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I.

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Ruggero di Damas, discendente da una famiglia di prodi, ebbe da fanciullo una straordinaria vocazione per il mestiere dei suoi maggiori, «il più bel mestiere del mondo», ed entrò giovanetto nel Reggimento del Re; ma, per la pace che allora regnava nella sua patria, non potendo altrimenti sfogare l'umor bellicoso se non nei duelli, una bella mattina, letto un giornale che dava notizie della guerra combattuta in quell'anno 1787 tra Russi e Turchi, restò «asfissiato» dalla lettura, e senza porre tempo in mezzo, senza chieder licenza nè a parenti nè a superiori, partì per la Russia con pochi denari ottenuti in prestito e andò ad offrire la sua spada al principe Potemkine. Fu accettato, ed ebbe anche la fortuna d'incontrarsi col principe di Ligne, che conosceva da Parigi e che si trovava presso i Moscoviti come rappresentante dell'esercito austriaco loro alleato. Il volontario ed il generale si misero a studiare insieme la lingua russa, «ritenendo le parole baionetta e vittoria prima che pane e vino», e la vittoria ben presto rimeritò il suo ardentissimo alunno, in un combattimento più navale che terrestre contro il vascello ammiraglio ottomano ancorato sulla foce del Dnieper: la nave fu presa d'assalto dalle scialuppe comandate dal Damas, che ebbe in premio la croce di San Giorgio ed una spada d'oro da Caterina II. Ferito più volte, promosso al comando di reggimenti di cavalleria e di fanteria — aveva soli 23 anni — distintosi negli assedii e nelle espugnazioni, segnatamente ad Ismail, dove si guadagnò una commenda, l'ardito colonnello dimenticò quella guerra per le notizie d'un'altra, non solamente più grossa, ma più importante agli occhi ed all'anima di un Francese: la guerra originata dalla Rivoluzione.

Bisogna dir subito che, nato e cresciuto nella devozione al suo Re, offeso nelle opinioni, negli affetti e negli interessi dalle persecuzioni alle quali fu fatta segno la sua famiglia, Ruggero di Damas non corse alla frontiera di Francia per combattere con gli eserciti repubblicani contro lo straniero, bensì per combatterli nell'Armée royale, nell'esercito di emigrati capitanato dal Condé e alleato degli stranieri. Non fu dunque, questa volta, la bella guerra: fu la guerra civile, con tutti i suoi orrori — dei quali egli stesso ebbe piena coscienza, se chiamò «strazianti» le cause e i ricordi di quegli avvenimenti, se nessun godimento potè mai provare «che non fosse formato dalle memorie o dalla speranza della Francia, che non provenisse da lei od a lei non mi riportasse», se dichiarò che la sua mano si sarebbe irrigidita prima di dare a stranieri il consiglio di entrare in Francia «senza la certezza che aspirino soltanto ad una pace solida e che nessuna idea di conquista li governi», e se, cercando ovunque una nuova patria e non trovandola in nessun luogo, credendo di poter fuggire la lava dilagante dal vulcano francese via per il mondo, e sentendosi sempre raggiunto da quella, pensò e scrisse un giorno: «I piedi mi bruciano ovunque mi fermo; presto non mi resterà altro rifugio che nel cratere di Francia...».

Il militare di professione, del resto, non poteva non ammirare l'impeto straordinario e gli sforzi sovrumani dei generali della Repubblica, «l'ardore che conduce alla conquista del mondo»; e se, da legittimista convinto e inconvertibile, egli condannò in Napoleone l'usurpatore del trono di San Luigi, fu compreso anche di tanta meraviglia per le grandi cose compite dal capitano immortale, da esclamare con simpatica ingenuità: «Perchè non è egli Borbone!...»

Simpatica propriamente riesce la figura di questo singolarissimo campione della causa dei Re, il quale non si lascia intanto accecare dalla fede monarchica, ma critica lo stesso Re suo, pure servendolo, e, pur combattendo la Repubblica, domanda a sè stesso, considerata la nullità dei monarchi del suo tempo: «Perchè mai l'Europa dipende da cotesta genie? I regnanti attuali disgusterebbero per tutta la vita del principio monarchico!...» Con parola più mordace, attribuendo la fortuna politica del Bonaparte alla deficienza degli altri sovrani, dichiara che allora crederà al tramonto dell'astro napoleonico quando i troni saranno resi vacanti «da una epizoozia di tutte le famiglie regnanti....» È vero, tuttavia, che il mestiere del Re «dev'essere divenuto molto duro, se un Luigi Bonaparte se ne stanca e lo smette...»

Sebbene partigiano, Ruggero di Damas non ha peli sulla lingua. Il famoso manifesto del Brunswick, donde prende le mosse la reazione sulla quale egli fonda tutte le sue speranze, è da lui severamente criticato; e battendosi insieme col duca e con gli Austriaci durante la campagna di Francia che dagli effimeri successi di Longwy e di Verdun finisce a Valmy con la ritirata e la rotta, non risparmia i biasimi alla strategia del comandante supremo; e lodando l'esercito prussiano dove è da lodare, denunzia la barbarie di cui esso si macchia. «Come difendersi da un sentimento di pena e di terrore, vedendo cotesto esercito celebrare il suo primo passo nel territorio francese con la più arbitraria devastazione?...» Un colonnello è cancellato dai ruoli e due soldati sono impiccati per dare un esempio; «ma io non potevo supporre allora che, ad impedire il disordine, sarebbe stato necessario impiccare tutto l'esercito....»

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