Читать книгу Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - Bersezio Vittorio - Страница 5

I.

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Era un brutto cane davvero; d'una razza così mista che i più abili genealogisti ci avrebbero perduta la bussola a volerne rintracciare l'origine in mezzo alla licenza disordinata degl'incrociamenti. Troppo basso delle gambe anteriori, troppo alto di quelle posteriori, con un naso appuntato, su cui pochi peli irti, con un pelame sempre sporco, scarno da far compassione, e un ugiolare così fastidioso che metteva ribrezzo e paura. Ma nella parte superiore di quel muso inqualificabile, sotto due ciuffi di peli di colore indefinibile, la povera bestia aveva due occhi, che, quando fissavano i vostri, vi facevano stranamente pensare. Avevano, quegli occhi straordinari, un'espressione d'intelligenza, di mestizia, di rassegnazione: vi parevano rivelare — sissignori, anche in un povero e brutto cane, — una vita tutta di dolori. Non so se abbiate osservato mai che gli occhi di questo animale, adoratore dell'uomo, ridono talvolta, mentre la coda si dimena festosamente. Ebbene, gli occhi di questo disgraziato di cui vi parlo, non ridevano mai, come non si dimenava mai con allegro moto quel mozzicone corroso che gli faceva da coda.

Atanasio, il cieco pezzente che era suo padrone, sedeva spesso sullo scalino della porticina della chiesa, di fianco, dalla parte in cui nel pomeriggio c'era l'ombra, in faccia ai due olmi vecchi che, susurrando colle loro frondi sopra la fontana che sta loro in mezzo, accompagnano pianamente il susurrio dello zampillo. Colà, deposto al suo lato il lungo bastone con cui picchiava per terra, camminando, egli poneva i gomiti che uscivan fuori dalle maniche sbranate, sugli stracci che facevano da pantaloni alle ginocchia, stringeva in mezzo a due manaccie grosse, ossee, ruvide, nere, villose, una barbaccia mezzo bianca, disordinata, irta, ed appuntato il suo naso lungo e acuto, fissava innanzi a sè in grave attenzione lo sguardo di due occhi dalle pupille bianche che non vedevano e che facevano pena a vederli.

Azor — il cieco chiamava quel mostricino a quattro gambe con questo classico nome canino — Azor si sedeva gravemente su quel mozzicone di coda, e tenendo serrata fra i denti serio serio una ciotola logora di legno, guardava del pari. Fra il padrone ed il cane anche un osservatore superficiale poteva accorgersi d'una bizzarra rassomiglianza. Avreste detto che il modo con cui si atteggiava il cane imitava quello dell'uomo; e che il naso di quest'ultimo s'appuntava in là per far la copia al muso del cane.

Stavano così delle lunghe, lunghe ore, aspettando che in quella ciotola venisse a cadere un soldo; avvenimento che capitava di rado. Qualche volta parlavano insieme: dico parlavano, perchè l'uomo faceva al cane una filza di discorsi, ricchi di molta filosofia pratica, e la bestia rispondeva con dei suoni sommessi, fra quelle sue mascelle scarne, che parevano grugniti. Una volta al giorno, il cieco scioglieva il nodo che attaccava al collare del cane la cordicella che, per l'altro capo, egli teneva sempre in mano, e diceva col tono di chi fa una generosa larghezza ad un subordinato:

— Orsù, vanne Azor, sei in libertà: ma bada veh! non più d'una mezz'ora! —

Il cane cominciava per baciare la mano del padrone, affine di ringraziarlo, poi si stirava ben bene, allargava le mascelle in una coppia di sbadigli che avevano il suono di gemiti, si dava due altre scosse che gli facevano ballare sulle ossa la pelle vuota di muscoli, guardava di qua e di là con aria peritosa e timida, pareva stentare a decidersi, e finalmente s'avviava lento da una parte, rasentando il muro, la testa bassa, le orecchie pendenti, mogio mogio, come se tornasse dall'aver preso una bastonatura.

