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LA PARATA.

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Entrando il marzo del 1340, i Gonzaga signori di Mantova avevano aperta una corte bandita nella loro città, con tavole disposte a chiunque venisse, con musici, saltambanchi, buffoni, fontane che sprizzavano vino, tutta insomma la pompa colla quale i tirannelli, surrogatisi ai liberi governi in Lombardia, procuravano di stordire i generosi, allettare i vani, ed abbagliare la plebe, sempre ingorda dietro a queste luccicanti apparenze.

Fra i tremila cavalieri concorsi a quella festa con grande sfoggio d'abiti, colle più belle armadure che uscissero dalle fucine di Milano, con destrieri ferrati persino d'argento, v'erano comparsi molti Milanesi per fare la corte al giovinetto Bruzio, figliuolo naturale di Luchino Visconti, signor di Milano. Sono fra essi ricordati Giacomo Aliprando, Matteo Visconti fratello di Galeazzo e di Bernabò, che poi divennero principi; il Possidente di Gallarate, il Grande de' Crivelli, e sovra gli altri segnalato Franciscolo Pusterla, il più ricco possessore di Lombardia, e sarebbesi potuto dire il più felice, se la felicità potesse con beni umani assicurarsi, e se da quella non fosse precipitato al fondo d'ogni miseria, come il processo del nostro racconto dimostrerà[2].

Questi campioni milanesi avevano riportato il premio della giostra ivi combattutasi, il quale consisteva in un superbo puledro del valore di 400 zecchini, nero come una pece, colla gualdrappa color di cielo, ricamata ad argento; in un altro, mezzano di grossezza, baio di colore e balzano di due piedi: oltre a due abiti, uno di scarlatto, l'altro di sciamito foderato di vaio. Per farne mostra, erano i vincitori girati trionfalmente per Cremona, Piacenza e Pavia, donde s'erano vôlti dalla patria, appunto il 20 Marzo dell'anno predetto. Liete accoglienze ricevevano per tutto, poichè un istinto dominante e pericoloso dell'uomo fece al valore fortunato tributare rispetto ed ammirazione in ogni tempo, ma più ancora in quello, tutto di forza materiale. I signorotti poi vedeano volontieri che il coraggio si esercitasse in tornei e finte battaglie, come in altre età videro volontieri sfogato l'umore curioso e contenzioso in fazioni da teatro e in letterarj garriti. Perciò anche da Milano uscì ad incontrare i prodi una cavalcata della Corte e de' più nobili, che ricevutili nello splendido castello di Belgioioso, voltarono con essi alla città.

Entrati con solenne pompa per la via di Sant'Eustorgio, attraversato quel sobborgo, già cinto di mura e chiamato la Cittadella, vennero alla porta Ticinese, che si apriva laddove ora è il ponte sul canale Naviglio. Quel canale segna ancora la fossa che, larga quanto è ora la strada, aveano scavata attorno alla risorgente patria i Milanesi per difendersi dal Barbarossa: e col cavaticcio avevano formato un terrapieno (il Terraggio), unico riparo ma bastante quando ogni cittadino era guerriero,—guerriero per la patria e per la libertà. Ma pochi anni prima di quello di cui scriviamo, Azone Visconti aveva in quel luogo fabbricato la mura, lunga in giro diecimila braccia, con saracinesche e ponti levatoj a ciascuna delle undici porte, incoronata di cento torri e di migliaja di merli.

Passati i cavalieri per l'arco, che tuttavia sussiste a malgrado dei novatori, costeggiarono le famose colonne di San Lorenzo, logora e venerabile reliquia romana, e giunsero al crocicchio, detto Carrobio perchè dava luogo ai carri, qualità allora comune a poche vie. Il vulgo, sospendendo i lavori, traeva a quello spettacolo, invitato dal festoso sonare dei banditori della città, i quali, tutti in rosso, colle trombe d'argento, insieme coi sei portieri in corsaletto a quarti di bianco o scarlatto, e coi mantelli del colore istesso, precedevano la comitiva, togliendosi in mezzo il banderajo, che portava il gonfalone cogli stemmi delle varie porte, distribuiti attorno alla vipera nera in campo d'argento. E—Chi è quella signora tutta a velluto e oro?»—domandava qualche fanciulletto.

—È (gli rispondevano i genitori) è la signora Isabella del Fiesco, moglie di quel là, tutto lucente di acciajo, con sul cimiero una biscia che mangia un figliuolo cattivo. Si chiama il signor Luchino, nostro padrone. Vedi mo fortuna nostra d'avere un padrone così valoroso e una sì bella padrona!

—E vedete (soggiungeva un compare maliziosamente pigiando col gomito) che occhiatine ella si ricambia col bel Galeazzo.

—Eh eh! (replicava un terzo strizzando l'occhio) gli è un pezzo che se la intendono zia e nipote».

Qui cominciavano a leggere sulla cronaca scandalosa, e contare i torti, con cui la signora Isabella ricambiava i torti che riceveva dal marito. Luchino in fatto, senza una vergogna al mondo, veniva dietro circondato dai suoi figliuoli Forestino, Borsio e il già nominato Bruzio, partoritigli da diverse madri.

