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CAPITOLO QUARTO LA INCORONAZIONE
ОглавлениеGiunta l'aquila al nido ond'ella uscio,
Possiate dir, vinta la terra e l'onde:
Signor, quant'il Sol vede è vostro e mio.
Annibal Caro, Sonetto a Carlo V.
Voi lo vedete! I potenti della terra si cingono una corona di punte per avvertire i popoli ch'eglino intendono lacerare e ferire. Alcuni di loro, non so bene se io mi dica meno perfidi o più cauti, cuoprirono ipocritamente queste punte: chi con perle, come i conti; chi con gigli, come i re; chi con fronde di alloro, come gl'imperatori; ed altri con altro. Però badate, per andare coperte, le punte non cambiano natura; la tigre ha facoltà di rendere la sua branca gentile quanto la mano della vergine. Ma se un giorno le punte, volgendosi nella testa di quale cinge corona, restituissero a costoro il male che fecero altrui, se condizione di chi anela portarla fosse averne le punte confitte nel cranio; credete voi che si troverebbe per uno il quale volesse sostenere la corona appartenergli per diritto divino? E non pertanto, se a siffatti martirii non fossero serbati dalla eterna giustizia i tormentatori dei popoli, gli uomini lancerebbero contro il firmamento tale un grido che farebbe impallidire le stelle, tremare gli angioli nei loro sogli dorati, sospendere la ineffabile armonia delle sfere... gli uomini urlerebbero: — Il Creatore è tiranno!
Io per me penso esistere nel mondo enti di così strana natura i quali invidiano il trono a Lucifero, quantunque di fuoco, i quali con animo lieto stringerebbero a scettro anche uno stinco della propria madre; e perchè no? Fu ambito il regno dove i principi si cingevano le tempie con la corona di spine, e i discendenti di Goffredo Buglione non abbandonarono Gerusalemme se prima non vennero cacciati dalla lancia ottomana.
Corona di ferro! poichè, a guisa di Olla ed Oliba, le infami meretrici vedute dal profeta Ezechiello[76], ti lasciasti stuprare da contatto straniero, possi un giorno, priva di gemme sozza di fango, essere adattata per collare al collo di uno schiavo! — Tu sei stata infedele ai capi italiani, tu hai volato di capo in capo, come femmina rotta alla libidine insanisce negli abbracciamenti vituperosi; tu ti sei data a chi ti ha voluto prendere... Però, quando i popoli italiani risorgeranno alla vita di gloria, nessuno vorrà del tuo ferro per fabbricarsene un pugnale, tutti rifiuteranno il tuo oro per comporsene l'elsa della spada.
Ah sacerdoti! — E voi che la prometteste allo straniero, e voi che faceste innanzi all'occhio di lui coruscare il lume delle sue gemme come un sorriso di donna lusinghiera, e voi che gliela poneste sul capo nel modo che altri spingerebbe la femmina comprata nel talamo lascivo... come vi chiamerete voi? La mia favella ha un nome per voi, ma le labbra non osano profferire l'oltraggio che avete le mille volte meritato.
Da Desiderio perduta, voi la donaste a Carlomagno francese, poi agli Ottoni alemanni, poi a Bavari, poi a casa Lucemburgo, poi a casa Hohenstauffen; quindi la profferiste agl'Inglesi, di nuovo a Francesi, poi a casa di Habsburg; poco prima se la contesero Francesco di Francia e Carlo di Spagna: — Federico di Sassonia la ricusò[77], e tu adesso aneli, o Carlo di Gand, un diadema che altri raccolse un momento e subito dopo gittò via come cosa indegna di occupare il suo pensiero. Egli ebbe dai posteri il nome di sapiente, — per te quello di stolto è troppo poco.
E la stella della tua casa ricambiò con le gemme di cotesta corona un saluto di luce per un tempo assai lungo; poi la fortuna stese la mano e disse: Basta.
Comparve nel cielo un'altra stella che vinse la tua; venne sulla terra un Fatale destinato a far l'ultima prova se la tirannide potesse durare tra gli uomini splendida di gloria e di potenza, con l'ale del genio incerate alle spalle; — la tirannide di Napoleone: — i popoli hanno diruta la terra dagli artigli della sua aquila vittoriosa; quale altra tirannide può adesso aver vita nel mondo? Se il leone non ha potuto regnare, domineranno i lupi? Egli cacciò le mani nelle chiome agli antichi tiranni e tolse a un punto il sonno dagli occhi e la corona dalle teste di loro. — Oh! com'è miserabile cosa un re senza corona! lo sarebbe meno senza senno: — in questo modo moverebbe la nostra compassione, — in quell'altro eccita il nostro riso: egli tolse loro le corone e le gettò dai balconi della sua reggia ai parenti, ai compagni della sua fortuna, in quella guisa che un cavaliere novello sparge pugni di monete alla plebe in segno di larghezza.
Te poi, o corona di ferro, non volle donare il Fatale, e chiamò il sacerdote a imporgliela sul capo. Il sacerdote si mosse a dargliela, imperciocchè egli potesse prendersela: ma quando si accostò all'altare, e il sacerdote incominciò le sue preghiere, egli impaziente vi stese le mani poderose e da sè stesso se ne cinse le tempie; allora il sacerdozio ebbe uno sfregio nella faccia il quale ormai non varranno a coprire nè benda di tiara, nè lembo di manto pontificio, sfregio che sembra una sentenza di morte incisa con ferro rovente sopra la carne: e tu saresti già morto, o sacerdozio, se alzando un grido di terrore altri non veniva a soccorrerti. Qual soccorso però! Per impedire la tua caduta, essi ti hanno posto ai fianchi due lancie per puntelli. — Ora che cosa hai tu fatto? Ti sei procurato una lunga e dolorosa agonia; tu hai voluto funestare le genti con lo spettacolo schifoso della tua decrepitezza.
Ma se il sacerdote, quando il Guerriero fatale oltraggiò l'altare, avesse avuto il convincimento del sublime suo ufficio; dove bene avesse sentito sè essere vicario di Dio in questa terra, gli avrebbe rivolta la corona rapita e, la rompendo sopra i gradini dell'altare, avrebbe detto: — ecco io la spezzo, perchè tu la cingi alla tirannide dei popoli; — umiliati, pugno di polvere, davanti al Dio che cancella le intere generazioni col cenno del sopracciglio che solleva alitando un turbine di mondi; — e dov'egli ti avesse resistito, tu avresti levata al cielo la destra, e Dio l'avrebbe armata de' suoi fulmini.
Adesso il cielo la ridonò alla tua casa, Carlo di Gand, — ma per quanto? — Poichè nel libro del destino non è concesso penetrare come nel libro della speranza, io abbandono il presente e il futuro, e ritorno nel tempo passato.
Già ve l'ho detto: un giorno si apparecchia negli anni che Carlo vorrà liberarsi il capo da cotesto dolore di corona; — ora l'anelito dell'amante che per la prima volta aspetta la faccia desiata della sua donna è troppo poca passione per paragonarla a quella che agita Carlo.
Contemplatelo nella sala del suo palazzo: corre più che non cammina da un lato all'altro, facendo sibilare per l'aria violentemente commossa la veste grave di oro tessuto e di gemme; talvolta si ferma davanti uno specchio di argento, e la mano ponendo sopra le chiome sospira: «Oh! quanto mi tarda averle coronate... Ferdinando mi aspetta; Lutero e Maometto minacciano la mia stella...» E all'improvviso volgendosi verso un cavaliere il quale presso al balcone con un telescopio alla mano pareva speculasse il firmamento, gridava: «Or dunque, Cornelio, il tempo buono viene o non viene?»
