore spira, noto ec.» Ma siccome di questa citazione si è già troppo abusato, la lascio stare. Voglio dire che dapprima nasce in me un sentimento vago e ancora incerto, che poi esso viene pigliando un po' più di precisione e mi commuove colla potenza d'un affetto; che acquista via via più forza, sale al cervello e vi prende essere definito e si afferma in un'idea; allora accorrono intorno a questa molte immagini di cose, di luoghi, di persone, un po' di luce e molte penombre, qualche uggiosa nebbia più fitta, che minaccia riavvolger tutto e ricacciare ogni cosa nel caos, o per meglio dire nel nulla. Così man mano la fantasia viene preparando scena ed attori d'un dramma ideale che si forma e si rappresenta nella mente; lo spirito vede quei fantasmi e vive, pensa, sente, agisce con essi più di quello che li faccia agire; la ragione tenta una critica della esistenza e dei fatti loro per ridurre a una verità più reale complesso e particolari; e la penna da ultimo si prova a tradurre in parole di scritto quelle vagheggiate creazioni, le quali, ahimè pur troppo, nei freddi periodi della mia prosa riescono tanto lontane dalla splendidezza del sogno in cui mi apparvero.

— Capisco; va benissimo: ma codeste creazioni debbono pur voler dire qualche cosa.

— L'uomo, per quanto faccia, cerchi e s'ingegni, avrà sempre per suo studio più interessante, più vasto, più utile e di maggior dovere lo studio di sè medesimo. Il suo corpo e il suo spirito, i suoi sensi e la sua anima, le sue passioni e il suo pensiero, sembrano un campo ristretto, e sono un àmbito immenso che tocca quasi all'infinito. Il romanziere che mette l'uomo in una condizione speciale di cose, d'affetti, di vicende, d'impressioni e d'interessi, poi colla scorta dell'osservazione sul vero, forse anco su sè stesso, ne esprime pensieri, voglie, tentazioni ed atti, scrive di psicologia senza termini pseudo-greci e senza formole astruse; e beato e benedetto lui se riesce a far amare una virtù, a far ammirare un sacrificio, a far rispettato un dovere della vita, senza seccare il prossimo!

— È dunque codesto che avete voluto ottenere?

— Questi Racconti furono scritti in varie epoche, ma però l'inspirazione, come quella di quasi tutti i miei poveri lavori, mi pare la medesima. Io non farò come quel pittore che sotto al suo dipinto scrisse coscienziosamente: «Questo è san Rocco e questo è il cane;» ancorchè voi siate per dirmi che l'opera mia abbisogna di tale ingenuità di dichiarazione. Se il pensiero che ho creduto metterci è abbastanza bene espresso da comparire, se è tale che meriti d'esser notato, spetterà al lettore lo scorgerlo e lo sceverarlo; se non ha tanto pregio da ciò, non servirà a nulla ogni mia chiacchierata in proposito.

— In conclusione, voi non volete dirmi che cosa avete voluto provare.

— Non ho voluto provare nulla, nulla, nulla. Tentai dilettar alcun poco i lettori; se non ho ottenuto che di seccarli, prego da loro un generoso compatimento, e si persuadano che neanch'io, «non l'ho fatto apposta;» se poi in alcun grado sono riuscito nel mio intento, domando loro per compenso che mi vogliano un po' di bene.

Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea

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