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CAPITOLO TRE

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Con una ben visibile eccezione, la sala del personale era vuota.

“Grazie per aver trovato il tempo,” disse Jessie quando arrivò alle 6:58 la mattina dopo. Giusto per sicurezza, si chiuse la porta alle spalle.

Sono un uomo impegnato,” disse Garland Moses con tono beffardo, voltandosi a guardarla. Era seduto a un tavolo e stava masticando quella che sembrava una barretta ai cereali. Jessie era tentata di rispondere a tono, smascherando la sua finta irritazione, ma si trattenne.

“Un uomo impegnato che mi sta evitando da un mese,” commentò.

“Avevo un grosso caso a cui lavorare,” protestò lui. “E poi ho avuto quella conferenza a Filadelfia. E poi sono stato in vacanza.”

“Non sparare stupidaggini, Garland. Nella tua ultima sostanziale conversazione con me alla mia festa di compleanno, avevi accennato al fatto che avevi delle preoccupazioni riguardo ad Hannah. E poi ti sei volatilizzato per un mese. Stavo dando di matto.”

Era un’esagerazione, ovviamente. Le cose erano andate effettivamente alla grande con Hannah in quelle ultime quattro settimane. Considerato tutto quello che la sua sorellastra aveva passato nei sei mesi precedenti, il fatto che fosse in grado di godersi una sana serata tra giochi da tavolo e scone era un piccolo miracolo. Ed era il motivo per cui ieri sera non aveva voluti interrompere l’idillio.

“Sai che sono un cittadino di una certa età, vero?” disse. “Non faccio discorsi che includano l’espressione ‘ti sei volatilizzato’.”

“Stai temporeggiando,” disse Jessie.

“No, adesso temporeggio,” disse, alzandosi lentamente in piedi. “Prendiamoci del caffè.”

Fece strada alla macchinetta del caffè. Jessie tentò di ignorare il distributore accanto. Non aveva ancora fatto colazione e sentiva la pancia che brontolava al pensiero di uno snack carico di grassi e conservanti. Mentre Garland camminava, Jessie notò con indossava l’outfit che ormai aveva imparato essere essenzialmente la sua uniforme quotidiana.

Aveva una giacca sportiva grigia dall’aspetto usurato, sopra a un gilet marrone e a una camicia beige. I suoi pantaloni blu erano stropicciati e aveva i mocassini ricoperti di graffi. I capelli bianchi erano spettinati e puntavano in ogni direzione, come se lui stesse tentando di vincere una gara come sosia di Albert Einstein. Il look era completato da un paio di occhiali bifocali appoggiati sul naso.

Ma Jessie aveva imparato che le apparenze potevano ingannare e che il profiler veterano che aveva di fronte coltivava quell’aspetto trasandato perché la gente lo sottovalutasse. Era sempre perfettamente rasato, senza mai il minimo pelo sul mento. I suoi denti bianchi erano immacolati e le unghie pulite e curate in maniera impeccabile. I lacci dei mocassini erano nuovi e ordinatamente legati in un doppio nodo.

Negli aspetti più importanti, lo si poteva considerare al top della forma. Jessie non solo lo rispettava, ma lo apprezzava davvero.

“Ok, signorina Hunt,” iniziò, chiaramente pronto a smetterla di temporeggiare.

“Penso che abbiamo raggiunto il punto in cui puoi chiamarmi Jessie, Garland. Cavolo, io pensò che da un momento all’altro potrei chiamarti nonno!”

“Non farlo, ti prego,” insistette lui. “Ok, Jessie. Non intendevo spaventarti. Ma ho dei pensieri riguardo ad Hannah. Intendo condividerli con te, ammesso che tu li mantenga all’interno del dovuto contesto.”

“Quale contesto?” gli chiese.

“Ricorda: questa è una ragazza di diciassette anni a cui il padre biologico – noto serial killer – ha brutalmente ammazzato i genitori. E davanti ai suoi occhi.”

“Di questo sono perfettamente consapevole, Garland,” gli rispose con impazienza. “Prima di tutto, ero presente. E secondo, quel serial killer era anche mio padre, se ricordi.”

“Sto disegnando un quadro,” disse lui con pazienza. “Posso continuare?”

“Vai avanti,” disse Jessie, decidendo di non interromperlo, dato che stava cercando di parlarci da un mese.