«Divo Cesare, non è venuto.»
E Carlo riprendeva a passeggiare agitato e mormorava: «Che questo sia il giorno più fausto della mia vita non può revocarsi in dubbio: in questo nacqui... in questo vinsi a Pavia... in questo prenderò la corona reale e imperiale[78]. Apostolo san Matteo, tra tutti i santi del paradiso un buon consiglio concepisti davvero quando prendesti a proteggere l'augusta mia vita... Tosto ch'io abbia danari, ti farò cesellare un altare e sei candelabri d'oro...» E così continuava.
Cornelio Enrico Agrippa esercitava presso di Carlo l'ufficio di astrologo ed era anco medico e giureconsulto in utroque iure, facoltà le quali possono, anzi dovrebbero, andare unite insieme; ed egli ora lo aveva caro, ora lo rampognava e scherniva: ma l'astrologo, il quale troppo bene sapeva prendere il destro, nei giorni di favore gli estorceva in sì gran copia dignità e danari da consolarsi negli altri dell'oblio; e i modi di lui verso il suo reale padrone sentivano a un punto dello schiavo e del tiranno: se ruggiva il leone, ed egli blando, di parole carezzevoli, curvo col dorso; se invece esitava, ed egli superbo, rigido di persona, con la voce tonante. Non vestiva già zimarra bruna, nè intorno ai fianchi stringeva una cintura rabescata con i segni dello zodiaco, squallida la barba, in capelli scomposti, come gli altri suoi fratelli: al contrario, abbigliate le membra di bei drappi di seta alla foggia di Spagna, col collarino bianchissimo, arme e croce da cavaliere; a vedersi leggiadro. L'età sua o giungeva appena ai quarant'anni, o di poco li passava; di sembianze argute, di colore ulivigno, i capelli lucidi e neri, gli occhi più neri e del continuo agitati, le labbra tumide e accese, tremanti in perpetuo sorriso, il quale di leggieri si convertiva in sghignazzio, ed allora gli si scoprivano i denti e gran parte delle gengive, — siccome avviene a tutti gli animali che appartengono alla specie delle scimmie, quando loro accada di schiudere la bocca.
Tale fu Cornelio Agrippa; e, di natura maligno, si compiaceva adesso di fare scontare a Carlo con le torture dell'ambizione il disprezzo di cui lo avviliva sovente. Appena nell'inquieto suo moto l'imperatore gli volta le spalle, egli staccando l'occhio dal telescopio guarda dietro il divo Cesare e crollando il capo dice:
«Povera creta!»
«Cornelio, fa che si operi presto la congiunzione dei pianeti», proruppe Carlo percotendo dei piedi il pavimento.
«Sacra Maestà, io contemplo, non muovo le sfere. Però l'ora si avvicina: i miei occhi sono abbagliati dall'osservare lo splendore della vostra stella; io non ne posso più sull'anima del mio cane figliuolo[79].»
«Non bestemmiare, marrano, o io ti consegno mani e piedi legati al papa nostro signore.... Perchè deponi il telescopio? Vien' qua, non temere, mio buon Cornelio; torna a guardare.... esamina bene... nota la congiunzione, la casa e il sembiante dei pianeti...»
«O Zoroastro glorioso!» rispose l'Agrippa lasciandosi andare sopra una sedia a braccia aperte, «oh come ho io a fare? Voi mi volete cieco ad ogni modo.»
«Cavaliere Agrippa, accettate di presente questi cento ducati per comperarvi del taffetà verde da asciugarvi gli occhi, — fin qui noi siamo imperatore eletto soltanto; domani, diventati imperatore consacrato, avrete dono imperiale.»
«Meglio è perdere la luce nel contemplare la vostra stella che acquistarla nel guardarne alcun'altra... Io mi ripongo all'opera.»
«Cornelio, dimmi, ma dov'è questa stella che tu affermi mia? Io ci credo senza averla mai veduta...»
«E che importa vedere per aver fede? Dio vedeste voi mai?»
«Non lo vidi, sibbene lo sento.»
«E gl'influssi della stella non sentite voi? Chi vi fece eleggere imperatore dei Romani a preferenza del Cristianissimo? Chi rese le armi vostre fortunate? Chi vi mena davanti a un pontefice umiliato?»
«Ma mostrami la stella: io voglio vederla...»
«Accostatevi, Maestà, guardate dietro la direzione del mio indice, sopra la croce del campanile di San Francesco; alzate gli occhi, piegateli a destra in quella plaga del cielo...»
«Non vedo... non vedo nulla.»
«Aguzzate lo sguardo.... tendete, stringete forte le ciglia.... colà.... la vedete voi?»
«Ahimè!» esclamò Carlo con ambo le mani cuoprendosi gli occhi, «io vedo... ho sentito il dolore di mille spade che mi pungessero le pupille, — un milione di atomi luminosi, una vertigine di fuoco....»
«Or dunque pensate, se io possa o no sostenere il lume della vostra stella....»
«Non importa... guarda... non istancarti di contemplare; io ti darò una duchea... un principato... ma guarda.» E tuttavia le mani soprapponendo agli occhi tornò a camminare di su e di giù per l'aula reale.
«Cornelio Agrippa, fissandolo dietro e con quelle sue labbra aperte malignamente sorridendo, mormorò: «Vedi, ve' che teste da portar corona! Un'accensione di sangue cagionata dallo sforzo degli organi visivi egli scambiava in splendore di stelle.... ah!»
«Agrippa!» esclama Carlo, calmata che fu la doglia delle sue pupille, «io voglio anche una volta veder la mia stella. — Additamela; io voglio...»
«Silenzio! Ecco, la mirifica congiunzione succede; — adesso si opera il portento dei cieli; il cielo della stella austriaca è compito: dapprima lambiva rasentando Saturno... apportatore, per essere frigido e uliginoso, d'infermità corporee, come chiragra, podagra ed idropisia...»
Qui Carlo trasse un gemito, perocchè una crudele podagra spesso lo tormentasse e gli facesse risovvenire che apparteneva anch'egli alla terra.
«Possano i re non avere mai col mondo vincolo meno doloroso di questo», diceva in cuor suo l'astrologo maligno; quindi a voce alta continuava: «e poco dopo si spiccò dal pianeta di Saturno, e a modo di ninfa che corre co' capelli sparsi lungo la riviera, trapassò gran parte di cielo spandendo lontano il fulgore de' suoi raggi; si fermò alquanto nella casa di Marte, il quale l'accolse nella guisa che si ricevono gli ospiti augusti; quinci si rimosse tendendo alla stella di Giove, l'aggiunse, si ricambiarono un bacio di luce; ed ecco quella parte del firmamento ormai apparirà più chiara agli occhi mortali pei due astri fratelli. — O Cesare augusto, divo, fortunatissimo, concedi ch'io primo mi prostri ai tuoi piedi. Dopo Dio chi più potente di te? Il mio cuore, come tazza di soverchio piena, non può contenere la sua gioia; i miei occhi sono costretti a piangere lagrime dolcissime di tenerezza...» E prostrato abbracciava le ginocchia di Carlo.
