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CAPITOLO VI

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Battevano appena le nove quando il padre gesuita presentavasi al palazzo Baldissero e veniva tosto introdotto presso il marchese, il quale, dopo una notte insonne, stava ansiosamente aspettandolo. Invitato a parlare sollecitamente, fra' Bonaventura incominciò, con aria compunta e mani al petto intrecciate, un lungo esordio sulle vie imperscrutabili della Provvidenza, cui il marchese finì per interrompere:

– Scusi… Il fatto, a cui Ella fece allusione nella sua lettera di ier sera, è desso la trista avventura della fu mia povera sorella?

– Eccellenza sì: rispose il frate inchinandosi.

– Le confesso che molto mi punge la sollecitudine di sapere qual cosa mai, dopo tanto tempo, possa avvenire che abbia ancora attinenza a quelle disgraziate vicende. La prego dirmi senza ambagi, senza indugi e senza circonlocuzioni ciò di che si tratta.

Il gesuita fece col capo un segno di umile assentimento, ed abbassando la voce ed accostando vieppiù la sua seggiola alla poltrona in cui stava il marchese, come se avesse voluto che manco l'aria potesse cogliere le parole che stava per pronunziare, disse:

– Il figliuolo, frutto di quel condannato matrimonio, fu creduto dalla marchesina Aurora, e da Lei medesima, signor marchese, morisse pochi giorni dopo la sua nascita.

Baldissero si riscosse in violento, ma tosto frenato sussulto; il suo sguardo s'affondò negli occhi del gesuita che teneva la placida faccia tonda a pochi centimetri dalle orecchie del marchese.

– Così affermarono, e con giuramento, diss'egli pesando sulle parole, coloro che assistettero in quella circostanza mia sorella: Nariccia, la cameriera Modestina… e Lei stessa, Padre Bonaventura.

Questi fece comparire sulle sue labbra rubiconde un sorriso tutto amenità, levò la destra bianca e grassotta in un atto di mite protesta e scotendo negativamente il capo, soggiunse con una cortese vivacità d'accento:

– Perdoni, perdoni… Io no!.. Io non contraddissi le parole degli altri… Ecco tutto!

– Le confermò col suo silenzio.

– La permetta… Il silenzio non conferma nulla.

Il marchese, con moto vivace, rivolse la poltrona e se stesso verso il suo interlocutore così da rimanere con lui proprio faccia a faccia.

– Quel bambino non morì dunque allora, in fascie?

Bonaventura scosse gravemente la testa.

– No, signor marchese.

– E perchè fu detto morisse?

– Perchè tale fu la volontà, tale il comando di S. E. il marchese, padre di V. E.

Baldissero si trasse indietro nella sua poltrona, impallidì leggermente, e mandando un'esclamazione, interruppe con tono quasi di minacciosa ammonizione:

– Badi bene!..

Ma il gesuita riprendendo con qualche calore:

– Di tutto quel che dico ho sempre buone prove per dimostrarne la verità. Tengo delle lettere che scrisse a me stesso su tal proposito S. E.; esistono testimonii Nariccia e la Gattona, e quando a Lei non sembrino guarentigia sufficiente di sincerità, il mio carattere, la mia parola…

Il marchese fece bruscamente un atto che voleva significare la sua piena fiducia nelle parole del gesuita.

– E di quel fanciullo adunque, domandò impazientemente, che cosa avvenne?

Padre Bonaventura narrò ciò che noi già sappiamo: Nariccia specialmente incaricato di ciò dal vecchio marchese averlo seco portato un giorno, nè alcun altro di quelli che stavano intorno alla vedova di Maurilio aver saputo mai che cosa ne avesse fatto.

Sulla nobil faccia del marchese si dipinse l'espressione di un acuto dolore, d'una penosa vergogna. Che cosa non avrebb'egli dato, perchè non si fosse potuto accagionar mai di simil fatto suo padre! Pose la fronte sulla palma della sua mano e stette un istante impensierito, poi vivamente impugnò la nappa in cui finiva il cordone del campanello che pendeva presso al luogo dov'egli sedeva e diede una forte tirata: un lacchè si presentò sollecito all'uscio.

– Si corra tosto in casa di Nariccia: comandò egli: e gli si dica di venir qui, subito, senza il menomo indugio.

Il domestico sparì con una premura che era indizio di quella colla quale avrebbe eseguita la commissione.

Baldissero si volse di nuovo al gesuita.

– E come, dissegli con accento di rampogna, potè Ella prender parte a questo crudele inganno?

– Io non vi ho preso parte diretta, rispose colla sua melliflua parlantina padre Bonaventura: mi sono rimasto a non dissentire. Ho considerato d'altronde la specialità delle circostanze che permetteva, che consigliava una specialità di propositi. L'interesse e la pace di una nobile stirpe come la sua, signor marchese, sono cose di tal rilievo che ad ottenerle si può e si deve anco ammettere delle eccezioni a qualche regola generale. Io sapeva d'altronde che la generosità del fu signor marchese non avrebbe mancato di provvedere alla sorte futura di quel bambino, e credo infatti che così abbia egli voluto fare e le circostanze soltanto abbiano impedito che le sue intenzioni avessero effetto…

Il marchese, che ascoltava non senza qualche impazienza i gesuiteschi avvolgimenti di parole del frate, interruppe bruscamente a questo punto, venendo la sua attenzione richiamata all'argomento principale e più interessante.