Luchino nasceva dal Magno Matteo, quello che, dopo dell'arcivescovo Ottone Visconti, col valore e colle brighe aveva ottenuto il dominio di Milano sotto il titolo di Vicario dell'Impero, poi di capitano e difensore della libertà. A Matteo era successo nel comando Galeazzo, a questo il figlio Azone, e morto lui, Luchino era stato, il 17 agosto dell'anno precedente a questo, assunto signore dal consiglio generale de' Milanesi. Ma perchè poco bene prometteva la sgovernata gioventù di lui, consumata a correre avventure fra libertini, gli avevano dato a compagno il fratello Giovanni, vescovo e signore di Novara.

Mostrerebbe conoscere pur poco il popolo chi si meravigliasse perchè, sapendolo un tristo arnese, non avessero eletto tutt'altri o nessuno.

Quando Luchino si trovò in potere, parte coll'astuzia, parte colla prepotenza, eliminò il fratello, che, prete, credenzone e voglioso di godersi i vantaggi di una lauta fortuna e di una rara avvenenza, abbandonò ad esso ogni pubblica cura.

Luchino, ricchissimo di quel valore militare che può associarsi con tutti i vizj e sino colla viltà, austero men di lingua che di fatti, scarso nel promettere, saldo nel mantenere, spedito nel prendere una risoluzione e nell'effettuarla, molto paese acquistò, nulla perdette: non sentì benevolenza per altri che pe' suoi bastardi: non perdonò mai, mai non si fidò in chi una volta avesse offeso: ma per dissimulare o l'odio o la vendetta, per seguitare con lunghi giri una preda, per consumare un'iniquità col più ipocrito aspetto di giustizia, pochi l'eguagliarono fra i signori di sua casa, che pur sapete se ve ne furono di tristi.

Di giustizia gli meritò lode l'aver liberato il paese dai ladri, frenato le prepotenze dei feudatarj, dato eguale ascolto a Guelfi e Ghibellini, chiamato i nobili al par de' plebei a sopportare le pubbliche gravezze. Ma in quel che riguardava lui stesso, aveva intitolato giustizia il proprio interesse. Fu unico in ciò?

Semplice era la sua politica: conservarsi ad ogni costo. Tornava opportuno il dar favore al commercio, alle arti? lo faceva. Conveniva meglio la guerra? la rompea, che che lagrime e che che sangue dovesse costare. Secondo il credea buono, favoriva letterati e poeti, ovvero ergea patiboli, empiva prigioni. Considerandosi come un custode di belve che lo sbranerebbero appena cessasse di mazzicarle o di mostrarsi necessario al loro sostentamento, ai buoni, cioè ai vili, comparire unico autore della pubblica felicità; coi malvagi, cioè con quelli che osassero guardare nei fatti suoi, esacerbava per calcolo la naturale e dissimulata fierezza: spie, giudici comprati, forza armata davano tratto tratto dei buoni esempj: cioè accusando, incarcerando, ammazzando, insegnavano agli altri a dimenticare le libertà un tempo godute, a credere unico dovere del capo il comandare, unico diritto dei sudditi l'obbedire.

Non però sempre violenti erano i mezzi, da Luchino messi in opera, e sembra che i Milanesi o non avvertissero o trovassero piacevole quell'altro suo accorgimento di domarli corrompendoli. Al vulgo feste, baccani, taverne, bordelli; ai nobili giovani, i cui costumi severi e riflessivi gli avrebbero fatto ombra, offriva alla Corte esempj e comodità di dissolutezza, affinchè, chiuse le vie alla gloria ed agli onori, badassero a cogliere il fior della vita fra spassi e gavazze.

Narrano che questa via lo guidasse più presto e meglio alla meta.

Nè la coscienza taceva in lui: ma ne soffocava o illudeva la voce con pratiche devote: recitava ogni giorno od ascoltava l'uffizio della Madonna; teneva a tavola spesso i suoi cani, ma altre volte vecchi e pitocchi, ai quali con fastosa umiltà ministrava egli stesso: mai non mangiò che cibi quaresimali al sabbato e ne' giorni comandati; tassò le spese dei funerali, e stabilì gravi pene contro i medici che visitassero tre volte un malato senza farlo confessare.

Che i sudditi lo amassero glielo ripetevano cagnotti, ambasciatori e poeti: quanto egli sel credesse potevasi argomentare dal giaco di maglia che mai non deponeva, dalle raddoppiate guardie, e da due enormi alani, che, come i soli non capaci di desiderare miglioramento nè libertà purchè mangiassero, si teneva ai fianchi dovunque andasse.