Stava per profferire più parole assai, quando Carlo, vinto dalla fumosità libera, prese ad esclamare:
«Sento l'influsso della mia stella. — Che in paradiso un apostolo avesse cura speciale della nostra sacra persona, cel sapevamo; — che nel cielo girassero pianeti a noi propizii, non ignoravamo; grandi cose abbiamo fatto, più grandi ne faremo in seguito. Conquistato che avremo il mondo, chi ci insegnerà la via di arrivare agli astri del firmamento?»
Cornelio Agrippa steso ai piedi di lui pensava: — Sta lieto, Carlo, con due dita di lama di Cordova tu potrai fare un assai lungo viaggio. —
«Quale indugio è mai questo? I miei momenti sono secoli per gli altri: ogni istante della imperiale nostra vita contiene il destino di cento generazioni. Che fa egli questo neghittoso di papa? s'egli non istà pronto ai nostri cenni, noi lo rimanderemo come un veterano invalido...» — E così favellando alzò i piedi per balzare, sicchè forte percosse con uno nella bocca all'Agrippa, e poi correndo ad afferrare un campanello lo agitò violentemente a più riprese.
Cornelio, sorgendo e con la mano tentandosi le labbra per vedere se lo avesse ferito, mormorava rabbioso: «Cane di Fiamingo, tu paghi le verità da re, — impiccando chi te le dice, — e le menzogne da sacerdote, con le promesse! Un giorno o l'altro, io faccio conto che tu abbia a inventare le indulgenze imperiali. Superbo e misero, io ti avrei lasciato e ti lascerò forse tra poco pel tuo emulo Francesco di Francia; un imbecille coronato al par di te, ma più prodigo di quello che rapisce ai suoi popoli: — trattanto io mi compiaccio di tormentarti... ho qui in tasca sei congiunzioni di stelle tutte funeste per te... per ora va' lieto a prendere la corona; per oggi il tuo demonio ti scioglie la catena: — ungiti del crisma; poi, unto o no, con la corona o senza, tu non sarai meno il trastullo dei miei ozii fantastici.»
Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Cap. IV, pag. 102.
Comparve alla subita chiamata il signore di Rodi, maggiordomo maggiore; il quale, semiaperta la porta, sporgeva il capo e parte del petto, non osando penetrare più oltre. Tosto che Carlo lo vide, lo interrogò dicendo:
«Sire di Croy, qual'ora è ella?»
«L'ora che piace a Vostra Maestà.»
«No, Adriano», rispose blando Carlo, lusingato da cotesta sconcia piaggeria; «il sole non tramonta mai nei nostri regni, ma egli si mantiene pur sempre il re delle ore: se gli illustrissimi cardinali vennero, come spero, a incontrarci, dite loro che noi gli aspettiamo...»
I cardinali Ridolfi o Salviati non istettero molto a presentarsi splendidi di cappe vermiglie; e tolto ambedue Carlo sotto le braccia, con molta solennità lo condussero all'aula reale del primo piano del palazzo.
Quivi, parte delle pareti atterrando, avevano praticato certa capace apertura dove metteva capo un ponte magnifico, ornato di alloro, di mirto e con fronde verdissime di ogni ragione, decoroso per fasciature d'oro e per le armi alternate dell'imperatore e del pontefice, il quale percorrendo meglio che duecento braccia di cammino conduceva al tempio di San Petronio insensibilmente digradando; a mezzo il ponte, parata di splendidi arazzi, illuminata da mille torchi, sorgeva una cappella dedicata alla Beata Vergine fra le Torri.
Uscendo dalla reggia per la indicata apertura, primo a toccare il ponte fu un drappello numerosissimo di giovanetti nobili, i quali e per la dovizia delle vesti e per la bellezza dei volti mettevano in tutti maraviglia e contento.
Succedevano ai giovanetti, gentiluomini e cavalieri di varii ordini equestri, ognuno vestito alla sua foggia e decorato delle varie insegne dell'ordine a cui apparteneva; poi venivano baroni, conti, marchesi, duchi, principi del sacro romano impero e i primari ufficiali della corte di Carlo. Poco dopo, singolare a vedersi, compariva una immensa caterva di araldi abbigliati con svariatissime assise, spediti per assistere alla solennità della incoronazione non pure dai regni di Aragona, Navarra, Napoli, Sicilia, Granata, dalla Borgogna, dalla Germania e da molte principali provincie e castelli appartenenti a Carlo, ma ed anche da re e principi stranieri, come di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Boemia, Austria, Savoia e altri infiniti. Passati questi, sopravvennero i maggiordomi della corte di Carlo portanti mazza di argento in segno della propria dignità; ai quali teneva dietro Adriano sire di Croy, signore di Rodi, maggiordomo maggiore, tenendo alzata la sua mazza di mole assai più grande delle altre. Immediatamente subentrano, coll'ordine che sarà per noi riferito, i principi cui incombeva l'ufficio di recare gli arnesi all'incoronamento necessarii. Primo di tutti l'illustrissimo principe Bonifacio Paleologo, marchese di Monferrato; egli veste una cappa di seta di color vermiglio, sovr'essa un manto di porpora; gran parte delle spalla e del petto gli cuopre una pelliccia di candidissimi armellini. Lasciamo senza descriverli i molti ornamenti d'oro e di gemme, che davano bagliore in chiunque li contemplava; ma non possiamo trattenerci dal rammemorare la corona marchesale, con ingegno meraviglioso lavorata, insigne per gemme d'inestimabile valore. Nella mano destra egli porta lo scettro d'oro. Viene secondo lo strenuissimo e magnificentissimo Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, non meno di gemme splendido e d'oro del Paleologo, che porta levato lo stocco imperiale d'infinita ricchezza; seguita terzo il valoroso principe Filippo dei duchi palatini del Reno e di Baviera, doviziosamente ornato della corona e della porpora ducali, il quale sostiene il mondo dorato. Finalmente succede il potentissimo Carlo, duca di Savoia, anch'egli vestito della porpora ducale e incoronato di una corona che fu pregiata meglio di cento mila ducati; a lui spettava portare con ambe le mani le due corone reale e imperiale. — Ecco Carlo: — la gioia soverchia lo tinge co' colori medesimi della paura; ha il volto pallido, le labbra pavonazze, gli occhi spenti: e' sembrava un condannato tratto a guastarsi. I cardinali diaconi, avvolti di ampio piviale, col capo coperto di mitria, gli stanno a' fianchi; il conte Enrico di Nassau gli sorregge dietro la coda del reale paludamento. Secondo l'ordine e prerogative loro seguono gli oratori di Francia, Inghilterra, Scozia, Portogallo, Ungheria, Boemia, Polonia, del duca di Ferrara, Veneziani, Genovesi, Sanesi, Lucchesi, Fiorentini, e di altri non pochi. In ultimo luogo i consiglieri e i secretarii del consiglio di Cesare, separati dalle altre turbe sorvegnenti da una mano di cavalieri armati di corazze d'oro, e di mazze d'arme dal manico d'argento.