– Ella dunque sa qualche cosa dell'ulteriore destino di quell'infelice?

– Allora io non ne seppi più nulla, nè di poi cercai mai di saperne, o cosa alcuna venne a mia conoscenza a questo riguardo… Ma ora finalmente…

– Finalmente? interruppe con accento d'ansiosa interrogazione il fratello della povera defunta Aurora: quel fanciullo vive?

Padre Bonaventura fece un cenno affermativo.

– Ella lo conosce?

– Signor sì.

– Dov'è?

Il gesuita si curvò ancora di più verso il marchese, abbassò ancora più la voce e rispose:

– Qui nello stesso suo palazzo.

Il marchese afferrò una delle mani del frate e gliela strinse forte.

– Si spieghi, la prego: disse con voce vibrata, in cui più che una preghiera era un comando.

Padre Bonaventura narrò quanto aveva appreso dalla Gattona, la circostanza de' contrassegni, l'intromissione di Don Venanzio e va dicendo quello che noi sappiamo già.

Il marchese ascoltò tutto ciò con un'agitazione ed un turbamento cui non cercò in modo nessuno di dissimulare: quando il frate ebbe finito, rimase un istante immobile, il capo chino, come senza volontà e senza consiglio. Ancor egli vedeva in questo succedersi e combinarsi d'avvenimenti la mano della Provvidenza, che voleva riparato un tale delitto, e si veniva chiedendo che cosa gli toccasse di fare in presenza di cotali circostanze. Il gesuita che indovinava ciò che si passava nell'animo di lui, disse col suo accento e co' suoi modi insinuanti:

– Sì, qui è innegabile il Dito di Dio che ha voluto trarle innanzi a Lei quel disgraziato giovane, perchè Ella lo salvasse.

– Qui!.. qui stesso!.. esclamò allora il marchese rompendo il silenzio. Come un estraneo, come un poveretto sono io stesso che l'ho introdotto nella casa di sua madre! Oh poichè Iddio lo volle fare in questo modo rientrare sotto questo tetto, gli è perchè ci rimanesse come a suo posto…

Era la naturale generosità del marchese che si manifestava nel suo primo impulso; ma l'interruppe l'accortezza delle convenienze che parlò colla voce melliflua del gesuita.

– Guardiamoci di non interpretare malamente i disegni di Quel di lassù. Certo a riguardo di questo giovane qualche cosa ha da farsi, ma che sia questo qualche cosa, converrà deciderlo con matura e ponderata riflessione.

– Gli furon tolti famiglia e nome: disse con vivacità il marchese: bisogna rendergli e il nome e la famiglia.

– Sta bene; ma prima bisogna chiarirsi di quale condizione egli sia degno. V. E. sa meglio di me che se alcuno vien messo in posto a cui non sia acconcio, ad altro non riesce che a far male per sè e per altrui. Ella di certo ha qualche obbligo verso quel giovane, quantunque cotali obblighi non sia un fatto suo ad averglieli dati: ma doveri ben maggiori e più importanti V. E. ha eziandio verso la dignità della sua famiglia, verso la causa del bene, verso la patria, verso la società. Ora l'alto suo senno deve accordare così l'adempimento di questi doveri, che soddisfacendo agli uni non riesca a ledere gli altri. Badi bene, signor marchese, che volendo restituire alla sua famiglia un rampollo il quale in realtà non le appartiene che per indiretto legame, Ella non faccia poi capo ad altro che a dare al suo lignaggio il disdoro d'un nemico dell'ordine, della religione e della monarchia, ed a porre questo nemico in condizioni appunto da poter di meglio nuocere a quelle sacrosante cose cui osteggia.

– Che sa Ella del come questo giovane pensa e ragiona? domandò il marchese non senza qualche meraviglia.

– Ho creduto dovermi informare appuntino dell'essere morale e intellettivo di quell'individuo, prima di fare il menomo passo presso V. E. a questo proposito. Ho sentito che tale era il dovere di me che avevo avuta la parte ch'Ella sa in quei funesti avvenimenti, dovere accresciutomi ancora dal mio lungo ossequio devotissimo alla sua illustre famiglia, dal mio stesso sacro carattere di sacerdote. Ho dunque voluto appurare da me stesso chi e che cosa fosse quel giovane; trovai modo d'averlo a me, lo scrutai con attento esame e ne conchiusi che in esso vi era un demagogo incorreggibile, un invasato senza più rimedio dall'iniquissimo spirito rivoluzionario che è lo spirito del male.

– Ha tanto talento! esclamò quasi involontariamente il marchese.

– Sì; soggiunse con calore Padre Bonaventura, ed è perciò tanto più pericoloso. A questa capacità volta al male, vorrebbe Ella dare i mezzi di far più male?

– Tornato nelle condizioni normali della sua vera esistenza; riparata la grande ingiustizia che fu commessa a suo riguardo, si calmerà l'irritazione dell'anima sua e quella mente acuta potrà scorgere il vero.