Pure, al veder le dimostrazioni che gli facevano in quel tragitto per la città, avreste potuto supporre Luchino un padre del suo popolo. E non tutte dovevano dirsi adulazioni e vigliaccheria. Nessun governo si dà che sia tristo affatto, nessuno che non profitti a qualche classe. I Lombardi erano corsi attraverso un'età d'interne turbolenze, ove la libertà, acquistata a prezzo di sangue e di sforzi generosi, erasi andata guastando tra fraterni dissidi, ire di fazioni, soperchierie di prepotenti: talchè, stanchi d'un assiduo tempestare ove il grosso del popolo arrischiava tutto senza nulla vantaggiare, vedeano di buon occhio un governo robusto che poneva un freno a tutti, si avvezzavano a chiamare pace la comune servitù, come la chiamavano libertà quelli che ne facevano il fatto loro. Luchino, inoltre conferiva gl'impieghi quasi solo a nostrali, talchè seimila cittadini vivevano sopra i pubblici stipendj: nella carestia che allora affliggeva il paese, quarantamila bisognosi erano mantenuti a spese della città: della città dico, non del principe: ma il popolo è sempre disposto ad attribuire a questo i beni come i mali che prova.

Quanto ai nobili, erano impazzati nel tempo che regolavano il pubblico interesse: ciascuno amò sè più che la patria, più le proprie soddisfazioni che le comuni libertà, più il comodo che la gloria, più la vita che la virtù: ora mangiavano del cibo che s'erano preparato. Alcuni, vedendo di non potere nè sopportar così, nè volgere in meglio la sorte del loro paese, o viveano ritirati in violenta pace, od uscivano in esteri paesi: col che più libero lasciavano il campo all'ambizione di coloro che, non più nella patria, ma alla Corte cercavano primeggiare, operando non all'utilità di tutti ma di quel solo da cui ricevevano o speravano lustro e ricompense.

Se non che Luchino, o insospettito o geloso, aveva dato lo sfratto a tutti coloro che erano stati in auge sotto di Azone, per attorniarsi di nuova brigata sul far suo, compagni alle sue giovanili dissolutezze, disposti a fare com'egli voleva e peggio. Nella cavalcata che noi descriviamo, si potevano discernere i nuovi dagli scaduti al rimanere quelli vicini al principe, e tal ora accostategli pronunziando qualche parola; allo sfoggiare in pompa di codardia; allo stringersi fra loro baliosi, e celiare, e sbizzarrire sui briosi palafreni; mentre gli altri si tenevano estremi, taciturni e fra loro scambiando qualche parola sommessa e dispettosa. La plebe naturalmente supponeva senno, valore e prudenza nei favoriti dal principe, il contrario negli altri: sberretteva i primi, assomigliava gli ultimi a patarini e scomunicati; e tenuta indietro dal ceffo arcigno del tedesco Sfolcada Melik, capitano alla guardia del corpo di Luchino, sbirciando sott'occhio quel muso baffuto, gridava:—Viva il Visconti, viva il biscione!»

Senza discernere gl'infimi dai sommi, tra la parata galoppava un buffone, razza di cui ogni Corte era provvista e più lautamente la milanese, che in simile genia spendeva ogni anno trentamila fiorini[3];—ottimo uso delle pubbliche entrate. Vi facevano costoro l'uffizio, che altre volte adempirono i poeti e sempre gli adulatori; lisciar i padroni, far ridere alle proprie spalle, trattenere con imbecillità corruttrici e velar l'orrore d'un delitto sotto la vivacità d'un'arguzia. Se non che (tanto in ogni istituzione vanno misti il male e il bene) in mezzo ai loro lazzi avventuravano qualche verità, che altrimenti non sarebbe giunta fino alle orecchie dei gran signori. Grillincervello, come chiamavasi il buffone di Luchino, copriva la zucca monda con un berretto bianco a cono, sormontato da un cimiero scarlatto a guisa di una cresta di gallo; con due brache e un farsettaccio di traliccio larghi e sciamannati, con enormi bottoni e ciondoli sonori; ed impugnava un bastone, il cui pomo figurava una testa di pazzo colle orecchie asinine. Messosi per isproni due ravanelli (fabbrica di Pavia, com'esso diceva), stuzzicava con essi un orecchiuto destriero di Barlassina (altra sua frase), tutto a fiocchetti e sonagliuzzi; e colla bocca atteggiata sempre a un riso fra idiota e maligno, con certi occhi sgranati e guerci, saltabellava di qua, di là, or dando la caccia ai porcelli e alle galline che liberamente pascolavano per le vie; ora ficcandosi attraverso ai passi del terzo e del quarto, e scagliando a questo un motto, a quello una zaffata. Farfogliando al Melik qualche frase mezzo tedesca, gli tirava i severi mustacchi, e mentre colui, senza scomporre di sua gravità, gli assestava una sciabolata di piatto, egli era guizzato un pezzo lontano. A Matteo Salvatico (scrittore dell'Opus pandectarum medicinæ, la più diligente opera intorno alla virtù delle erbe), il quale, secondo il lusso de' medici, cavalcava con un vestone di porpora e preziosi anelli e sproni dorati, il buffone, facendo al suo somarello un cenno ch'io non voglio descrivere, diceva:—Toccagli il polso»; poi indirizzandosi all'astrologo Andalon dal Nero, altro mobile indispensabile delle Corti d'allora, il quale procedeva contegnoso e sopra pensieri, gli batteva in sulla nuca, dicendo:—Questa non te l'avevano indovinata le stelle».