Giunto Carlo nella sacra cappella, il cardinale di Tortosa, commesso a tale ufficio mediante un breve del sommo pontefice, il quale fu letto dal vescovo di Malta, cominciò a salmeggiare le preci opportune alla solennità: concluse le orazioni, gl'illustri conti di Nassau e di Lanoia, custodi del corpo di Cesare, presero a spogliarlo nel petto e per le spalle di ogni sua veste, sicchè gli nudarono tutto il braccio destro e gran parte del seno. Allora il cardinale di Tortosa, non senza aggiugnere altre efficacissime preghiere, gli unse le coste e tutto il braccio coll'olio sacrosanto dei catecumeni. Il reverendo padre Guglielmo Vandanesse, vescovo di Leon, le parti unte con candido bisso gli asciuga. Ciò fatto, tornano a vestirlo con la cappa reale di teletta d'argento, con un manto velloso di porpora svariata di oro e finalmente con una stola lunghissima, o vogliamo dire sarrocchino di bianchi armellini. Condotto a piè dell'altare dai cardinali Salviati e Ridolfi, il cardinale di Tortosa prima gli cinse la spada, la quale avendo Cesare tratta, tre volte vibrò nell'aria e tre declinò a terra, poi riposatala alquanto sul braccio sinistro tornò ad acconciarla nel fodero. Siffatta cerimonia mandata a fine, Carlo si prostra davanti l'altare, e il cardinale di Tortosa, sempre recitando orazioni adattate all'uopo, ora gli consegna lo scettro, ora il globo, ora finalmente gl'impone sul capo la corona di ferro, ad alta voce proclamandolo re di Lombardia.
«Re di Lombardia!» gridarono i vicini; — «re di Lombardia!» risposero i lontani; e tanto e siffatto urlo riempì l'aere che pareva andassero subissati il cielo e la terra. I popoli alle parole aggiunsero il batter forte dei piedi, onde si levò un denso nuvolo di polvere, e la terra prese sembianza di vulcano che fuma: dai terrazzi, dai balconi, di sopra i tetti si vedevano donne, cavalieri, popolani, gente in somma di ogni maniera, sventolare pennoncelli di colore, fazzoletti bianchi, rami d'alloro o di mirto: — lungo i muri dei palazzi, dagli architravi delle porte e finestre, intorno ai fusti, su per i capitelli delle colonne si spiccavano figure a guisa di cariatidi viventi, le quali agitavano le braccia in segno di allegrezza.
Uno spirito gentile, tra tanta congerie di uomini, i desiderii, la speranza e l'alito della vita aveva posto nell'immaginare la tribolata sua patria potente e felice; contemplando adesso tanto consenso di universale esultanza, dubitò di sè; per un momento i suoi terrori ebbe vani; onde di nuovo sollevò lo sguardo per ben conoscere se straniero veramente o Italiano fosse l'avventuroso coronato a re di Lombardia; e lo considerando pur troppo straniero, pensò tra sè: — Ecco, come gli Abderitani, oggi un popolo intero è diventato pazzo furioso; quando egli avrà ricuperato il bene dell'intelletto, si troverà schiavo. La mano che un'ora prima applaudiva al signore straniero, un'ora dopo sarà grave di catene: quando le vorrà rompere sarà chiamato ribelle: l'amore della libertà gli appresterà il patibolo in questo mondo e la dannazione nell'altro, così ordinando principi e preti seduti alla mensa dove si cibano i popoli; la lima che rode le catene delle nazioni volontariamente serve è fatta di sangue e di lacrime... Ahimè! quanta copia di pianto e di sangue per consumare cotesti ferri che esultando adesso cotesti sciagurati si adattano al collo! —
E gemendo si coperse il volto per piangere lacrime solitarie sopra i destini della sua patria. O Luigi Alamanni, se tu ai tempi nostri avessi vissuto, sapresti come egualmente i popoli applaudano alla morte dei re! La fiera del popolo arrangola, sia che menino in alto Carlo Magno a coronargli la testa, sia che vi traggano Luigi Capeto per mozzargliela dal busto!
Gli archibusieri alemanni e spagnuoli in numero di ottomila spararono gli archibusi; i bombardieri, quanti poterono rinvenire a Bologna e trasportare di fuori sagri, falconetti, colubrine, smerigli, serpentini, basilischi, girifalchi e simili altre artiglierie costumate a quei tempi, così e con altri più terribili nomi appellate dagli uomini tuttavia sbigottiti dai micidiali effetti di quelle: onde, secondo che narra Cornelio Agrippa in quel suo stile ridondante di ampolle, parve che «Giove avesse dato la via a ciò che di più fragoroso custodiva ne' suoi tesori di fulmini e di tuoni.» Le campane frementi si lanciavano per l'aria, come cavalli inferociti; da un punto all'altro temevano di vedere scaturire la fiamma dai legni e dal ferro confricati in cotesto portentoso dondolio: — ahi! bronzi un tempo chiamati sacri, dacchè il vostro ufficio dimenticaste di laudare Dio, convocare il popolo al tempio, raccogliere il clero, piangere i morti, cacciare la pestilenza, onorare le feste dei Santi[80], dacchè, dico, il vostro ufficio dimenticaste o spregiaste, la vostra voce si spande pei piani e per le valli solitaria come la voce di san Giovanni nel deserto; chiama, ma nessuno risponde, imperciocchè la voce che ha celebrato l'esaltazione del tiranno e le sue stragi non possa glorificare il nome del Signore, il Santo dei santi; e nonpertanto anche voi potreste rigenerarvi; in questa giornata di tenebre e di servitù abbiamo tutti peccato, — uomini e cose; — compiangiamoci dunque e pentiamoci tutti: scendete dalle vostre torri, fondetevi in cannoni, portate nel vostro seno la morte allo straniero; — allora, purificate da questo battesimo di fuoco, quando tornerete a squillare, i popoli accorreranno, siccome consapevoli che voi li chiamate per esaltare la gloria di un Dio che protegge i liberatori della patria.
Intanto per altra parte il pontefice s'indirizzava con la sua compagnia al tempio di San Petronio. Precedevano a due a due i camerarii, gli ostiarii, i segretarii apostolici; seguivano dodici dottori dell'antica università di Bologna, ora dianzi da Cesare insigniti con ordine cavalleresco e con la dignità di conti palatini. Quindi otto patrizi della città in abito senatorio, e poco appresso il rettore della università decoroso per vesti purpuree. E gli uni dopo gli altri seguitavano il potestà avviluppato in un lucco di teletta di oro, i giudici di Rota, e cinquantatrè tra vescovi e arcivescovi venerabili pei loro manti pontificali. Secondo l'ordine delle speciali prerogative, venivano i cardinali Medici, Grimaldi, Caddi, di Mantova, Pisani, Santa Croce, Cornaro, Grimani, di Perugia, di Ravenna, Campeggio, Anconitano, di Santiquattro, di Siena e Farnese, ognuno dei quali portava la mitra e procedeva ornato di piviali doviziosissimi. Subentravano i magnifici conti Ludovico Rangone e il signor Lorenzo Cibo, entrambi gonfalonieri di Santa Chiesa, armati di tutte armi. Finalmente, assistito dagli eminentissimi cardinali Cesarini, Cesi e Cibo, compariva Clemente VII nello splendore della sua pompa pontificia, avvolte le membra nel famoso piviale, di cui i lembi si congiungono sul petto mediante il bottone non so se io mi dica più celebre a cagione del lavoro di Benvenuto Cellini, o del diamante una volta appartenuto a Carlo il Temerario duca di Borgogna[81]. — Guardate il vicario di Cristo! Il successore di Colui che andava a piedi e le più volte scalzo, ora, reputando poca magnificenza cavalcare mula o palafreno, si fa trasportare sopra un pulpito sulle spalle di otto servitori a guisa di somieri e dimostra come da gran tempo il padre dei fedeli tenga gli uomini in concetto di bestie. — Egli non può sopportare il pallido raggio del sole di febbraio, e con ampio baldacchino di seta il capo difende e la persona. — I santi, dei quali egli si dice ministro, non temerono riarsa dal sole di Siria la fronte per predicare alle turbe ed annunziare vicino il regno dei cieli. — Dietro alla cattedra pontificia si affolla la torma degli abbati, protonotari, prelati, gentiluomini, i quali il più delle volte non sono uomini gentili, e gente altra infinita di siffatta risma. Penetrati nel tempio, ognuno si dispose, conservando il grado che gli spettava, nel coro o davanti l'altar maggiore, e diedero salmeggiando immediatamente principio all'ufficio chiamato Terza; conchiuso il quale, i cardinali, cominciando dal decano Alessandro Farnese, che poi fu papa col nome di Paolo III, padre di Pierluigi l'infame stupratore di Cosimo Cheri vescovo di Fano[82], ossequiarono a Clemente la consueta obbedienza baciandogli le mani — gli arcivescovi e i vescovi fecero lo stesso; se non che il papa, invece di porgere al bacio loro la destra, presentava i piedi. Orgogliosa impudenza da un lato di cui non abbiamo esempio, tranne nelle oscene cerimonie del sabato, dove la favola narra convenire le streghe a fare omaggio al demonio in forma di becco; umiliazione dall'altro della quale pur troppo occorrono ricordanze nelle storie degli uomini.