“Allora,” continuò l’anziano profiler, “solo poche settimane dopo è stata rapita da un altro serial killer che voleva convincerla a diventare un’assassina come lui e suo padre. Come parte del programma, l’ha costretta ad assistere all’assassino anche dei genitori adottivi.”

Jessie sentiva l’urgenza di sottolineare che, dato che era stata lei a salvare Hannah in entrambe le circostanze, era perfettamente a conoscenza dei dettagli. Ma ovviamente lui lo sapeva. Stava solo avvalorando i fatti. Quindi, mentre lui parlava, Jessie decise di fissare il proprio riflesso nel vetro del distributore automatico, cercando di appianare la fronte corrugata.

“Giusto,” confermò, mantenendo un tono neutrale.

“E in mezzo a tutto questo, ha scoperto di avere una sorellastra, che ha visto essere torturata e che sembra cercare morte e pericolo per pura natura della sua professione. Sei l’ultima parente che le resta. E ogni volta che ti dà l’arrivederci, sa che potrebbe essere per l’ultima volta.”

Jessie non aveva considerato quel fatto e si sentì subito in colpa, sia per Hannah, che per la propria mancanza di discernimento.

“Eppure,” rispose, “questo già lo sapevi quando hai passato del tempo con lei.”

“Intendi quando mi hai chiesto di farle da baby-sitter in modo che potessi segretamente stendere un suo profilo?”

“È la stessa cosa. Il punto è che sapevi tutto questo quando l’hai incontrata. E nonostante questo mi hai detto che qualcosa ti preoccupava.”

“Sì, è vero,” ammise alla fine. “Non mi addentrerò nei dettagli, dato che non voglio tradire la sua fiducia, e comunque non sono elementi importanti. Ma sulla base delle cose che abbiamo discusso, sono preoccupato dall’apparente mancanza di empatia in Hannah. Solo che non so fino a che punto esserne preoccupato.”

Jessie trovò illuminante il fatto di potersi osservare nel vetro del distributore mentre assorbiva quelle informazioni. In questo modo era capace di notare in tempo reale le proprie reazioni. Sperava di avere un volto più impassibile e imperturbabile quando si trovava in confronti pubblici. Ma nella relativa privacy della sala del personale e con Garland concentrato ad aggiungere zucchero al suo caffè, non tentò di nascondere il suo improvviso pallore o la paura che traspariva dai suoi occhi verdi. Si soffiò una ciocca di capelli via dal viso e rispose con attenzione.

“Ti spiacerebbe elaborare?”

“Il fatto è questo,” le rispose. “La maggior parte degli adolescenti si lasciano spontaneamente coinvolgere dai fatti fino a un certo livello. Serve loro per trovare la propria identità. Per scoprire chi sei, devi concentrarti su te stesso. È normale, anche se a volte dà ai nervi.”

“Ti seguo solo fino a un certo punto.”

“Ma lei ha vissuto tali traumi che non ci sarebbe da sorprendersi se emotivamente si chiudesse del tutto. Se tutto quello che prova è solo un insieme di variazioni del dolore, allora perché provare qualcosa in generale, se non per se stessa, anche per chiunque altro? Quindi può darsi che qualche parte di lei si sia così incallita come forma di auto-protezione. Questo, anche se preoccupante, non sarebbe comunque scioccante.”

“Eppure…” lo incitò Jessie, voltandosi a guardarlo.

“Eppure,” continuò lui, “non mi è chiaro se questa natura chiusa già esistesse prima di quanto le è accaduto. Certe persone non formano grossi legami o affetti per diversissimi motivi. Sua madre è morta quando lei era piccola. È rimasta nel sistema delle famiglie affidatarie per un po’ prima di essere adottata. Qualsiasi cosa avrebbe potuto intralciare la sua abilità nello sviluppare dei legami.”

“Oppure potrebbe essere nata così,” gli concesse Jessie. “Potrebbe essere una questione di genetica.

“È possibile anche questo,” confermò Garland, spostandosi di lato in modo che anche lei potesse prendersi del caffè. “Il problema è che non abbiamo studi di qualità che forniscano niente di definitivo su questo fronte. Ma non è proprio quello che tu stai chiedendo, no?”

“Cosa sto chiedendo io, Garland?” ribatté Jessie.