– Non lo speri: interruppe con maggior vivacità il gesuita. Se la mia esperienza m'abbia posto in grado di conoscere gli uomini, e se grazie al Signore io possedo una certa abilità nel penetrare a prima veduta entro l'animo di chi mi parla, e leggerne l'indole sulle sembianze e sui cambiamenti della fisionomia, Ella lo sa.

Il marchese fece un sorriso ed un cenno del capo ad accennare che era affatto conscio di tale prerogativa del frate.

– Ebbene, questi continuava, io ho parlato per un'ora con quel cotale, più che non mi occorra a scoprire l'intimo pensiero, anche di chi voglia celarmelo – e le assicuro che quel giovane non vuole per nulla nè sarebbe capace ad infingersi – e l'ho definitivamente giudicato. È una di quelle nature ferme e tenaci che s'abbrancano ad un'idea come l'ostrica allo scoglio, che vivono di essa, che non vogliono e non possono separarsene, e piuttosto morrebbero. Di quel legno si fanno i fanatici d'ogni razza ed i martiri. Guidato sulla buona via, sarebbe stato un valente campione per noi. Ora è troppo tardi: l'albero si è già malamente piegato e più non si drizza; piuttosto si rompe.

Il marchese fissò in volto il gesuita con quel suo sguardo nobile e dignitoso e disse lentamente:

– In conclusione, che cosa crede Ella, Padre, che si debba fare?

– Lasciargli ignorare quello che ignorò fin adesso… e ch'egli, se noi vogliamo, non avrà nessun mezzo di scoprir mai, fargli offrire un'acconcia somma che gli costituisca una discreta ricchezza perchè si allontani e corra in quelle terre laggiù oltre l'Atlantico, dove pare si siano dato ritrovo tutte le pazzie umane, e dove gli è proprio anche per lui il suo posto.

La coscienza del marchese si ribellò di botto a quest'iniqua proposta.

– Come! esclamò egli. Io lo defrauderei un'altra volta del suo diritto, dell'esser suo? Egli è figliuolo legittimo d'un legittimo matrimonio: questa è la sacrosanta verità che si ha l'obbligo di riconoscere.

Padre Bonaventura, colla mossa che gli era solita, levò in alto la sua mano bianca come quella d'una signora.

– Conviene distinguere: disse colla maggiore unzione del suo accento dolcereccio. Se si trattasse di caso vergine, non ancora pregiudicato in nissun modo, V. E. avrebbe forse compiuta ragione. Io non voglio con ciò muovere il menomo rimprovero alla venerata memoria di suo padre, l'illustre signor marchese; egli a prendere la determinazione che fu la sua ebbe valevoli e imperiosi motivi che debbono tenerci ben ben lontani dal condannarlo…

Baldissero fece vivamente un atto, con cui voleva significare ch'egli si guardava dal condannare suo padre.

– Ma però ammetto, continuava il gesuita, che Ella, trovandosi in quelle medesime circostanze potesse, e credesse anzi suo dovere, adottare altra risoluzione. Ora noi siamo dinanzi ad una condizione di cose affatto diversa. L'ingiustizia – chiamiamola pure con questo nome severo – fu commessa: sono venticinque anni oramai che la è cosa compiuta, e quell'individuo si è adattato alle condizioni in cui fu posto, venne su colla natura informata a quell'ambiente, coll'essere costituito di quegli elementi. Ho già avuto l'onore di dirle qual egli sia pur troppo; e le ripeto che torlo ad un tratto a quelle sue condizioni per trabalzarlo in altre a cui non è acconcio per nulla, riesce evidentemente un far male a lui, un creare un pericolo alla società. Che gli si migliori la sorte: questo sì, a ciò credo egli abbia qualche diritto, ma pretendere di più non lo può neppure quel giovane il quale, in fin dei conti, non ha nessun mezzo sicuro e legale di venire alla scoperta mai de' suoi parenti, cui basta il silenzio della Gattona, la quale non ha ancora parlato, e di Nariccia che non parlerà se non si vuole, per lasciar sempre nelle più dense tenebre intorno alla sua origine, il quale ci viene innanzi con indizi fortissimi di essere quello che pensammo finora perduto per sempre, ma non ce ne porge però delle prove sicure ed irrefragabili. Chi o qual cosa ne può togliere il dubbio che quegli oggetti, per un caso qualunque, e mille ce ne possono essere stati, non sieno caduti in potere d'un altro? Come rimaner proprio certi che il bambino trovato in mezzo di una strada a Torino sia proprio quello nato in una villa presso Milano? E non deve metterci in sospetto la differenza delle epoche fra la nascita e il rinvenimento, che sarebbe accaduto un anno dopo? Sono tutte questioni, pare a me, che ci debbono fare riguardosi e di molto. Come vorrebbe Ella risuscitare tutto quel tristo passato, richiamare l'attenzione del mondo sopra un sì doloroso episodio della sua famiglia ora compiutamente posto in oblìo per chiamare a condizione di cui non è degno un cotale cui nulla mai potrà provare sia davvero l'individuo supposto?

Il marchese stette alquanto pensoso, evidentemente impressionato da queste parole.

