Читать книгу Al rombo del cannone - Federico De Roberto - Страница 10

I.

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Dice la cronaca scandalosa, e rammenta anche il Welschinger nella prefazione ai due grossi volumi, che la Regina di Napoli aveva accordato al Gallo, oltre l'amicizia, qualche altra cosa; ma chi pensasse di trovarne qui le prove resterebbe disingannato. Non c'è una sola parola che attesti l'intima natura dei rapporti della sovrana col vassallo; Maria Carolina si firma maîtresse, cioè padrona, non già amante del suo ambasciatore e ministro, e gli tiene bensì il linguaggio della massima confidenza, gli parla «a cuore aperto», lo mette a parte di tutti gli avvenimenti del regno e di tutta la cronaca della reggia, gli scrive in cifra e col succo di limone cose che divulgate le recherebbero molto pregiudizio e gli raccomanda perciò di bruciare queste sue lettere; gli professa anche un'amicizia «eterna», una stima «eterna» altrettanto; lo giudica amico «perfetto», spera di vivere ancora vicino a lui e di finire i proprii giorni accanto al «vecchio amico» a cui dice addio «sino alla tomba»; ma tutte queste, ed altre espressioni similmente ampollose ed enfatiche come vuole il temperamento della scrittrice, non mettono nessun sapore di romanzo nel succoso epistolario. C'è qua e là qualche nota salace: la Regina parla al ministro del male che le fanno le emorroidi e delle operazioni a cui è stata sottoposta per una fistola; gli manda anche la relazione dei medici accompagnata da disegni che ella stessa qualifica «molto indecenti»; ma questa mancanza di pudore potrebbe dimostrare non tanto l'abbandono dell'amante quanto l'ottusità e l'idiozia morale della donna. Si legga in quali termini ella parla della sensualità della nuora e della frigidità del genero, e il dubbio riescirà anche più legittimo.

La donna, appunto, è quella che noi cerchiamo nella Regina, e poche altre sovrane dimenticarono tanto la corona e lo scettro nel rivelare il proprio pensiero quanto Maria Carolina componendo queste sue lettere. Si dice che Napoleone Bonaparte la definisse: «il solo uomo delle Due Sicilie», e il giudizio potrebbe essere appropriato, considerando che razza d'uomo fu il Re suo marito e quali persone lo circondarono dopo l'allontanamento di Bernardo Tanucci; ma la virilità di Maria Carolina resta ancora da dimostrare, e in queste pagine, se mai, ne troviamo prove negative del tutto.

Ella adopera una violenza, una virulenza di linguaggio che non è, come pare, espressione di forza. Un odio profondo, istintivo, tenace, la infiamma contro la Francia democratica che ha rovesciato la monarchia nazionale e minaccia le straniere, che le ha ucciso il cognato e la sorella. I segni verbali di questo sentimento cieco e inestinguibile si moltiplicano sotto la sua penna: i Francesi sono «birbanti, briganti, miserabili, scellerati, maledetti, canaglie, pazzi, forsennati, pirati, assassini, vandali, tigri, mostri»; il suo augurio è che quella «infame nazione sia tagliata a pezzi, annichilita, disonorata, ridotta a nulla per almeno cinquant'anni»; ella non vede altro rimedio che armarsi in massa contro di lei, «col crocifisso in mano» — l'espressione è del 1793, e il cardinale Ruffo se ne rammenterà sei anni dopo in Calabria — nè giudica che vi possa esser salvezza per il mondo se Parigi non sarà «rasa al suolo»; la sua ultima speranza è riposta in 50 mila Turchi che «saccheggino ogni cosa» — solo i Turchi sono, a suo giudizio, «franchi e leali» — oppure in 20 mila Albanesi ai quali direbbe: «Amici miei, saccheggiate, mangiate, rovinate....»; ma, con tanta sete di vendetta, ella è tutt'altro che sorda ai consigli della moderazione quando giunge il momento di agire, e se lavora a cementare la coalizione dei potentati contro la «scelleraggine francese», ordina all'ambasciatore di tener nascosto questo maneggio, perchè non vuol essere «compromessa», e se i detestati Francesi appariscono nelle acque di Napoli per imporsi alla città ed al regno, ella non tenta di opporsi, di far valere comunque la qualunque sua forza; al contrario: si piega, e piegandosi, vantandosi «onesta nel cuore», dichiara che aspetta di cogliere la prima occasione per mostrare il vero suo animo....

