Читать книгу La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке - Данте Алигьери, John Hurt - Страница 26

Inferno
Canto XXIV

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In quella parte del giovanetto anno

che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra

e già le notti al mezzo dì sen vanno,

4 quando la brina in su la terra assempra

l’imagine di sua sorella bianca,

ma poco dura a la sua penna tempra,

7 lo villanello a cui la roba manca,

si leva, e guarda, e vede la campagna

biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,

10 ritorna in casa, e qua e là si lagna,

come ’l tapin che non sa che si faccia;

poi riede, e la speranza ringavagna,

13 veggendo ’l mondo aver cangiata faccia

in poco d’ora, e prende suo vincastro

e fuor le pecorelle a pascer caccia.

16 Così mi fece sbigottir lo mastro

quand’ io li vidi sì turbar la fronte,

e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;

19 ché, come noi venimmo al guasto ponte,

lo duca a me si volse con quel piglio

dolce ch’io vidi prima a piè del monte.

22 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio

eletto seco riguardando prima

ben la ruina, e diedemi di piglio.

25 E come quei ch’adopera ed estima,

che sempre par che ’nnanzi si proveggia,

così, levando me sù ver’ la cima

28 d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia

dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;

ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».

31 Non era via da vestito di cappa,

ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,

potavam sù montar di chiappa in chiappa.

34 E se non fosse che da quel precinto

più che da l’altro era la costa corta,

non so di lui, ma io sarei ben vinto.

37 Ma perché Malebolge inver’ la porta

del bassissimo pozzo tutta pende,

lo sito di ciascuna valle porta

40 che l’una costa surge e l’altra scende;

noi pur venimmo al fine in su la punta

onde l’ultima pietra si scoscende.

43 La lena m’era del polmon sì munta

quand’ io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,

anzi m’assisi ne la prima giunta.

46 «Omai convien che tu così ti spoltre»,

disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,

in fama non si vien, né sotto coltre;

49 sanza la qual chi sua vita consuma,

cotal vestigio in terra di sé lascia,

qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

52 E però leva sù; vinci l’ambascia

con l’animo che vince ogne battaglia,

se col suo grave corpo non s’accascia.

55 Più lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito.

Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».

58 Leva’mi allor, mostrandomi fornito

meglio di lena ch’i’ non mi sentia,

e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».

61 Su per lo scoglio prendemmo la via,

ch’era ronchioso, stretto e malagevole,

ed erto più assai che quel di pria.

64 Parlando andava per non parer fievole;

onde una voce uscì de l’altro fosso,

a parole formar disconvenevole.

67 Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso

fossi de l’arco già che varca quivi;

ma chi parlava ad ire parea mosso.

70 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi

non poteano ire al fondo per lo scuro;

per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi

73 da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;

ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,

così giù veggio e neente affiguro».

76 «Altra risposta», disse, «non ti rendo

se non lo far; ché la dimanda onesta

si de’ seguir con l’opera tacendo».

79 Noi discendemmo il ponte da la testa

dove s’aggiugne con l’ottava ripa,

e poi mi fu la bolgia manifesta:

82 e vidivi entro terribile stipa

di serpenti, e di sì diversa mena

che la memoria il sangue ancor mi scipa.

85 Più non si vanti Libia con sua rena;

ché se chelidri, iaculi e faree

produce, e cencri con anfisibena,

88 né tante pestilenzie né sì ree

mostrò già mai con tutta l’Etiopia

né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

91 Tra questa cruda e tristissima copia

correan genti nude e spaventate,

sanza sperar pertugio o elitropia:

94 con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda

e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

97 Ed ecco a un ch’era da nostra proda,

s’avventò un serpente che ’l trafisse

là dove ’l collo a le spalle s’annoda.

100 Né O sì tosto mai né I si scrisse,

com’ el s’accese e arse, e cener tutto

convenne che cascando divenisse;

103 e poi che fu a terra sì distrutto,

la polver si raccolse per sé stessa

e ’n quel medesmo ritornò di butto.

106 Così per li gran savi si confessa

che la fenice more e poi rinasce,

quando al cinquecentesimo anno appressa;

109 erba né biado in sua vita non pasce,

ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,

e nardo e mirra son l’ultime fasce.

112 E qual è quel che cade, e non sa como,

per forza di demon ch’a terra il tira,

o d’altra oppilazion che lega l’omo,

115 quando si leva, che ’ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

118 tal era ’l peccator levato poscia.

Oh potenza di Dio, quant’ è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!

121 Lo duca il domandò poi chi ello era;

per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,

poco tempo è, in questa gola fiera.

124 Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

127 E io al duca: «Dilli che non mucci,

e domanda che colpa qua giù ’l pinse;

ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».

130 E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,

ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,

e di trista vergogna si dipinse;

133 poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto

ne la miseria dove tu mi vedi,

che quando fui de l’altra vita tolto.

136 Io non posso negar quel che tu chiedi;

in giù son messo tanto perch’ io fui

ladro a la sagrestia d’i belli arredi,

139 e falsamente già fu apposto altrui.

Ma perché di tal vista tu non godi,

se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

142 apri li orecchi al mio annunzio, e odi.

Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;

poi Fiorenza rinova gente e modi.

145 Tragge Marte vapor di Val di Magra

ch’è di torbidi nuvoli involuto;

e con tempesta impetuosa e agra

148 sovra Campo Picen fia combattuto;

ond’ ei repente spezzerà la nebbia,

sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

151 E detto l’ho perché doler ti debbia!».


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