Gli è che in quel momento appunto la povera bestia andava incontro a sicuri pericoli, che lo aspettavano per opera di implacabili e instancabili suoi persecutori. Erano i bambini del villaggio. Se l'uomo sia dalla natura fatto di fondo buono o cattivo, è un pezzo che si disputa, e si disputerà ancora chi sa per quanto tempo. Il fatto è che i bambini, queste piccole perfezioni dell'egoismo, che non vedono al mondo cosa più valevole della propria personcina e dei propri capricci, hanno istinti ed abitudini sì crudeli da far molte volte arricciare il naso ai sostenitori della bontà fondamentale della nostra razza.

Il povero Azor non aveva mai fatto nulla di male a quella schiera di sbarazzini sbracati ed anco scamiciati, che brulicava nei rigagnoli fangosi delle strade di quel villaggio. Era brutto, sporco, sfiancato, povero di peli e ricco di fame: ma con tutto ciò qual diritto ledeva egli d'altrui? Era codesta una ragione sufficiente per farlo bersaglio di tutte le malignità, di tutte le crudeli voglie di quella marmaglia scapestrata?

Il vero è che appena lo vedevano comparire solo, quando era in funzione di guida del povero cieco, camminandogli con passo grave dinanzi, non osavano molestarlo: si avventuravano soltanto a fargli da lontano atti oltraggiosi di disprezzo a cui egli non accordava che la più filosofica noncuranza: una volta alcuno più temerario aveva osato tirargli un torsolo di cavolo, ma il cieco s'era volto da quella parte con isguardi così terribili delle sue pupille scolorate, aveva gridato con voce così forte come nessuno non gli aveva mai sentita, delle parolaccie così profane, aveva battuto per terra così furiosamente il suo lungo bastone, che la turba dei monelli era scappata impaurita, come uno stuolo di passeri che beccano il grano nel campo scappa all'arrivo dell'agricoltore: — quando adunque lo vedevano comparir solo, il povero Azor, ecco subito tutti i furfantelli sbucare dai cortili, dagli anditi, dalle siepi degli orti, e giù contro quel meschinello di cane, grida e urli, e trargli fango e terriccio e cocci e sassi, per vederlo correre disperato con quella pelle rugosa collata sulle costole.

Azor avrebbe volentieri risparmiato a sè il dolore degl'improperii e delle percosse, ai ragazzi il piacere di far opera prepotente e tirannica. Ma quello era l'unico mezzo ch'egli avesse per provvedere a sè stesso; gli era allora che l'affamato negli immondezzai delle strade andava in busca dei suoi pasti, che se fossero luculliani lascio pensare a voi.

Prima ancora che il tempo della licenza fosse trascorso, Azor tornava a consegnarsi al padrone, annunziando la sua presenza collo sfregarsegli contro le gambe: il cieco gli passava una mano sul capo, gli riattaccava la cordicella, gli rimetteva in bocca la ciotola di legno, e riprendevano tutt'e due nella loro ordinaria postura a meditare.

Giunta la sera, Atanasio drizzava la sua lunga persona: — era alto come un antico tamburo maggiore di reggimento, aveva spalle quadre da facchino di porto di mare, ma pure andava un po' curvo della persona e teneva sempre il capo chinato sul petto: — impugnava colla sua destra nodosa il bastone nodoso del pari; teneva colla sinistra la cordicella del cane, e picchiando per terra colla ghiera di ferro in cui terminava il bastone, s'avviava preceduto da Azor di due passi... Dove? Non lo sapeva neppur egli: sotto il capannuccio d'un pagliaio in qualche fattoria, sullo strame di qualche stalla, sotto il portone di qualche casa fuor di mano, al semplice riparo delle frondi d'un albero ne' giorni sereni della bella stagione.

Chi era quell'uomo? Nessuno lo sapeva. Egli e il suo cane avevano un passato affatto sconosciuto al villaggio. Erano capitati colà da quattro o cinque anni, e ci avevano preso quel modo di vivere che ho detto, senza variazioni, con tanta uniformità, che gli abitanti ci si erano presto abituati e pareva loro chi sa da quanto tempo che li avessero nella loro terra.