Lo udiva Luchino, e ne sorrideva, sinchè, passato appena il palazzo che egli aveva eretto per propria abitazione da privato in faccia a San Giorgio, ed inoltrandosi fra la turba che, presso alla chiesa di Sant'Ambrogino in Solariolo, affollavasi al mercato, o come dicevano, alla Balla degli olj e dei laticinj, cominciò a fissare gli occhi sopra una signora, che stava sur un terrazzino, sporgente dalla torre in angolo della via che di là mette a Sant'Alessandro. Questa era Margherita Pusterla, anch'ella di casa Visconti e cugina del principe, ma troppo da lui dissomigliante. Erasi fatta ad osservare il corteggio, non per capriccio di femminile curiosità, ma per cercare fra questo il marito suo Franciscolo Pusterla, uno, come abbiam detto, dei vincitori della giostra, e che teneasi in fondo tra gli scontenti. La dama, la quale era tutto il bello che dev'essere l'eroina d'un racconto, reggeva sulla spalletta del verone un caro fanciullo di forse cinque anni: e tendendo la destra candida e morbida come di cera, gli additava lontano un cavaliero superbamente vestito e montato, alla cui vista il bambino, trasalendo di gioia fra il seno e le braccia materne, esclamava:—Babbo! babbo!» e con ingenuo vezzo infantile sporgeva verso quello le braccia. Assorta in quest'episodio di famiglia che per lei era tutto, la Margherita non poneva mente nè agli applausi del vulgo, nè alla pompa del corteo, nè agli occhi che ammiravano la sua bellezza, nè a Luchino, sebbene questi, allorchè fu sotto al balcone, avesse rallentato il passo, e fatto sbraveggiare e atteggiar vagamente il superbo stallone bianco che cavalcava, bramoso di attirarsi uno sguardo della bella.

Ma invano: onde una nube di dispetto gli passò sul volto severo. Se non che Ramengo da Casale, uno dei cortigiani sempre disposti a piaggiare, qualunque essa sia, la passione dei potenti, si fece accosto a lui, ed inchinandolo con adulatoria sommessione, esclamò:—Se vuolsi trovare qualcosa di grande negli uomini, o qualcosa di bello nelle donne, è forza ricorrere al nome de' Visconti».

Luchino, non mosso dall'incensata che come uomo avvezzo alle vigliaccherie, rispose:—Sì: ma a costei pare che puta il nostro cognome: nè voi altri fra quanti siete sapeste mai farne belli i circoli nostri.

—Vero! (ripigliava Ramengo) Ella è tanto schifa ed orgogliosa quanto bella ed aggraziata. Ma più la vittoria è difficile, più torna a onore, e ad un sospiro del principe qual ritrosia durerebbe?»

Guizzò fra loro il buffone, e ghignando beffardamente sul viso dell'adulatore, poi di Luchino, disse a questo, vagliando la persona in modo da sonar tutto:—Non dargli ascolto, padrone; leccane i barbigi, che non la è carne pe' tuoi denti.

—E perchè no, sfacciato?» saltò su mezzo in collera Luchino.

—Perchè no», ripetè il mariuolo, e toccata la cavalcatura, in un batter d'occhio fu lontano, mentre Luchino, senza curare nè le piacenterie dei cortigiani, nè i viva del popolo, seguitava innanzi a rilento, volgendosi tratto tratto verso la signora Pusterla. Essa invece non distoglieva gli occhi dal marito, il quale procedeva fra un giovine e un frate, che pedestri uscitigli incontro, l'accompagnavano discorrendo. Il giovane era tutto fuoco nel gesto, negli sguardi, nel favellare; la faccia dell'altro, composta a gravità severa e pur dolce, annunziava una lotta profonda ma calma tra la violenza dei sentimenti e la robustezza della volontà; e nella fronte facile a corrugarsi, nelle guance scarne e affossate, nel labbro serrato, portava il marchio onde la sventura impronta le sue vittime, quasi per dar loro la consolazione di conoscersi a vicenda, e di allearsi per reggerle incontro.

La rincrescevole attenzione e il frequente rivolgersi del principe non isfuggirono al Pusterla, il quale, voltosi ai non meno accorti compagni, domandò loro:—Vedeste?

—Vidi», rispose il frate chinando le ciglia in atto di persona abituata a gravi pensieri.

—Sfacciato!» saltava con occhi sfavillanti il giovane.—Quest'altra ci mancava! Ma che non può aspettarsi da un tiranno? Oh perchè non ci ha a Milano cento persone deliberate al par di me! E voi, oh perchè non vi risolvete, signor Francesco, di far suonare alto il vostro nome e metter fine alle servitù della patria ed all'obbrobrio comune?»

Franciscòlo Pusterla col gesto e colla voce imponeva silenzio ad Alpinòlo (quest'era il nome del garzone), mentre il frate, colla posatezza abituale alle persone costrette a riflettere, a concentrarsi, a vivere in sè, diceva:—All'uomo scontento rimane un partito! spiccarsi dai viziosi, e senza paventare la dimenticanza de' suoi concittadini, cercare nella dignitosa ilarità de' domestici affetti la pace e la sicurezza della coscienza e del proprio onore. Così ha saputo fare tuo suocero Uberto Visconti: così avresti a far tu: e mille segni ti mostrano che n'è venuta l'ora. Con un tesoro qual è la tua Margherita, non è angolo del mondo così riposto, non solitudine così romita, che non ti possa convenire in un paradiso».