Ma torniamo all'altro, dico a Carlo di Gand. — Per tutti i santi del paradiso, ch'è questo mai? Quale strana fantasia lo ha preso? Ella è cosa da concitare a riso, non che altri, san Bartolomeo quando lo scorticavano vivo. Carlo il re della Spagna, delle Indie, di Germania, d'Italia, Carlo, adesso comparisce vestito da canonico; così è: gli significarono non potere essere consacrato imperatore dei Romani dove prima non avesse consentito ad ascriversi tra i canonici di san Pietro! Egli dubitò un momento non lo togliessero a scherno e fu per dire a monsignore Ariosto vescovo di Berutti che gliene esponeva la necessità: — Va' via marrano[83], o ti faccio precipitare dal ponte! — Ma poichè il vescovo sosteneva senza mutare sembiante quella sua bieca guardatura, povero di consiglio, stretto dal tempo, si lasciò vincere, sicchè in un punto, spogliato dei regali abbigliamenti, da una mano passando nell'altra, fu rivestito della toga, del rocetto e della mozzetta secondo il costume dei canonici. — Roma, le tue percosse, sia che il mondo offendessero o il pensiero, erano pur gravi una volta! In questo stato, non so se io mi dica più compassionevole o ridicolo, lo condussero nel tempio di San Petronio i due mentovati cardinali, ai quali se ne aggiunsero altri due, i seniori fra l'ordine dei vescovi, cioè di Santiquattro, Lorenzo dei Pucci (il quale sosteneva tutte le cose, comunque iniquissime, non disdire al pontefice[84]), e l'Anconitano. Appena ebbe posto piede nel tempio, con terribile fragore precipitò il ponte per la lunghezza di forse venti passi: la gente ammucchiata forte percosse sul terreno; alcuni ne riportarono sconce ferite, altri col sangue vi persero la vita.
Spesso mi avvenne considerare come in siffatte solennità che i principi danno ai popoli vi si mescoli dentro un mal genio e la faccia pagare a questi ultimi a prezzo di sangue, sia per ammonirli che non dovevano ridere, sia piuttosto, come credo, che la gioia la quale muove dai re non possa comparire vermiglia, se non si tinga col rosso del sangue.
I cardinali tenendo in mezzo Carlo, come fiera in guinzaglio, lo menarono a piè dei gradini della cattedra del pontefice e quivi stettero. Clemente gli abbassò uno sguardo dall'alto, e non potè reprimere un moto dei labbri in contemplando l'augusto Cesare in veste da canonico; il quale sguardo e il quale moto di labbri avendo troppo bene compreso Carlo V, sentì ribollirsi dentro l'orgoglio del sangue spagnuolo, gli occhi mandarono faville, e una idea gli traversò trucissima l'intelletto, di afferrare cioè per le gambe il pontefice, rovesciarlo dal trono, dalle chiome strappargli il triregno, ed imponendolo sopra il suo capo gridare: — Io sono il re dei re!
Ma sollevando di nuovo la faccia vide, o gli parve vedere, il sembiante del papa pieno così della divinità da lui rappresentata che sentiva sconfortarsi dentro dal rimorso quasi avesse meditato il parricidio.
Di subito lo trassero nella cappella dedicata a San Gregorio, dove lo avvolsero nell'amitto, nel camice e nella dalmatica, e sopra gli posero il manto imperiale di ricami e di gemme gravissimo; sicchè non avrebbe potuto di leggeri sostenerlo, se il conte di Nassau da tergo, i vescovi di Bari, del Palatinato, di Brescia e di Caria nel regno di Leone dai lati, non ne avessero sorretto i lembi: in questo modo abbigliato, lo fecero andare fino a mezzo del tempio, dov'è la ruota di porfido; quivi tre volte benedetto si accostò all'altare maggiore, costrutto ad immagine dell'altare di San Pietro in Roma. Genuflesso sopra aureo pulvinare, colà rimase finchè non ebbero cantate le litanie dei Santi; allora due nuovi cardinali, cioè Campeggio, primo dei preti, e Cibo, primo dei diaconi, lo condussero in un'altra cappella consacrata a San Maurizio.
Qui dal cardinale Alessandro Farnese, primo dei cardinali vescovi e decano del sacro collegio, furono rinnovate le unzioni per le coste, per le spalle e pel braccio destro coll'olio del crisma, e il vescovo di Caria lo asciugò. La quale cerimonia essendo condotta a fine, i cardinali Salviati e Ridolfi lo tolsero di nuovo e lo menarono a fare riverenza al pontefice. Questi allora scendendo dalla cattedra sublime, si accostò agli altari e diede cominciamento alla messa solenne: poichè egli ebbe ad alta voce intuonato per Cesare l'introito, Carlo si fece presso agli altari, dove abbracciò e baciò Clemente su la guancia e sul petto. Gli tennero dietro i principi commessi all'ufficio di portare le insegne dell'impero, e con varie cerimonie le depositarono sopra la santa mensa. Ciò eseguito, Cesare e i principi tornano ai seggi loro apparecchiati nel coro; imperciocchè il trono imperiale, in cui doveva egli sedersi dopo la incoronazione, sorgeva a destra della cattedra pontificia in cornu epistolæ dell'altare maggiore. Avanzata che fu la messa fino alla lettura della epistola canonica, la quale Giovanni Alberini suddiacono apostolico cantò in latino, e Braccio Martelli camerario di Sua Santità in greco, i cardinali Ridolfi e Salviati addussero per la terza volta Carlo al cospetto del papa. Qui si rinnovarono, presso a poco le medesime solennità di sopra descritte. Il vescovo di Pistoia prese dall'altare la spada e la porse al cardinale diacono; questi al pontefice: il quale, trattala fuori del fodero, la benedisse prima e poi la depose nelle mani di Cesare, trasferendogli i diritti della guerra con queste parole da lui latinamente proferite: «Prendi la spada santa, dono di Dio, adoprala a disperdere i nemici del popolo del Dio d'Israele!»