– Prima di decidere se questi dubbi ch'Ella accenna con giusto criterio sieno risolubili o no, converrà parlare con messer Nariccia. Egli ci potrà chiarire di molte cose, e forse dalle sue rivelazioni sorgerà alla nostra mente l'evidenza… Ma, appunto; nessuno ancora ritorna a darmi conto della imbasciata fatta a Nariccia.

Tese la mano per afferrare il cordone del campanello, ma in quel punto medesimo l'uscio s'aprì vivamente e il cameriere del marchese, così concitato che aveva perfino trascurato di chieder licenza d'entrare, si precipitò nella camera con aspetto turbatissimo e quasi sgomento.

– Volevo suonare, appunto per voi: disse il marchese prima che il servo aprisse bocca. Si fu da Nariccia?

– Sì… sì signore: rispose l'altro con voce che tremava. Ci fui io stesso… Ah! Eccellenza, se sapesse!..

Il marchese notò allora il turbamento del domestico.

– Ebbene?.. Che avvenne?.. Ce l'avete trovato?

– Il povero signor Nariccia questa notte fu barbaramente assassinato.

Baldissero e fra' Bonaventura sorsero di scatto da sedere. – Assassinato! esclamarono essi. Morto?

– No… Pare ch'e' non sia morto del tutto, per ora, ma gli è poco meno. Non ha cognizione, non può più parlare, ed ho udito che i medici lo danno per bello e spacciato… gli assassini gli hanno quasi tagliata la testa. Un rubalizio dei più audaci e dei più barbari che sia stato compito mai… La povera vecchia fante fu sgozzata come un pollastro: quella è morta per davvero… Scassinarono il forziere e portarono via tutto il denaro che c'era, si dice delle somme enormi… E dovevano aver delle chiavi che aprivano dapertutto, perchè non ci fu la menoma effrazione, ned alcuno dei casigliani ebbe ad udire il menomo rumore… La cosa fu scoperta stamattina che andò, secondo il solito, a recar loro il latte la rivendugliola della cantonata, e trovato l'uscio aperto s'introdusse nel quartiere e mirò l'orrendo spettacolo. Ella mise in un momento a rumore tutta la casa e non tardarono ad accorrere la giustizia e la forza pubblica… Adesso colà c'è un mondo di gente… Già si dice che gli assassini sono i soliti di quella famosa cocca che non si sa mai cogliere e che sono il terrore di tutta la città.

Il marchese fece un atto colla mano che il servo prese per un ordine di silenzio e un cenno di congedo: si tacque, e camminando all'indietro come i gamberi si avviò verso l'uscita.

– Si attacchino i miei cavalli… subito: comandò il marchese.

E il domestico dopo un ultimo inchino uscì sollecito.

– È una fatalità che il filo ci si debba spezzare tra mano? Soggiunse il marchese. Nariccia che potrebbe dileguare i dubbi, ci viene ora tolto. Voglio vederlo: Padre, venite anche voi meco.

– Molto volentieri: rispose untuosamente il gesuita, tanto più che se quell'infelice non è ancora morto, può essergli utile il mio santo ministero.

L'audacia e la misteriosità di quell'assassinio così ferocemente compito avevano sdegnato e quasi direi spaventato, non che la popolazione, ma le pubbliche autorità medesime; e tanto la giudiziaria quanto la politica erano disposte a mettere tutto il possibile impegno per rintracciare i colpevoli. Sventuratamente d'indizi non se ne avevano, fuor due: nella destra contratta di Nariccia (il quale da principio era stato creduto cadavere ancor esso) stava stretto uno squarcio di panno, che probabilmente aveva appartenuto agli abiti del suo assassino; sopra un mobile vicino al posto in cui era caduta sgozzata la povera Dorotea, si vedeva l'impronta sanguinosa d'una mano grossa, a dita tozze e robuste, la mano d'un uomo di forme colossali e di forza non comune. Era di certo l'uccisore della vecchia fante, il quale colla mano intrisa del sangue di quell'infelice, erasi appoggiato a quel mobile. Il commissario Tofi, accorso egli stesso in persona ad esaminare le cose, alla prima sguardata di quell'impronta, disse col suo accento secco e burbero:

– Qui c'è entrato quel brigante di Stracciaferro; ecco il suo bollo. Stracciaferro non va senza Graffigna: son essi che han fatto il colpo… Conviene snidarli dal covo in cui queste belve si nascondono, ad ogni costo.

Affine di procedere con ordine ed attenzione all'esame d'ogni menoma cosa nel quartiere abitato da Nariccia, Tofi ordinò si facesse sgombrare il locale da tutti i curiosi, e le guardie intanto, mentre non avrebbero più lasciato entrare alcuno fuor quelli di cui era bisogno, custodissero a vista i vicini e coloro fra gli accorsi che parevano poter fornire all'uopo qualche utile testimonianza. Mentre il Giudice ed il Commissario di Polizia procedevano ad una minutissima investigazione, l'ufficiale sanitario, fatto venire in tutta fretta, verificava che la fante era morta senza più rimedio pel taglio della gola che quasi le aveva separato la testa dal busto, ma che invece il padrone viveva tuttavia, che la ferita di lui non era mortale, che la minaccia alla vita glie ne veniva non dalla pugnalata ricevuta al collo, ma dall'apoplessia che lo aveva assalito e la quale anzi molto probabilmente l'avrebbe già ucciso se lo scolo del sangue per la trafittura del pugnale, facendo funzione d'un abbondante salasso, non avesse d'alcun poco diminuito la forza dell'accesso.