La voce del frate erasi animata a questo parlare, come anche il color delle guancie; egli se n'avvide, chinò il capo e tacque. Ma Franciscòlo, punto non mostrandosi convinto alle parole dell'amico:—Sì, frà Buonvicino (diceva); ritirarmi, questo è il sogno delle mie veglie. Ma poi? cos'è mai un uomo fuor degli affari? Come parrei dirazzato da' miei padri, sempre attenti alle pubbliche cure! Finchè il signor Azone governò, sai se continuamente adoperai al bene della mia patria; sai se fin d'allora ho usato ogni maniera di riguardi dilicati a questo Luchino, benchè fosse in urto collo zio, nella fiducia che, giungendo alla sua volta al comando, me ne saprebbe buon grado, mi terrebbe fra' suoi vicini, e così potrei dirizzarlo al meglio comune. Or vedi frutto! Appena impugnò quel bastone del comando, che tanto noi oprammo, per affidargli, non che dimenticare i meriti nostri recenti, fino gli antichi pare ci ascriva a colpa: e sbalzati noi tutti, si è posto attorno gente nuova e plebea, assurda consigliera, insana adulatrice, feccia tale, che mille miglia ne vorrei esser lontano, se non mi trattenesse la speranza di tornar utile alla famiglia mia, ed ai miei concittadini».

Applaudiva Alpinòlo a quel risentito parlare: ma frà Buonvicino, avvisando che, sotto al velo dell'utile pubblico, s'ascondevano l'ambizione e un naturale, che, non sapendo provare godimenti se non nella tempesta, metteva a pari la calma e la morte, trovava facilmente come ribattere le apparenti ragioni dell'amico, ma non come destargli una virile vergogna: onde, qual persona usata a concedere indulgenza alle debolezze degli uomini per non essere costretto a doverle disprezzare, finiva col seguitarlo tacendo, finchè si divisero allo sbucare sulla piazza del Duomo.

Se però volete figurarvi al vero gli uomini di quel tempo, vestiti di ferro e di sfarzosi mantelli, e pellicce, e collane d'oro, e berretti a piume ondeggianti, e spadoni ai fianchi, ed enormi mazze ferrate agli arcioni, e sul guanto astori e falchi, non dovete collocar loro d'attorno queste fabbriche d'oggidì, le vie larghe, allineate, selciate che sasso non eccede, fiancheggiate da case a tre o quattro solaj, colle finestre simmetriche, protette da gelosie, con botteghe d'ogni lusso, con tutta quella bellezza che ha per carattere il gentile, e che rivela tempi quieti, gente educata a non pensare gran fatto all'avvenire. L'architettura, come sempre fa, erasi foggiata ai costumi e alle opinioni correnti, tutta solidità nei palazzi, nel resto appena quel che fosse necessario per riparare dalle intemperie la plebaglia, perpetuamente condannata a faticare e patire, giovare ed essere disprezzata. Alte e massiccie torri accanto a bassi tugurj, pareano simbolo della società, divisa in due condizioni, una altissima, infima l'altra. Le poche abitazioni che si elevassero sopra il pian terreno, s'intitolavano solari; e da uno appunto di siffatti aveva ricevuto il nome la chiesa di Sant'Ambrogino in Solariolo, che fu poi detto alla Balla, da un atrio ove, tre volte alla settimana, tenevasi mercato d'olio, di pollami e latticinj. Colà presso può vedersi ancora[4] uno di quei torrazzi, che ajutano l'immaginazione a ricostruire il Milano antico; e da non molto tempo fu diroccato l'altro che faceva cantonata alla via che volge a Sant'Alessandro. Formava esso parte dello splendido palazzo dei signori Pusterla, il quale distendeasi fino all'Olmetto e ai Piatti, in apparenza più di fortezza che di abitazione. Tutto di pietre tagliate, verso la strada non aveva che due finestre alte, protette da robuste inginocchiate, siccome chiamavano le ferriate sporgenti a pancia: grossi anelli impiombati nelle bugne offrivano la comodità di legarvi i cavalli, per salir sui quali erano disposti lungo i muri ed alla porta, dei dadi di granito; la porta chiusa con enormi battenti ferrati e col suo ponte levatojo, aprivasi sotto una torretta quadrata, posta in fondo alla via mozza, che ancora nominiamo Vicolo Pusterla. Sull'accennato torrione di angolo sventolava lo stendardo della famiglia, coll'aquila nera in campo giallo; e dal mezzo ne sportava il verone, sul quale si era mostrata la signora Margherita. I Pusterla, famiglia delle più nobili e la più ricca di Milano, avevano nei tumulti antecedenti parteggiato ora coi Torriani ora coi Visconti: Matteo Magno aveva sposata una figliuola di Filippo Torriani, dalla quale era nato il Franciscòlo di cui parlammo.