Se un membro del popolo miserabile d'Israele, — un Ebreo — si fosse adesso presentato all'imperatore e gli avesse detto: — Difendimi, perchè questo pontefice mi ha ridotto in condizione peggiore dei cani, e tra me e lui non corre altro vincolo tranne quello del porre ch'ei fa una volta l'anno il piede sul collo[85] ai miei rabbini, certo il figlio del Dio d'Israele sarebbe stato strizzato così che nissuno poi avrebbe potuto rinvenirne i frammenti. Il Dio d'Israele non è più Dio di Palestina, — neppure il Dio degli apostoli; il Dio d'Israele ha ripiegato le tende dalle antiche dimore e le piantò in Roma presso il palazzo del Vaticano; egli è il Dio dei preti. — I Fiorentini, da cui nacque Michelangiolo, che dopo tanto spazio di tempo sentì ed effigiò quel terribile legislatore degli Ebrei — Moisè, — i Fiorentini, che per pubblico partito si elessero Cristo principe della Repubblica, erano i nemici del popolo d'Israele, gli avversarii, i ribelli a Dio, i maledetti da lui, per l'esterminio dei quali il padre dei fedeli dava la spada santa all'imperatore. O sacerdoti, quanto fareste ridere, se non aveste fatto piangere cotanto!
E Cesare nudò il ferro e tre volte ne percosse l'aria ed altrettante ne declinò la punta verso il suolo, — forse per dimostrare ch'egli intendeva sulla terra dominare, e nel cielo. Strinse lo scettro, pegno di fede e di virtù che non aveva, colla mano destra; nella manca il papa gli pose il mondo in simbolo della facoltà ch'e' gli dava per governarlo.
Queste consegne di tutto o parte del mondo operate dai sommi pontefici, siccome efficacissime nel diritto, non furono sempre, o quasi mai, praticabili in fatto. Chi può contenderne loro la facoltà? Dio esiste signore del creato, il papa vive in Roma vicario di Dio nel mondo; dunque il papa può disporre di quanto in esso si comprende. Questo sillogismo ha la sua promessa, la sua minore, la sua conseguenza; a me pare tutto e in ogni sua parte perfetto. La luna, il sole, le stelle, le comete, poichè non sono contenute in questa terra, rimangono escluse, quantunque non sia chiarito bene: le altre cose tutte senza eccezione di sorta stanno sottoposte al papa; tanto il Lappone come l'Ascolano, l'abitante del Kamciatka come quello delle paludi pontine: — ma questi non udirono mai favellare di lui, nessuno annunziava loro il regno dei cieli, non conoscono il Dio del papa di Roma. — E che importa se non lo conoscono? Peggio per loro; andranno dannati nell'inferno, ma non per questo rimarranno meno fermi i diritti della Santa Sede Romana. Se così non fosse, si chiamerebbe ella cattolica, che significa universale? Dove la cosa non istesse per l'appunto come io la diceva, avrebbe potuto Martino V concedere al re di Portogallo tutte le terre che loro riuscisse scoprire dal capo Baiador alle Indie? Ed Alessandro VI, il papa di santa memoria, avrebbe potuto con la famosa sua bolla tirare la linea da un polo all'altro e largire ogni paese scoperto dalla parte di occidente agli Spagnuoli, l'altro da oriente ai Portoghesi? Uno scrittore eretico osserva come non occorresse alla mente del santo pontefice il pensiero, che, ciascuno seguitando dal suo lato la continuazione delle scoperte, potevano un giorno ritrovarsi a contatto e rinnovare agli antipodi la questione di proprietà[86]. L'eretico ha torto, perchè non sa essere li sommi pontefici, siccome ispirati dallo Spirito Santo, infallibili.
Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che il papa non gli lascerebbe compire l'atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare cotesto ossequio; e poi, Clemente lo aveva già detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l'impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell'attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pesò sul capo non altrimenti che se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc'anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: — come il serpente della Scrittura, egli si nudrì di cenere e la sentì amara, — senza misura amara; sicchè il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella dell'anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Iacopo Passavanti nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virtù di traforare da una parte all'altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura vi fosse sopra caduta[87].
Ciò che riferiscono intorno alla proprietà letifera dello sguardo di alcuni animali e' vuolsi tenere per favola; imperciocchè il basilisco non abbia guardato mai in maniera più truce di quello che facesse Carlo il pontefice, quando si fu rialzato; ma non gli concessero tempo di proferire parola: le reti dei successori di san Pietro avviluppano con tanto prepotente vigore, quando uomo v'incappa, che nè impeto d'ira o profondità di consiglio valgono a romperlo: — lo tolsero in mezzo, lo salutarono imperatore con tanta luce di ceri ardenti, con tanto fumo d'incenso, con tanto fragore di voci lo confusero che egli, stordito, immemore di sè, per poco stette che non cadesse svenuto sul pavimento: egli sentiva suo malgrado strascinarsi; soffriva le angosce dell'uomo vicino ad annegare, che vede approssimare la morte e non può aiutarsi.
O signore e signori qui convenuti per farmi il piacere di sentire questa storia che non oso chiamare bella, perchè spesso fa pianger me che la racconto, o ridere di un riso tristo il quale mi ha guasto il cuore e la bocca, io non so se v'abbia detto; e se nol dissi, ve lo dico adesso; la cattedra del pontefice e il trono imperiale, per velluti cremesini, per frangio d'oro, per pulvinari, per baldacchini mirabilissimi essere stati eretti alla destra dell'altare in cornu epistolæ. Ora avvenne, mentre queste cose succedevano, che un personaggio di alto affare del seguito dell'imperatore si accostasse a certa colonna sostenente l'arco della cappella. Dalla parte interna rasentavano la colonna i balaustri che racchiudevano il recinto dove si celebrava la funzione; dalla parte esterna, la colonna scendeva alquanto verso il pavimento inferiore e si posava sopra la sua base. Il personaggio, gli usi di corte non sapesse o non curasse, o qualche forte pensiero gli tenesse occupato la mente, con le braccia sotto le ascelle, una gamba sopramessa all'altra, toccava con l'omero sinistro la colonna; — erano le sue membra per robustezza singolari, — quadre le spalle, — il collo rigido e grosso, — sicchè a vederlo pareva l'Ercole Farnese appoggiato alla sua clava. Gli anni di lui giungevano forse ai sessanta; — vestiva abito positivo di velluto nero spartito a strisce di seta celeste, con manto, calze e scarpe del medesimo colore: nella sua gioventù la bellezza si era compiaciuta per certo di ornargli il sembiante; — le cure, gli anni e le fatiche adesso glielo avevano reso severo. Foltissima la capigliatura gli copriva la testa; delle tempie però era calvo, e quivi la pelle compariva più pallida per via della continua pressione dell'elmo. — I suoi capelli non rassomigliavano all'argento per la bianchezza soltanto, sibbene ancora per una certa consistenza metallica di cui sembravano dotati: e le masse della barba eziandio giù per le mascelle e pel mento gli scendevano come scolpite. I venti delle tempeste, il sole ardente e le pioggie avevano percosso quel volto; nè avendolo potuto vincere, gli erano ormai diventate amiche: teneva il labbro inferiore non poco sporgente in fuori, atto che suole imprimere l'abitudine dell'impero. — Adesso cotesto suo volto accennava il conato della spirito il quale tenta chiamare una memoria smarrita o si sforza di rompere il velo del tempo per leggere nei futuri destini. Aveva in somma l'espressione del poeta che invoca dalla sua musa un concetto che varrà poi a scuotere le anime di maraviglia o di terrore o, se vuoi meglio, l'espressione del guerriero che dall'alto della montagna dardeggia lo sguardo sulla pianura per afferrare il momento della vittoria. I suoi occhi stavano fissi nei troni imperiale e pontificio, — e il raggio sfolgorato dagli ori e dalle gemme si riverberava per modo nelle sue pupille profonde che un fuoco interno, ardente in mezzo al cervello, pareva che le accendesse.