Il medico giudicò che altre cavate di sangue erano ancora necessarie, e l'assassinato fu posto sopra il letto, dove gli si aprì la vena a quel braccio medesimo la cui mano teneva tuttavia stretto il pezzo di panno. Al signor Tofi non era sfuggita la importanza di quel piccolo squarcio di pannilana, e fin dal primo istante aveva cercato impadronirsene; ma le dita contratte dell'assassinato erano strette come una morsa di ferro, talmente che per quanta forza il Commissario ci mettesse, non ne potè venire a capo: ma dopo i due salassi che a breve intervallo, il medico stimò bene si facessero all'assassinato, le irrigidite membra si rammollirono un poco, e fu possibile finalmente lo impadronirsi di quell'importante oggetto, che poteva diventare utilissimo stromento a rintracciare gli scellerati.

Si capiva facilmente che quello era un pezzo di bavero d'un vestito maschile: era di panno fine di color marrone, e circostanza che diede un sussulto di soddisfazione al Commissario, nella parte inferiore aveva trapunte in filo di seta due lettere dell'alfabeto – F.B.

– Ecco un prezioso documento: disse Tofi al giudice, riponendo accuratamente lo squarcio di panno. Lasci in mio potere per qualche poco quest'oggetto, ed io saprò bene trovare fra i sarti di Torino e d'altrove se occorre quell'informazione che ci servirà da buon capo a dipanar la matassa.

Benchè vi fosse ordine di non lasciar entrare nessuno, quando alla casa di Nariccia si presentò il marchese di Baldissero, tutte le porte gli si aprirono; e con esso penetrò eziandio fino al letto dell'usuraio Padre Bonaventura.

Nariccia poteva dirsi trattenuto sulla soglia del buio regno della morte, ma non che vivesse; l'irrigidimento delle membra aveva sminuito alquanto, ma la immobilità la più compiuta le toglieva all'ubbidienza della sua volontà, se pur era che la volontà fosse tornata in quell'essere: la paralisi, una compiuta paralisi di tutto il corpo lo teneva inchiodato sul letto senza voce, senza possibilità nessuna di manifestare se e che cosa sentisse, se e che cosa volesse. La speranza d'udire dalla sua bocca la esposizione dell'atroce caso era delusa, nè il medico lasciava lusinga che ciò potesse in avvenire aver luogo. Di vivo non aveva più che i suoi occhi piccoli e più balusanti di prima, i quali non avevano più espressione di fatta sotto ad una velatura che li appannava e che già pareva l'ombra della morte che li invadesse.

Se quell'anima, racchiusa in un corpo quasi morto del tutto, con nessun altro spiraglio sulla vita che gli occhi, di cui non si poteva manco valere a manifestare le proprie sensazioni e volontà; se quell'anima, dico, era conscia di sè, giudichi il lettore quale dovesse essere il suo supplizio!

Il marchese ed il frate s'accostarono al letto del giacente, mentre gli altri con rispetto se ne scartavano.

– Nariccia, disse Baldissero, a cui parve uno degli occhi dell'assassinato si fissasse sopra di lui; mi riconoscete?

Non un moto, non il menomo cenno, non un batter di ciglio che indicasse l'infermo avesse udito; ma quella pupilla velata, dal fondo dell'occhiaia, continuò a restar fissa sul volto del marchese.

Padre Bonaventura insinuò dolcemente sotto le coltri la sua mano e prese la destra dell'assassinato.

– Ci riconoscete? diss'egli a sua volta, curvandosi verso il giacente, e colla sua voce dolcereccia e l'accento d'ostentata benevolenza.

Nariccia stette immobile, e il suo sguardo non si deviò nemmanco menomamente dalla direzione che aveva prima. La mano che fra' Bonaventura aveva presa non rispondeva in alcun modo alla stretta, ma era dura, ghiacciata come quella d'un cadavere. Il gesuita la abbandonò con un certo ribrezzo e si trasse in là; anche il marchese provò una specie di fastidio per quello sguardo atono, semispento, vitreo che si ostinava a star fiso su di lui: vide che non c'era nulla da fare e s'allontanò di alcuni passi.

– Avete voi qualche sospetto intorno agli assassini; credete voi di poterne scoprire le traccie? domandò egli al Commissario.

– Sono persuaso che già li conosco, almeno i principali: rispose il signor Tofi; quanto al trovarne io traccie, questo pezzo d'abito signorile, che viene a confermarmi nell'idea essere fra loro e dei principali alcuni che vestono panni fini, questo servirà di prova accusatrice irrepugnabile, perchè si troverà senza fallo il sarto che ha cucito e trapunto queste lettere e saprà dirci per cui.

Affondò le due mani nelle grandi tasche del suo soprabito, appoggiò il suo mento quadrato sul duro cravattone e stette innanzi a S. E. nella mossa del soldato senz'armi in presenza del suo superiore.