Da principio c'era stata pure una viva curiosità di saperne qualche cosa. Avevano appreso che l'uomo si chiamava Atanasio e il cane Azor. Dalle carte che il primo di questi due aveva in perfetta regola, le autorità municipali e il brigadiere dei Reali Carabinieri avevano imparato che egli era un antico operaio fonditore di metalli, nativo di un paese lontano lontano, che aveva perduta la vista in un terribile incendio avvenuto nella grande officina, che in sì funesta occasione egli aveva dimostrato un eroico valore, salvando dal fuoco delle vittime, e che da allora in poi erano passati dieci anni.

Quel mendico, ora che lo presento ai lettori, non aveva più di nove lustri: ma a vederlo glie ne avreste dati più di dodici. Incapace d'ogni lavoro, s'era dato alla mendicità, fuggendo con sacro orrore dai ricoveri e dalle case di pia ospitalità, come dalle bòtte fuggiva il povero Azor. Di questo, poi, non si aveva il menomo documento che ne dicesse le condizioni civili, economiche, morali ed il passato.

Il Sindaco era stato in forse per un po' di tempo, s'egli, da provvido e zelante amministratore, non dovesse, facendo uso della sua autorità, espellere dal suo Comune quel pezzente, a tiro sempre della legge di pubblica sicurezza, privo affatto di mezzi di sussistenza, e darlo in nota al Sotto-Prefetto, perchè lo denunziasse al Prefetto, il quale lo facesse tradurre, (stile burocratico), alla provincia, di cui era nativo. Ma quella provincia era tanto lontana! Ma quel pover uomo manifestava per ogni luogo rinchiuso tanta ripugnanza da preferire la morte. Ma in quel Comune non c'eran punti mendicanti, e uno per eccezione, non avrebbe fatto nè disdoro nè danno. Ma gli abitanti si erano contentati della presenza di quel gran cieco, e avevano preso l'abitudine di dargli pochi soldi e qualche scodella di minestra. Ma il cane era divenuto un sollazzo pei bambini dei suoi amministrati. Ma sotto la giubba, su cui cingeva solennemente la sua fascia sindacale, quel brav'uomo di capo del Comune aveva tanto di buon cuore. Tutti questi ma fecero che il cieco fu lasciato stare in santa pace.

La curiosità aveva per un poco aspettato il misterioso mendicante al varco d'una ubbriacatura. Pareva impossibile, chi lo vedesse, che quell'omaccione non fosse un dilettante d'osteria e un intelligente, ghiotto consumatore di alcoolici; eppure quell'impossibile era la realtà. Atanasio non metteva mai piede nè da compar l'oste ne dall'amico zozzaio, e pareva anzi fuggire con vera ripulsione di dove sentisse odore di liquori. Quando gli si faceva invito a bere un bicchierino d'acquavite o di un mezzo litro di vino, egli batteva più forte per terra la ghiera di ferro del suo lungo bastone, allargava ancora di più il compasso delle sue gambaccie, sollecitava colla voce collerica Azor, e s'allontanava di fretta. Visto codesto, la curiosità rinunciò scoraggiata ad ogni ulteriore tentativo; d'altronde la storia di simil pezzente non pareva dover essere di tal natura da ispirare sforzi straordinari per apprenderla. Si rassegnarono tutti a non saper altrimenti chi fosse quel povero cieco, cui tutti conoscevano e trattavano famigliarmente.

Chi avrebbe potuto narrarne tutta o quasi tutta la storia, era Azor: ma egli, da bravo cane fedele, taceva incorruttibilmente; e imparino da tali confidenti quelli che hanno segreti da custodire.

Eppure quella storia, benchè d'un semplice operaio, era interessantissima; ed io, che l'ho risaputa dal parroco, al quale il cieco finì per confidarla morendo, ve la voglio raccontare brevemente e semplicemente.

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