Trascorso quel palazzo, la cavalcata tirò innanzi per la via de' Banderaj, detta poi de' Pennacchiari, indi per quella che fu poi nominata dei Mercanti d'Oro per le botteghe dei tessuti d'oro e seta, introdotti appunto dominando Luchino[5]. Le vie erano state, fin dal 1272, solate a mattoni per taglio o acciottolate: poi il signor Azone aveva fatto scavare cloache per tenerle monde, e ordinato che restassero sgombre da sozzure e impedimenti: ma altro è ordinare, altro è essere obbedito. Ove le fitte case lasciassero un poco di largo, il sole versava la limpida sua luce: ma generalmente basse tettoje ed acuminate, sporgendo in brutta guisa, se salvavano dalla pioggia il pedone e gl'indifesi balconi, impedivano però il circolare dell'aria e davano sgradevole vista.

Dalle anguste o distorte vie mal argomentereste la miseria della città; che quanto anzi fosse ricca e popolosa ce ne dà indizio una statistica di quei giorni. Contava essa (per dirne alcun che) tredicimila porte con seimila pozzi, uno più uno meno: quattrocento forni di pane, s'intende di mescolanza, che pel bianco n'aveva uno solo alla Rosa; mille taverne, oltre cencinquanta locande: tremila macine da molino, servite da seimila bestie da soma: a duecentomila salivano gli abitanti, di cui un quinto atti alle armi, ducento causidici, altrettanti medici, mille notaj, settanta maestri d'elementi, quindici di grammatica e logica, cinquanta copisti di libri, i Remondini ed i Bodoni di allora; oltre ottanta fabbri-ferraj e maniscalchi, quattrocento beccai, trecentottantacinque pescivendoli, trenta fabbricatori di sonagli, cento d'armadure, e innumerabili lavoratori, negozianti e ritagliatori di panni e di sete, per cui comodità si tenevano quattro fiere all'anno e mercati quotidiani.

Non accompagnerò in altre minuzie lo statistico, il quale sa fin dirvi che si consumavano in città ogni anno cinquantamila carra di legna, il quadruplo di fieno, seimilacinquecento staja di sale: ogni settimana si ammazzavano da settanta a ottanta bovi ingrassati; e al tempo delle ciliegie ne entravano sessanta carra al giorno; che nella sola città si numeravano seimila novecento quarantotto cani; fra la città e la campagna cento astori nobili e il doppio falconi, oltre sparvieri senza numero.

Io che, per prova, non mi fido alle cifre esibite dalle statistiche odierne, molto meno voglio spacciarvi per di fede queste d'allora: bastandomi vi diano in di grosso un'idea del quanto allora si vivesse diverso dal presente.

Ancor più diversi erano gli uomini che popolavano la Lombardia e tutta Italia. Prima di ogni altra nazione si erano alzati dall'invilimento, cui gli avevano ridotti le orde settentrionali: il commercio, le navigazioni, le ricordanze e i resti degli antichi municipj, la necessità della difesa, le lettere, la religione gli avevano ajutati a costituirsi in altrettante repubbliche quante erano le città.

La lotta degli imperatori tedeschi non fece che consolidare la civile e la politica libertà, fra cui si svilupparono le forze tutte del corpo, del cuore, dell'intelletto. Soldati valorosissimi, i più arditi marinaj, i più lauti negozianti, essi ridestarono la pittura, l'architettura, la poesia:—visitate l'Italia, e ad ogni città chiedete quando si cinse di mura, quando frenò o guidò quei fiumi, quando fabbricò quei porti, quelle ampie dogane, quei palazzi del Comune, quelle cattedrali, e tutte vi risponderanno che fu nei tre secoli de' governi popolari, quando nell'integrità di sue forze, usciva dal feudalismo, e ricuperava il sentimento della propria esistenza. Prosperità originata dagli sforzi individuali di persone, che ciascuna credevasi qualche cosa da sè; onde l'impulso indipendente dei singoli produceva l'avanzamento di tutti. Caduti quei governi in mano de' tirannelli, ben s'ingegnarono questi di soffocare quel vivo sentimento dell'individualità, ma il riuscirvi era serbato a tempi di pacata oppressione, in cui il popolo non fosse più valutato se non per la quota che contribuisce all'esattore.

Ma per allora, quelle cento repubblichette erano altrettanti centri di attività, di cognizioni, d'emulazione artistica e mercantile; sicchè, per tacere l'incontrastata primizia del sapere e dello arti belle, Italia da sola era più ricca di denaro che tutta la restante Europa: Romeo de' Pepoli bolognese aveva col commercio acquistata una rendita di cenventimila fiorini cioè un milione e mezzo di franchi: Mastino della Scala dalle città sue traeva settecentomila fiorini, quanti appena ne ricavava dalle sue il più ricco re, quello di Francia; fra i Bardi e i Peruzzi di Firenze prestarono alla Corona d'Inghilterra sedici milioni e mezzo di franchi; e sì che allora il denaro era cinque o sei volte più raro d'adesso.

Dovrò io al lettore italiano domandare perdono se, qui sulle prime, svio dal soggetto per rammentare con compiacenza gli antichi vanti della patria nostra? Pur troppo nel seguito del nostro racconto ci accadranno tutt'altro che piacevoli argomenti di digressione.