Il marchese fece un allo di licenza e di saluto che significava non avergli più nulla da domandare, e badasse pure ai fatti suoi, e si mosse per uscire; ma Padre Bonaventura domandava in quella al medico che ancora non era dipartitosi dal fianco del giacente:

– Crede Ella che questo sventurato possa sopravvivere, o che almeno in lui la vita possa durare ancora alcun poco?

Il medico si strinse nelle spalle e rispose:

– Sopravvivere, no certo; sarebbe un vero miracolo, e non ci credo; ma però questo suo stato, e fors'anche con qualche miglioria potrebbe prolungarsi per alcuni giorni, come pure potrebbe avvenire fra pochi minuti eziandio la morte.

Messer Tofi, che non trascurava nulla, che per le cose del suo mestiere aveva una fortunata feracità d'idee, erasi andato a piantare in faccia al ferito, appiè del letto, e ne guardava con tanta intentività la faccia terrea e immota che pareva una maschera di creta, da far credere volesse co' suoi occhi penetrare entro quella testa e leggergli il segreto del delitto di cui era vittima nelle pieghe del cervello. Gli parve che alle parole del medico qualche cosa avvenisse in quell'occhietto appannato che guardava senza espressione dal fondo dell'occhiaia, una lieve modificazione si facesse, una specie di turbamento vi si manifestasse. Tofi s'abbrancò alla sbarra del letto e si curvò verso il giacente con un evidente interesse, guardandolo con più attenzione.

– Se così è, diceva fra' Bonaventura, continuando il suo colloquio col medico, sarebbe forse opportuno dire su questo infelice le orazioni dei moribondi.

– Sì, sì: esclamò vivamente il Commissario di Polizia; glie le dica, Reverendo. La carità le impone di non lasciar partire quest'anima poveretta senza i supremi conforti della religione.

Non era del tutto un trasporto di zelo cattolico che movesse il signor Tofi a parlare così: ma era il desiderio di assicurarsi meglio se quella sembianza d'emozione ch'egli aveva creduto di scorgere nel paralitico era vera, se l'anima racchiusa in quel cadavere aveva tuttavia coscienza di sè e delle cose circostanti e poteva in qualche pur lievissima guisa manifestare esteriormente le sue sensazioni.

Padre Bonaventura cominciò la recitazione di quelle tristi preci: il medico si ritrasse in là come colui del quale non è necessaria la presenza, e si ridusse col giudice nel vano d'una finestra a discorrere sottovoce; il marchese invece non solo si fermò, ma venne riavvicinandosi al giacente, per associarsi ancor egli a quell'atto pietoso: il Commissario stette al suo posto, curvando sopra il letto verso la faccia di Nariccia la sua lunga persona.

Egli non aveva travisto, sotto quell'appannatura onde quei loschi occhietti erano velati, un osservatore, qual era il Commissario, potè scorgere una emozione di spavento, di cordoglio disperato, la quale cercava, penosamente direi quasi, manifestarsi, e non ci riusciva che a stento. Si sarebbe detto che quelle pupille volevano rotare sgomentite e non erano capaci che a girar lentamente, che volevano domandar pietà e nol potevano, che volevano piangere e non trovavan lagrime. Il volto di messer Tofi veniva esprimendo una strana soddisfazione che pareva quasi un sorriso. Appena fu se lasciò finire le preghiere sul labbro del gesuita.

– Egli ci ode, egli ci vede, egli capisce e può farsi intendere: esclamò il Commissario. Dottore, venga un po' qua e presti attenzione. Credo aver trovato il modo di far parlare questo morto.

Il medico ed il giudice s'accostarono vivamente: anche il marchese ed il gesuita s'aggrupparono intorno al letto non senza un po' d'emozione.

Tofi spiegò quello che aveva osservato.

– Ed ora: soggiunse: stieno attenti tutti che riusciremo a metterci in rapporto con quell'anima chiusa in quel corpo intormentito.

Si pose vicino al capezzale di Nariccia, e curvandosi verso di lui, gli disse:

– Per prima cosa rassicuratevi sulla vostra sorte. Il vostro male è grave, ma non è disperato; se anzi vi mettete con buon coraggio nel vostro interno a volere riagire contro questo intorpidimento che vi allaccia, riuscirete a superarlo più presto. Potrete guarire ed avrete ancora lunghi anni da vivere.

Gli astanti intorno al letto, dominati da un pungente interesse, tenevano gli sguardi fissi su quella faccia di morto con occhi semivivi: non un moto, non un cenno, nulla che potesse fare arguire il giacente avesse udito.

Tofi continuava:

– E più presto vincerete questo vostro torpore, più presto potrete darci i ragguagli perchè noi possiamo cogliere gli scellerati. Sarete vendicato (si curvò ancora più sul capo di lui) e potrete riavere tutto ciò che vi fu tolto.

Un fugace bagliore, come un piccolo guizzo, spento poi tosto, animò l'occhio destro dell'assassinato.

– Hanno visto? esclamò il Commissario. Per me non v'è più dubbio: egli comprende.

Il medico dichiarò che quel menomissimo accenno poteva essere puramente automatico.

– Non è vero che voi ci comprendete? soggiunse Tofi, curvandosi di nuovo sul giacente. Date retta, messer Nariccia: vegliamo fare una prova: metteteci da parte vostra ogni sforzo, tutta la buona volontà, perchè ciò vi deve interessare più di tutti noi. Se voi mi udite, se voi comprendete quel che dico, volgete il vostro sguardo verso di me.