All'improvviso una voce gli percuote le orecchie:
«Ardisci! — Muovi un passo ed occupa quei seggi vuoti.»
A lui parve il suo genio avergli bisbigliato coteste parole; — e come se fosse stato il concetto di cui andava in traccia, senza mutare attitudine, si rimase a considerare se ciò potesse riuscirli e il come e il quando. Poichè si fu trattenuto alquanto in cosiffatta disamina, la voce stessa più forte mormorò:
«Ardisci! — Occupa i seggi vuoti: — un passo e basta.»
Si scosse all'avvertimento, — si guardò attorno lento e feroce a guisa di leone, non vide nessuno; — uno sgomento ineffabile lo travagliava quando, volgendo la testa dalla parte opposta della colonna, vide di contro a sè nella medesima posa atteggiato un uomo da lui singolarmente riverito e avuto in pregio.
«Siete voi, messere Alamanni?»
«Messere Doria, son io...»
«Ditemi, Luigi, come vanno le cose della patria?»
«Il mal la preme e la spaventa il peggio...»
«Ostinati che siete! ma e perchè non accordaste con Cesare quando ve lo consigliai a Barcellona? Perchè non aderiste ai miei conforti a Genova? — Avreste allora conservata, parte della libertà, la quale adesso avrete a piangere interamente perduta...»
«Prima, perchè, se le cose vanno male, non sono mica disperate per questo; — nè abbiamo deposto tutta speranza di vincere. Un'altra volta un imperatore vide le mura di Fiorenza; le vide, ma non l'espugnò...»
«Oh! allora non adoperavano come ora le artiglierie, che a tempo fisso disfanno le più solide torri, ed ogni più arduo impedimento rendono piano agli arditi assalitori...»
«Sì; ma ora, come allora, dietro le mura diroccate stanno altri muri — più gagliardi, — i petti dei cittadini...»
«Dio vi protegga, messere Luigi; così vi conceda le sorti favorevoli com'io ve le temo contrarie.»
«Ad ogni modo, i padri hanno creduto migliore partito essere tirannide intera che non mezza servitù: imperciocchè a questa a mano a mano si adattino le anime degli uomini; ed essendo della nostra natura abituarci a tutto quanto non riesce insopportabile, la mezza libertà converte in libertà intera, la vera libertà in desiderio, poi in languida speranza, finalmente, ogni vigore spento, la patria si addormenta al suono delle catene; nella tirannide per lo contrario intera v'ha fremito implacabile, guerra a morte tra l'oppressore e l'oppresso, — tra il tiranno e lo schiavo patto unico la morte; il tradimento, virtù; studio, la strage; il popolo incatenato può con le lacrime dell'ira, con i ruggiti della rabbia consumare le catene, — comunque di ferro; — il popolo assennato non romperà i suoi ceppi mai, — comunque di seta si fossero...»
«La tirannide, Luigi, può far piangere ai popoli un tal pianto che gli anni non valgano ad asciugarlo; può di tal piaga ferirli che gli anni si consumino invano a sanarla. La tirannide semina il deserto e la morte. Sentiste voi mai muovere rumore nei campi santi?»
«Sì, io ho udito fremere l'ossa negli avelli; — e i Greci a Maratona...»
«Voi siete poeta, voi; io poi, educato nella esperienza delle armi e dei governi, conosco a prova gli stati non reggersi con siffatti entusiasmi; — alle armi conviene opporre le armi; le parole, quando inferociscono i soldati, buone; senza i soldati, siccome sempre infelici, le più volte ancora contennende. Io quando dal ponte della mia galera, il guardo teso sul mare, scorgo da lontano le vele nemiche, già non conforto i miei compagni rammentando la virtù latina, le glorie liguri: e' non m'intenderebbero; addito loro le galere e dico: — Prodi uomini, voi lo vedete, il nemico ci stringe; il vento ha in filo di rota, e a noi riesce impossibile la fuga; nè voi d'altronde avete fuggito fin qui. L'armata avversa supera di un terzo la nostra, ma la nostra è munita senza pari, governata da voi, capitanata da me Andrea Doria soprannominato Buona fortuna. Su via, apparecchiate le armi: — vincendo, nostre diventeranno le ricche spoglie, nostri i riscatti dei prigioni, la gloria nostra; perdendo, diventeremo poveri e infami per aggiunta. — Ella è più agevole cosa rizzarsi in piedi all'uomo che se ne sta a sedere che non all'altro il quale giace lungo e disteso sulla terra. Male fece la vostra città ad avventurare così grossa posta; io per me penso che ne vada della morte o della vita...»
«Ormai, messere Andrea, cosa fatta capo ha, come disse Mosca Lamberti: e voi in ogni modo potreste provvedere...»
«E come, Luigi, come?»
«Francia è vuota di sangue e di danari. L'imperatore stringono la Riforma e il Turco. Il papa si assomiglia agli antichi cadaveri conservati nei sotterranei, i quali si sciolgono in polvere tostochè gli abbia tocchi la luce. — Italia! Italia! La regina dei popoli, — la donna coronata un giorno di torri, ora di spine... deh! non vi dolga che anco una volta io dica: — Ardisci... ti stanno presso i due seggi vuoti; — un passo e basta.»
«E' pare, un passo, — ma egli è un abisso: — io ho molto bene considerata la bisogna ed ho meco stesso disaminato se le mie gambe fossero potenti a sì gran salto; non venne anche il tempo. Adesso vi perirei, e meco perirebbero le speranze. Per un passo mosso invano davanti, conviene darne cento all'indietro...»
«Se voi soccombete, nessun nome potrà pareggiarvi nella fama; se vincete, la terra non contiene creatura da paragonarsi con voi.»
«A me non garbano queste virtù di sacrifizio, nè gli anni miei mi persuadono mettermi allo sbaraglio dentro fortune dubbiose e difficili; mia divisa è il trionfo. Altri si contenti uscire dal mondo bello di fama e di sciagura; — io voglio vincere. Nè mi consolerebbe nella caduta dovessi pure, precipitando, imporre il mio nome ad un mare.»
«A voi, come ad Icaro, non giungono nuove le vie del firmamento: — i venti vi hanno trasportato mille volte il nome di Andrea Doria»
«Quindi io di tanto più temo la fortuna avversa quanto fin qui mi si mostrava favorevole. La fortuna, siccome donna, ama i giovani, dice Gianiacopo Trivulzio, e dice bene: ed io son vecchio, Luigi. La tarda età forse può disegnare gli alti concetti, ma il tempo e il vigore le mancano per condurli a fine...»
«Cominciate, Andrea; — non è poi così povera questa nostra patria di anime generose da rimanere spassionate ai nobili esempi.»