I Visconti a Milano, come gli altri signorotti, davano favore al commercio e all'industria; ma procuravano stornare il popolo dalle armi, conoscendo quale salvaguardia siano dei diritti in mano del popolo; e Luchino, col pretesto di alleviarli d'un peso, aveva dispensati i cittadini dalla milizia; sicchè godevano un riposo da gran tempo ignorato, senza accorgersi come ne patissero i diritti civili, sino ai quali la considerazione del popolo di rado s'innalza, o non mai.

Fra la plebe e il principe stavano i nobili, cioè i possessori delle terre; non genìa baldanzosa e prepotente, come nei paesi ove la feudalità conservava quell'antico rigoglio, che qui le era stato fiaccato dalle repubbliche. Anzi i nobili, da una parte facevansi amare dalla plebe proteggendola, spendendo, sfoggiando: dall'altra non recavano ombra al principe, perchè non vantavano annosi diritti, nè si stringevano in robusta federazione, nè andavano cinti di vassalli ligi ed armati così, da limitare il loro potere.

In tal modo viveano a fronte uno dell'altro il Comune, l'aristocrazia ed il tiranno, il quale, se era scaltro e di polso, profittando della superiorità che dona un potere costituito, far poteva liberamente ogni suo volere. In fatto, nella cavalcata che allora entrava in Milano, la plebe guardava e applaudiva; i nobili o piaggiavano o temevano; il principe, dando pane e feste a quella, mutando questi da feudatarj in cortigiani, facea suo pro dell'una e degli altri.

Da quelle callaje sbucò il corteggio sulla piazza, ove, mezzo secolo dopo, fu cominciato questo Duomo, e che poco prima Azone avea fatto sbrattare dalle botteghe e dalle baracche ond'era tutta ingombra. Accanto al tempio di Santa Maria Maggiore (rifatto ai tempi della Lega Lombarda coi giojelli offerti dal patriottismo delle brave Milanesi) aveva egli fabbricato un superbo campanile, su cui campeggiavano le insegne dei Visconti, del papa, dell'impero, di Milano e di ciascuna delle porte, ma sì poco solido, che non guari dopo crollò, mentre ancora sussiste l'altro assai bello, da lui parimenti eretto a canto a San Giovanni delle Fonti, battistero dei maschi, che ora chiamiamo San Gottardo, come chiamiamo delle Ore la via che lo rasenta, perchè su quella torre appunto venne collocato il primo orologio di Milano e il secondo di tutta Italia.

Dove sorge il palazzo reale, stava allora quello dei dodici Savj della Provvisione, e avanti ad esso tenevasi mercato di vestiti ogni settimana. Lo spazio quasi occupato ora dal Duomo denominavasi Piazza dell'Arrengo, perchè vi si radunavano i cittadini finchè si governarono a popolo, per fare e per udire le arringhe intorno ai pubblici interessi. Colà il sincero amor patrio de' pochi e l'ambizioso egoismo dei più lottarono lungamente, agitando tra varie fazioni il paese, finchè, sazj di quel tempestare, risolsero commettere il supremo comando ai Torriani, indi ai Visconti. Dei quali primo Ottone arcivescovo fu eletto signore, indi Matteo Magno, poi il costui figliuolo Galeazzo, da cui nacque l'Azone che più volte ci occorse di nominare in questa rassegna, che pur troppo sentiamo quanto a ragione i lettori potranno paragonare al passar delle immagini di una lanterna magica sulla parete, senza profondità e senza lasciare traccia.

Esso Azone, inteso a mascherare la servitù, aveva, oltre assai fabbriche cittadine, abbellito a meraviglia il palazzo, in cui, come in sua reggia, ora entrava Luchino. Una torre s'innalzava a molti piani, con camere, sale, corridoj, bagni ed orti: al piede innumerevoli stanze con doppie imposte e portiere e ori, che era una ricchezza a vedere; in un camerone, chiuso da una rete di fili di ferro, svolazzavano d'ogni razza uccelli; nè vi mancava un serraglio di orsi, babbuini, altre fiere, tra cui uno struzzo e un leone, lusso che parrà stravagante solo a chi non abbia pratica coi costumi di quel tempo. Ma non conviene tacere le pitture onde ogni cosa era adornata: un laghetto, in cui quattro leoni versavano acqua continuamente, e che figurava il porto di Cartagine, colle navi e tutto disposto per la guerra punica: in fine la chiesa, ricca di arredi pel valore di ventimila fiorini d'oro e di reliquie miracolose.

Fra questo lusso entrato il corteo principesco, un bellissimo giovane, d'occhi vivaci, lunga barba e capellatura cascante e anella sovra le spalle, splendido nel vestire quanto dir si potesse, e con gran piume ondeggianti tutt'in giro al capo, fu lesto a scavalcare, e dar braccio alla signora Isabella per ismontare dal palafreno. Era Galeazzo Visconte, il quale, susurrandole galantemente all'orecchio, l'accompagnò su per lo scalone con dietro tutta la comitiva.