Tutti si chinarono ansiosi a vedere se questa prova riuscisse. Le pupille di Nariccia stettero un momentino immote; poi lentamente, come con fatica, si mossero e la destra si volse verso Tofi, mentre la sinistra si volgeva appiè del letto, il qual modo era quello di guardare pe' suoi occhi loschi. Una lieve esclamazione uscì dal petto dei testimoni di quell'atto che prendeva una strana importanza.

– Vedete s'egli ci comprende! esclamò Tofi con trionfo. Oh noi lo faremo parlare, e la verità verrà fuori anche da quelle labbra morte. Fate attenzione, signor Nariccia, continuò indirizzandosi di nuovo al paralitico; potete voi chiuder le palpebre a volontà? Provatevici un po', vi prego.

Gli occhi del giacente manifestarono dapprima la stessa esitazione, la stessa difficoltà di poc'anzi, come restii ad ubbidire all'intimo volere; poi le ciglia si abbassarono lentamente e le pupille furono coperte.

– Bene, benissimo: esclamò il Commissario sempre più soddisfatto. Or dunque – fate bene attenzione, da bravo! – quando voi avreste da accennare di sì potreste chiudere gli occhi. Sarebbe come una precisa affermativa alle nostre interrogazioni, pronunziata dalla vostra bocca. Avete capito?

Le palpebre floscie e giallognole di Nariccia che si erano rialzate tornarono ad abbassarsi sulle losche pupille.

– A meraviglia! Vedono lor signori che noi ci comprendiamo perfettamente… E credo che non si voglia perder tempo – chi sa che cosa può sopravvenire anche nello stato di questo povero diavolo, che c'impedisca di poi l'approfittare del lume d'intelligenza che gli rimane? – e sia spediente il venir subito all'argomento che più preme.

Il giudice fece vivamente un cenno di assentimento, e tutti s'accostarono ancora di più al letto, presi da nuovo e maggiore interesse.

– Avete voi conosciuto i vostri assassini? Se sì, fate come vi dissi, chiudete gli occhi, se no, rimanete colle pupille immote.

Più presto di quello che avessero fatto per l'innanzi, le palpebre di Nariccia s'abbassarono.

Tofi continuò il suo interrogatorio.

– Tutti? Se li avete riconosciuti tutti, chiudete come prima gli occhi; se alcuni soltanto, volgete le pupille alla destra.

Nariccia chiuse compiutamente gli occhi.

– Potreste dirne i nomi?

L'assassinato fece di nuovo il segno affermativo.

– Troveremo il modo di aiutarvi a dirlo questo nome. Frattanto vediamo un po' in quanti erano. Io pronunzierò i numeri, facendo una pausa fra l'uno e l'altro; quando avrò detto il numero che si vuole, voi accennerete di sì. State attento. Uno!

Aspettò un istante: le pupille del giacente stettero fisse sul volto del Commissario.

– Due…

Gli occhi rimasero immoti.

– Tre.

Le palpebre si chiusero.

– È giusto. L'avrei detto anch'io che dovevano essere in tre, solamente a vedere le traccie del delitto. Uno, il più nerboruto, dovette spacciare la fante, mentre gli altri due erano intorno a voi.

Nariccia fe' segno di sì; ma i suoi occhi, fino allora semispenti e quasi atoni, cominciavano a prendere un'espressione di sgomento e di terrore, troppo vivo essendo forse nell'interno l'effetto di questo richiamargli alla mente l'orribile scena.

– Di questi tre assassini io sono persuaso di sapervi dire il nome di due: sono due galeotti scappati, di cui uno vien chiamato Stracciaferro, e l'altro Graffigna.

Cenno affermativo nel giacente.

– Rimane il terzo, e questo sono persuaso che è il più importante.

Nelle pupille di Nariccia corse come un lampo; era una fiamma fugace di quel desiderio di vendetta che stava in lui, e con più vivezza che non avessero ancora avuta, gli occhi si chiusero ad accennar di sì.

– Il pezzo di vestito che voi avevate tra le mani è suo?

Segno affermativo di Nariccia.

– Quello squarcio di abito indica ch'egli vestiva panni signorili. È così?

Il paralitico rispose affermativamente.

– Sotto quel bavero ci sono trapunte due lettere dell'alfabeto, F. B. Sono esse le iniziali del nome di quell'individuo?

Le pupille dell'assassinato rimasero immobili.

– No? Eh! volevo dirlo ancor io. Ma con un po' di pazienza voi potrete farci conoscere subito quel nome. Porgete attenzione. Come abbiamo fatto pei numeri faremo per le lettere dell'alfabeto: io le pronunzierò adagio, ad una ad una, e voi mi segnerete via via quelle che entrano a comporre cotal nome. Cominciamo dalla prima.

Si mise a recitare lento e spiccato le lettere dell'alfabeto; gli occhi dell'assassinato stavano intentivamente fissi su quelle labbra come per cogliere a volo il suono delle lettere fatali che avevano da notare, quasi volendo affrettare la pronuncia di quelle che occorrevano. Ma dopo pochissimi istanti quelle pupille tornarono ad appannarsi e la fiamma d'intelligenza che vi balenava venne via via spegnendosi e quando il Commissario era giunto alla lettera H gli occhi di Nariccia si chiusero.