Questa potrebb'essere prudenza, e non sarebbe perciò da confondere con la viltà, tanto più che verrà la volta quando la Regina sarà temeraria e spingerà la monarchia alla rovina; ma nella mancanza di misura, precisamente, nel procedere così per pavide sottomissioni ed aggressioni spavalde, si rivela la mancanza di forza vera, di energia schietta e durevole, di resistente e indomabile coraggio. «Paura, paura e ancora paura», scrive nel giugno del 1794; «è orribile a dirsi, ma vero». Di questa paura che addebita ai circostanti, ella stessa è partecipe. Quando afferma: «Se dobbiamo perire, bisogna che ciò avvenga per disgrazia, e non per mancanza di energia e di coraggio»; quando dice che ha deciso di contendere il regno a palmo a palmo, di ritirarsi da Gaeta a Capua, a Napoli, a Salerno, a Cosenza, a Calanzaro, a Reggio, a Messina, a Palermo, ad Augusta, e che, sopraffatta in questo estremo rifugio, getterà con le proprie mani i suoi sette figli in mare e si precipiterà da ultimo dietro di loro, le parole sono belle, ma i fatti non le confermano. Nella sconfitta si smarrisce, si avvilisce, si prostra: dopo la pace del 1796 dichiara che le grandezze non le importano più, che ha perduto tutte le sue illusioni, che vede le cose «con gli occhi della verità», che aspetta di finire i suoi giorni «non solo senza pena, ma con una specie di godimento», e protesta e giura che non intende più «impacciarsi di nulla»: parole, parole, e ancora parole: appena stima giunto il momento della rivincita, fa il colpo di testa del 1798 — salvo, dopo la catastrofe, a gemere, a lagrimare, a dichiarare che la sua «scena è finita», che non chiede altro se non di ridursi a Linz, a Graz od a Presburgo, «sia pure in Valacchia», dove si contenterà di «pane e cipolle», maledicendo il «falso eroismo» che l'ha spinta alla perdizione: ancora parole, ancora menzogne; perchè, insieme con queste espressioni del pentimento, si alternano quelle del furore impotente, dell'odio impenitente, del delirio isterico: vengano, esclama, gli stranieri: «quali che siano, le forze potrebbero scendere in Puglia, sciabolare, avanzarsi. Non potranno far male se non ai possidenti: la terra già non potranno distruggerla». Ma se anche la terra potesse andarne distrutta, ella non esiterebbe a dar l'ordine: «la stessa peste è meno temibile che la Repubblica stabilita ed afforzata in Napoli.... Un massacro generale non mi farebbe la minima pena.... Ve ne prego, in nome del Re e mio: se mai gli Austriaci o i Russi scendessero dalla parte di Roma a Napoli, niente accordo, niente convenzione, niente tregua, niente perdono....» E queste, ora, non sono più sole parole: queste espressioni della ferocia, sì, ricevono piena conferma dagli atti, quando la capitolazione dei Repubblicani, offerta e sottoscritta dal luogotenente del Re, firmata e garantita dai rappresentanti di tre grandi potenze europee, sarà da lei lacerata e la «scellerata Repubblica tricolore» andrà per suo ordine sommersa nel sangue....

Ma ella non crede d'aver commesso nulla di male; se mai, soffre «mortalmente» delle violenze e della severità: il suo cuore «ne geme». Prima ancora di lordarsi le mani, dichiara preferibile «esser vittima, piuttosto che farne»; dopo l'immane tragedia, continua a protestare che la sua «morale» le consiglia di anteporre «l'esser vittima allo scatenare un flagello», e che sarebbe farle gran torto giudicarla «arrabbiata energumena». Non crede possibile la salvezza, ha detto, se non «con la forca e il carnefice a fianco e le orecchie turate, col cuore indurito e le leggi stracciate»; e quando ha eseguito puntualmente il programma, vanta la propria «purezza», esalta la propria «bontà», si duole che «la bontà non è la virtù occorrente alla conservazione dei troni», benedice Dio d'averla fatta giungere alla fine della carriera, perchè altrimenti si sarebbe «guastata», sarebbe divenuta «despota» e «scellerata....» Lei ed i suoi sono «gente onesta: questo e certissimo»; gente che non comprende nè ammette «se non i procedimenti della politica onesta e retta dei buoni tempi antichi»: lo dichiara nel 1803 al marchese di Gallo dandogli «parola d'onore», la sua parola «sacra», che resterà neutrale se la Francia le accorderà la pace — salvo a chiamare, di nascosto, i Russi e gl'Inglesi; salvo a porre il suo ambasciatore e confidente nella necessità di dimettersi quando vedrà che la Regina gli ha giurato il falso. Ella che prende il servitore ed amico a testimonio della propria lealtà, non sa che costui bollerà un giorno la «leggerezza» e l'«inconseguenza» di lei: eufemismi ai quali il diplomatico e suddito ricorre per non poter dire «tradimento» e «viltà».

Al rombo del cannone

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