“Tu stai chiedendo se Hannah può potenzialmente diventare un’assassina come vostro padre, come Bolton Crutchfield ha tentato di modellarla, come tu stessa temi che potresti diventare. Dico bene?”

Jessie rimase in silenzio per più tempo di quanto avrebbe voluto.

“Dici bene,” rispose alla fine, sottovoce.

Gli occhi di Jessie erano fissi sul latte che si stava versando nel caffè, ma poté sentire l’attenta pausa prima che Garland riprendesse la parola. Se lo immaginava interiormente dibattuto su come procedere.

“La frustrante risposta è: non lo so. Siamo tutti e due ben consapevoli delle ricerche scientifiche sul comportamento che l’FBI ha condotto e che indicano che quasi ogni serial killer tra quelli schedati ha subito un qualche genere di trauma in giovane età. Può trattarsi di forme di abuso, bullismo, o la perdita di una persona cara. La mia personale esperienza rinforza queste dichiarazioni.”

“Anche la mia,” confermò Jessie. “Ma ho notato che hai detto ‘quasi’ tutti i serial killer.”

“Sì. Ci sono schede di assassini che sembrano aver avuto infanzie del tutto normali, senza aver sofferto alcuna chiara traversia. Alcune persone sono solo… così. Lo sai benissimo quanto me.”

“Sì,” disse Jessie mentre tornavano al tavolo. “Ma quello che voglio sapere è se la mia sorellastra, la ragazza che vive sotto al mio stesso tetto, è una di loro. Perché se ha vissuto tutto questo orrore così presto nella sua vita e le manca questo – per mancanza di una parola migliore – gene dell’empatia, allora abbiamo per le mani un problema.”

“Forse,” disse Garland con tono cauto mentre si sedevano. “Ma forse no. Per quello che ne sappiamo, non ha torturato animali né ucciso nessuno.”

“Per quello che ne sappiamo,” ripeté Jessie.

“E tu hai vissuto più o meno gli stessi problemi che ha dovuto subire lei. Il tuo padre serial killer ha assassinato tua madre e i tuoi genitori adottivi, e ha cercato di ammazzare te, cosa che ha tentato di fare anche un altro serial killer che era ossessionato da te. E non dimenticare l’ex-marito che ha tentato di incastrarti per l’assassinio della sua amante e poi ha cercato di farti fuori quando l’hai smascherato. Hai avuto tu stessa la tua bella serie di traumi, eppure non hai nessun istinto omicida.”

“No,” disse Jessie, esitando un momento prima di rivelare una cosa che aveva condiviso con pochi altri. “Ma mi sono chiesta spesso se sono entrata in questo settore per avere la possibilità di essere vicina a casi di violenza e crudeltà, senza dover arrivare io stessa a tali azioni. Temo che i crimini di questo tipo mi diano una sensazione di sballo.”

Garland rimase in silenzio per un momento e Jessie si trovò a temere che lui stesse riflettendo sulla stessa possibilità.

“È a questo che serve la terapia,” le disse alla fine, senza offrirle la minima soluzione.

Jessie stava per rispondergli in modo beffardo, quando il suo telefono suonò. Guardò lo schermo. Era Kat Gentry. Mandò la chiamata alla segreteria.

“Quindi hai intenzione di vedere ancora Hannah?” gli chiese. “Per vedere se riesci a trarre delle conclusioni più sicure?”

“Sono disposto a rivederla, se lei vorrà,” le disse. “Ma questo non significa che avrò nessuna rivelazione. Alla fine è difficile capire se sia solo una ragazzina lunatica, una giovane donna traumatizzata ed emotivamente debilitata o una combinazione delle due cose.”

Un messaggio comparve sullo schermo del telefono di Jessie. Era Kat. Mi serve il tuo aiuto in un caso. Ci vediamo al Downtown Grounds alle 7:30?

Jessie guardò l’ora. Erano le 7:10. Qualsiasi cosa Kat avesse per le mani era urgente, se voleva incontrarla con così poco preavviso.

“Un’opinione me l’hai lasciata,” commentò Jessie, mentre rispondeva al messaggio con un ‘Ok’.

“Quale sarebbe?” le chiese lui.

“Una sociopatica che nasconde molto bene il problema.”

L’alibi Perfetto

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