– Acca! esclamò il signor Tofi meravigliato. Un nome che comincia per acca? Diavolo! Non me lo sarei mai aspettato.

Si curvò di più sul giacente.

– Ehi! messer Nariccia, date retta: è proprio l'acca che avete voluto segnare? Riaprite gli occhi da bravo e ripeteteci il segno, se gli è proprio vostra intenzione di notare questa lettera.

Ma gli occhi di Nariccia non si riaprirono. Il medico s'accostò, lo esaminò, e disse che era inutile insistere, poichè la soverchia interna emozione lo aveva tolto della cognizione.

Tofi fece un atto di disappunto.

– Peccato! diss'egli. La cosa era sì bene avviata. Chi sa se quest'infelice potrà tornare in condizione da riprendere siffatto interrogatorio!

– Converrà usare dei riguardi: soggiunse il medico, e non ricominciare troppo presto. La emozione è troppo forte ancora e troppo recente, perchè facendo rivolgere su quel fatto la sua mente indebolita non succedano tristi effetti a danno della sua salute.

Il Commissario diede bruscamente una crollatina di spalle che significava con molta evidenza: «quando ne avessi tratto fuori quel che voglio, crepi o non crepi costui, che cosa m'importa?» ma non disse verbo.

Il marchese che non aveva più ragione alcuna d'indugiarsi in quella casa, se ne partì col gesuita. Il suo animo era stranamente commosso, la mente turbata. L'intreccio de' casi, la combinazione di quelle strane, inaspettate, imprevedibili circostanze gli facevano scorgere in tutto codesto un certo che di fatale, come un disegno della Provvidenza che volesse, ora, dopo tanti anni, metterlo al cimento di nuovo e dargli occasione a riparare a quel suo fatto per cui gli durava ancora potente nell'animo il rimorso. S'egli non avesse ucciso Valpetrosa (andava seco stesso pensando), il figlio di lui non sarebbe caduto in sì misera sorte!..

Giunti alla carrozza, che aspettava nella strada, Baldissero e fra' Bonaventura, questi, mentre il valletto, col cappello in mano, teneva lo sportello aperto perchè ci salissero, disse:

– Eccellenza, io la saluto. Ella se ne torna forse a casa, ed io rientro nel mio convento.

Il marchese pose una mano sotto l'ascella del frate a fargli invito a salire nel legno.

– Venga, venga meco, gli disse, l'accompagnerò fino al Carmine e la deporrò alla porta.

Salirono ambidue, e la carrozza si diresse di trotto verso il luogo indicato.

Per un po' rimasero in silenzio tuttedue: fu poscia Padre Bonaventura il primo che incominciò a parlare col suo tono più insinuante che mai.

– È una dolorosa contrarietà, un fatale contrattempo questa orrenda disgrazia capitata al povero Nariccia. Temo pur troppo ch'egli non tornerà mai più in istato da potersi spiegare chiaramente e farsi intendere con sicurezza; e senza la sua testimonianza è affatto impossibile dileguare quei dubbi che ci si affacciano intorno all'essere di quel giovane.

Il marchese lo interruppe con un gesto che indicava desiderare che per allora non gli si parlasse più di codesto.

– Penserò di meglio quello che mi tocchi di fare, disse: pregherò Dio, e preghi anche Lei per me, di grazia, perchè m'illumini.

S'era giunti al convento del Carmine, il gesuita discese con ringraziamenti, rispettose salutazioni ed umili proteste di devozione, e il marchese continuò la strada per al suo palazzo. Diverse idee gli tenzonavano nella mente, diversi affetti gli agitavano l'animo. I pregiudizi, l'orgoglio, la bontà del suo cuore, il rimorso lottavano in lui, mandandolo a volta a volta ai più opposti partiti. Aveva bisogno di guida e di consiglio, e non sapeva a cui rivolgersi, e non voleva aprirsene a nessuno. Ad un tratto si presentò alla sua mente l'immagine sorridente e bonaria dell'umile parroco di villaggio. Là era il buon senso, là l'onestà la più pura, là una vera religione, la virtù più generosa, il più esatto e preciso sentimento del dovere, là l'ispirazione della carità veramente cristiana.

Salì di fretta nel suo quartiere e fece venire a sè il domestico.

– Cercate subito di Don Venanzio, e pregatelo di venir da me al più presto.

Il lacchè s'inchinò in segno d'ubbidienza, ma non uscì della stanza.

– Che cosa avete da dirmi? domandò il marchese.

– Durante la sua assenza venne uno scudiere di Corte, pregandola di recarsi a Palazzo chè S. M. desidera parlarle.

Il marchese represse un lievissimo atto di contrarietà, e disse sollecito:

– Non si stacchino dunque i cavalli. Ci vado tosto: e frattanto si cerchi di Don Venanzio. Vorrei trovarlo qua al mio ritorno.

E messosi di nuovo in carrozza, fu in pochi minuti nel palazzo reale alla presenza di Carlo Alberto che lo aspettava e lo accolse tosto.

La plebe, parte IV

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