E giunti alla gran sala, detta della Vanagloria, tanto splendida che altro non gridano le storie, mentre il buffone faceva inchini ad Ettore, ad Ercole, ad Azone, agli altri eroi in essa effigiati, la folla raccoglievasi in crocchi e capannelli per legare quella conversazione piena di parole e vuota di pensieri e di sentimenti, che formava e forma l'allettamento delle brigate; chiedevano e davano le notizie del paese, discorrevano della Corte dei Gonzaga, chi lodandola, chi tassandola: della maestria e de' bei colpi dei nostri giostratori, ai quali, per quanto avessero fresca la memoria de la libertà, pure dava superbia un sorriso, un'approvazione del principe. A lui facevano particolarmente omaggio i messi delle varie Corti de' tirannelli di Lombardia; e quello di Mantova singolarmente esaltava la cortesia e la bravura di Bruzio e di Franciscòlo Pusterla.

Il lodare quest'ultimo sarà parso una sinistraggine ai cortigiani consumati, che sapevano come poco egli andasse a sangue a Luchino; ma qual dovette essere la loro meraviglia, allorchè, su questo discorso, Luchino, avviatosi verso il Pusterla, più cortese che con loro non solesse, gli dirizzò la parola, ripetè le lodi dategli or ora dal Mantovano, e le molte che già soleva dargli Azone; e insinuatosi col genere di encomj che più lusinga, quelli che sono riferiti d'altrui bocca, entrò a ragionare con esso come con persona di cui facesse gran caso. E poichè n'ebbe con fina arte palpeggiate le passioni, in tono di confidenza gli soggiunse:—Franciscòlo, l'amicizia che in condizione privata ci legava, non l'ho dimenticata, siatene certo, nè aspettavo che l'occasione di farvene chiaro. Ora Mastino Scaligero, vedendo non potermi sopportare nemico, implora l'amicizia nostra. Una pratica sì delicata non conoscerei a chi meglio affidarla che a voi, saputo al pari nelle cose della pace e della guerra, ben voluto da quel potente, e capace di sostenere il decoro milanese in faccia ai forestieri. Innanzi che il mese finisca, vorrete dunque recarvi ad esso a Verona con nostre credenziali, che abbiamo ordinato di spacciarvi».

L'animo del Pusterla, esacerbato contro di Luchino non tanto per la servitù cui aveva ridotto la patria, quanto per la trascuranza che di lui mostrava, e per trovarsi ridotto ad una nullità di rappresentanze e d'azione, che a lui pareva, non che indecorosa, infame, in un baleno si mutò a questo primo segno di favore, al vedersi oggetto di invidia fra' cortigiani, cui forse testè era di sprezzo; ebbe dimenticato gli antichi oltraggi, dimenticato i propositi di solitudine e di ritiro, dimenticato il geloso sospetto che gli avevano desto i procaci sguardi di Luchino sopra la moglie sua; nè tampoco gli nacque dubbio che questo incarico fosse un'astuzia per rimoverlo e disonorarlo; e ringraziò il principe, accettando con riconoscenza. Tanto accieca l'ambizione!

E più lieto e baldanzoso tornò al suo palazzo, dove gli amici si erano raccolti per festeggiarlo. Alla Margherita, che gli correva incontro col figlioletto, appena rese l'abbraccio, ed esclamando,—Buone nuove», le raccontò la missione. Se ne congratulavano alcuni; ma quell'Alpinòlo che conosciamo, scosse il capo, esclamando:—Dalla vipera può venir altro che veleno?» La Margherita poi impallidì e mostrando con un gesto eloquentissimo il loro Venturino,

—Oggi appena (diceva al marito) tu ritorni, e già vuoi abbandonarci? V'è luogo migliore nella propria casa, compagnia più dolce che quella dei suoi domestici, missione più onorevole che quella di beare chi ci vuol bene?»

Francesco le stringeva la mano amorevolmente, levavasi in collo il bambino, e si mostrava intenerito: ma quello spontaneo moto di natura rimaneva ben tosto compresso dal desiderio di figurare, dall'abito di cercare la felicità fuori di sè. Anche il frate, allorchè l'amico gliene portò la notizia nel convento di Brera, con ogni modo si adoprò per distoglierlo da quell'andata. La cella solinga e meditativa dov'esso abitava, pareva accordarsi alle ragioni ch'egli addusse onde persuadere Franciscòlo a togliersi giù dalle pubbliche brighe quando non poteano essere che scompagnate dal decoro e dal sentimento di un nobile dovere. Anzi, dopo che frà Buonvicino vide l'amico sordo a tutti gli altri argomenti, quasi per ricordargli le osservazioni di jeri, e per tentar quello che a lui pareva il più robusto, gli chiese:—E Margherita?»

Pensò un tratto il Pusterla, poi rialzando il capo come un ostinato che pur voglia mostrare d'aver ragione, rispose:—La Margherita è un angelo.»

Il frate lo sentiva, e sentiva in conseguenza quanto disdicesse l'abbandonarla: pure non osò insistere su quel punto per non mettere a repentaglio la domestica tranquillità di Franciscòlo.

Ma chi era il frate, e perchè tanta parte prendeva alla sorte di questa famiglia?

Margherita Pusterla: Racconto storico

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