«Non oso; repugno dal mettere in avventura l'ultima spanna di terra dove la speranza può gettare la sua àncora: non mi parrà serva affatto l'Italia, finchè io lasci Genova come una porta aperta alla libertà. Finchè gli italiani uomini potranno trovare in Italia una spanna di terra dove tendere l'arco, aggiustarvi il dardo e tôrre la mira al cuore della tirannide, ogni momento della sua vita potrebbe essere l'ultimo...»
«Messere Andrea, i poeti hanno nell'anima gran parte di Dio...»
«Lo dicono.»
«Prova ne sia che io adesso leggo i pensieri più riposti del vostro cuore, nè la carne che lo fascia m'impedisce più di quello che fosse acqua limpidissima di una fonte o di un lago.»
«E che cosa vi leggete voi?»
«Vi leggo, e apertamente vo' dirlo, che a voi piace parere più ch'essere grande; che il misero pensiero di ampliare la famiglia di potestà e scemarla di fama s'insinua tra i concepimenti magnanimi di cittadino e gl'impedisce di spandersi. La patria, piuttosto che amare, non odiate; la desiderate grande, ma perchè Giannettino e gli altri vostri nepoti della sua grandezza partecipino; non ardite avventurare il bene acquistato perchè ve lo siete fatto vostro...»
«Per Dio! se non fossimo qui dinanzi gli altari...»
«Mi uccidereste, — e non per questo avreste ragione...»
«Luigi, io non voglio sdegnarmi con voi. — Le vostre parole non mi recano oltraggio; — al vostro cervello perdona il vostro cuore; — mi conoscerete quando il tempo avrà umiliata o spenta la fronte che adesso si corona.»
«Pessimo è, a parere mio, quel consiglio che conta con la morte altrui, non con la vita propria. Questo desiderio di morte è come palla che gli uomini si rimandano dall'uno all'altro tra loro: — chi le darà l'ultimo colpo? No, lasciatemi, io vo' dire tutta ed intera la verità...»
«Va' via, importuno; i popoli mi hanno innalzato una statua, come a liberatore della patria...[88]»
«Quei popoli stessi la ridurranno in mortai per pestarvi il sale; forse un giorno il popolo la getterà a terra, e la tirannide, che ti conoscerà anche traverso la caligine dei secoli, la riporrà sulla base, come simulacro consacrato a remoto congiunto. Tu hai desiderato la statua piuttostochè desiderato meritarla. Attila ordinò si gettasse sul fuoco un poema, e per poco stette non vi facesse gettare il poeta Marullo perchè lo aveva eguagliato ai numi immortali. Tu bevi l'adulazione a grandi sorsi, come tazze di vino; e, come il vino, ti ha tolto il senno. Un cittadino che amasse la patria libera davvero, non avrebbe consentito che i suoi concittadini si deturpassero ad atti convenienti soltanto fra schiavi e re...»
«Alamanni!»
«Silenzio! Tu hai cessato la tua grandezza, e la tua voce non ha più potenza di ricercarmi il cuore. Addio: — l'estreme parole furono favellate tra noi; — la medesima plaga del cielo non cuoprirà più le teste dell'Alamanni e del Doria. L'ultima stella è caduta. — Io gemerò, finchè abbia vita, sulla perduta tua fama. Dopo Camillo romano, a nessuno fu dato essere più grande di te. Vorrei lasciarti e non posso. — Ah! Doria, salva la patria. — Addio: — io ti getto, in pegno di un'amicizia che spira, la scelta di farti il più grande o il più infame degl'Italiani. Abbatti la statua e sii contento che la tua memoria viva nella nostra anima; rendi alla patria le navi con le quali la salvasti e con le quali, volendo, potresti nuovamente ridurla schiava[89]; — o se pur vuoi continuare a governarla, dirigine il corso contro ai barbari: — barbari io chiamo tutti gli stranieri in Italia. — Le Alpi passate e il mare, tornerò ad appellarli cristiani... fino allora, barbari e cani.»
«E la fede giurata all'imperatore?»
«La devi prima di tutto al tuo paese. — E al Cristianissimo non l'avevi per avventura giurata? E non per questo ti trattenevi dall'abbandonarlo. — Se il re Francesco scambiavi con Carlo, ti guadagnasti il nome di traditore... se l'uno e l'altra per la patria tu lasci, o felice o infelice, gli uomini altari t'innalzeranno e preghiere...»
E fu fatto silenzio.
«Luigi!» dopo un breve spazio di tempo esclamò il Doria, ma non ottenne risposta, «Luigi! Luigi!» replicò frettoloso, come se forte gli premesse di comunicargli un arcano.
Luigi si era pianamente di colà rimosso, lasciandogli la tremenda alternativa di essere grande od infame.
Andrea Doria fu egli grande od infame? Io non posso giudicarlo. Dirò soltanto che la profezia dell'Alamanni si avverava. Il popolo rovesciò la sua statua, il tiranno sopra l'antica base la restituiva[90]. Nè si conobbe l'Alamanni, in questo solo, profeta[91].
«Viva Carlo V imperatore dei Romani, signor del mondo! Viva Augusto! Viva Cesare!»
Queste grida discordi ed assordanti tolsero il Doria della sua distrazione: — guardò di nuovo gli scanni pontificio e imperiale, e vide Carlo e Clemente starvi nell'orgoglio della potenza loro intronizzati.
L'ufficio della messa continuando, cantano preghiere, con le quali invece di supplicare Iddio e i suoi santi per tutte le creature, gli supplicano per un uomo solo, per Carlo di Gand. Agli angioli, ai troni, agli arcangioli, alle potenze, ai cherubini, alle vergini, ai martiri ed alla rimanente corte celeste non si dice più: Orate pro nobis; sibbene: Vos adiuvate illum. E' sarebbe stata cosa gioconda vedere come in quel punto, Dio esclusivamente occupato per Carlo, il mondo si governasse senza di lui. E se, come sembra, il nostro globo continuò a vivere in pace con gli altri, il sole non rimase di scaldare, la terra di produrre, il mare di volgere l'eterne sue onde... uno scrupolo comincia a penetrarmi nello spirito, che mi farò chiarire dal reverendo mio padre confessore... un sant'uomo in verità. Ma no; tolga Dio, che per insania altrui la nostra mente vacilli: Carlo V nell'ardua superbia della sua vanità non richiamò a sè maggiore cura dell'Eterno, nè minore di quella che se avesse appartenuto alla famiglia delle scolopendre.
Recitato l'Evangelo, cantato il Simbolo Niceno della fede cristiana, pervennero all'offertorio. L'imperatore le vesti imperiali depositando, rimasto con la tonacella dalmatica, si accostò all'altare e depositò la sua offerta ai piedi del pontefice: — trenta monete d'oro del valore di scudi dieci l'una; — trecento ducati! Veramente questa donazione non giunse alla dovizia di quelle di Costantino e di Carlomagno! — Il papa la guardò sorridendo. I ricchi prelati della corte romana torsero la bocca in segno di disprezzo; — a Carlo, avarissimo siccome rapacissimo, sembrò avere dato anche troppo. I suoi cortegiani, per onestare la miseria dell'atto, inventarono avere egli il costume di offrire ogni anno tante monete di dieci ducati l'una, quanti si fossero gli anni della sua vita, ed in quel giorno appunto annoverarne trenta.
All'Agnus Dei, e' fu mestieri che egli si accostasse al pontefice e di nuovo lo baciasse sopra la destra guancia e sul petto. Almeno Giuda, — con tutto che Giuda, — baciò una volta sola e poi si appiccò per disperazione; — ora anche la sua fama si oscura.