Читать книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 8
CAPITOLO PRIMO NICOLÒ MACHIAVELLI
ОглавлениеPerchè egli è ufficio di uomo buono quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare insegnarlo agli altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.
Machiavelli.
Che se la voce sua sarà molesta
Nel primo gusto, vital nutrimento
Lascerà poi quando sarà digesta.
Dante.
Il suo passo era di uomo libero in terra libera, grave e solenne: ma sembrava sviato, come di persona improvvida o poco curante dei luoghi che gli si paravano dinanzi in suo cammino. Vestiva abito straniero: la cappa soppannata di pelli, il giustacuore di velluto bruno, calze di panno strettissime di colore scuro; le scarpe, il collarino e ogni altra parte in somma del suo abbigliamento rammentava la foggia di Francia. Portava avvolta intorno al berretto certa catena d'oro dalla quale pendeva una medaglia parimente d'oro ove stava effigiata una salamandra nelle fiamme, col motto: ardo, non brucio; impresa e motto inventati per Francesco I da madama d'Alençon sua sorella, valentissima in coteste arti cortegiane.
In cotesti tempi dame e cavalieri si affaticarono a indovinarne il significato; ma, per quello che la tradizione lontana ci tramandò, pare che madama d'Alençon intendesse, mediante sì fatta impresa, ammonire Francesco allora duca d'Angoulème, quando prese ad amare la giovane sposa di Luigi XII, Maria d'Inghilterra, dalla fecondità della quale correva pericolo di rimanere escluso dal reame di Francia.
Lunghi i capelli cadevano oltre le orecchie allo straniero e quivi tagliati in giro; costume anch'esso nato in Francia da brutta necessità. Imperciocchè i monarchi, disegnando abbattere la potenza dei baroni, per superarli di forze non abborissero chiamare in aiuto loro gente condannate ad avere mozze le orecchie (specie di pena oltre modo infamante usata in quei tempi): e pervenuti poi a miglior grado di fortuna, cotesti usciti dalle galere con quella usanza tentarono ricoprire la propria vergogna[7]. Ciò che in principio fu turpe bisogno diventò subito presso quegli strani ingegni dei Francesi vaghezza di costume; appunto come, sul declinare del secolo passato, dalle stragi della rivoluzione ricavarono nuove foggie di abbigliamento del sesso gentile[8].
Ma se straniere erano le vesti, il volto lo diceva italiano, nato alla grandezza e alla sventura. Sopra la sua fronte sublime potevano la gioia e il dolore spiegarsi nell'ampiezza della loro potenza; e certo sovente se ne alternarono il dominio: se non che la gioia fugace la percosse appena col ventilare delle sue ali leggerissime di farfalla, mentre il dolore vi lasciò la impronta delle sue varie procelle, a guisa d'iscrizioni funerarie sopra la fascia dei sepolcri. Quel suo sguardo acuto manifestava ingegno prepotente, un ingegno capace di fissare lo splendore dei cieli, volgerlo alla terra e in un baleno d'intelligenza comprendere i pensieri, le sensazioni, gli affetti che passano tra i pianeti e la terra, fra il creatore e la creatura, e quindi sollevato dal fango tornarlo di nuovo a fissare nel firmamento, come protesta immortale contro lo spirito che accolse l'idea della stella e del fango, del piacere e dell'angoscia, del palpito dell'amore e del verme della putrefazione, del tiranno e dello schiavo; e ne lanciò a piene mani la moltitudine nel mondo quasi in retaggio di maledizione alla stirpe che si pentì di aver creato con anima e lingua bastevole a rimandargli contro una maledizione[9]. Da molto tempo la sua bocca obliò il sorriso che nasce dalla vista della bellezza, dai racconti delle imprese onorate, da quando insomma, commovendo, ha virtù di esaltare l'anima umana. L'affanno inaridisce tutti senza distinzione gli affetti, la lacrima del pari che il sorriso, come fa delle piante e dei fiori il vento del deserto. Ben egli ancora rideva, ma un brivido del cuore sembrava cagionasse cotesta crispazione convulsa delle labbra; le morbide curve disegnate dalla bocca quando susurra parole di amore erano sparite; invece si scomponeva in triste linee angolari, come colui che gusta per errore una bevanda amara.
E non pertanto, malgrado segni così profondi di rovina spirituale, due corde vibravano eterne in quel cuore: — la poesia e la speranza. Egli aveva provato il pane dell'esilio, nè quel suo passo incerto nasceva da noncuranza, no; quando prima lo mosse, ebbe in pensiero di recarsi a un punto determinato; poi la gioia di rivedere, dopo gli anni incresciosi dell'esilio, i luoghi diletti della sua giovanezza lo vinse sì che, dimentico di ogni altra cosa ora si aggirava alla ventura per le vie di Firenze. Oh quanto è funesta amica la memoria al povero esiliato! Quanto mal destra consolatrice! Invece d'infondere sopra la piaga olio e vino come il Samaritano dell'Evangelo[10], senza volerlo vi sparge zolfo infiammato. La memoria i casi più riposti della vita ricerca limpidissima, senso comparte ed affetto ai luoghi cari per un ricordo di amore, cari eziandio per lo stesso dolore: e poi tutte queste cose rallegrando col raggio più puro che mai scintillasse in cielo italiano, ad ora ad ora ne abbaglia lo spirito all'esule, non altrimenti che il fanciullo, per giuoco raccolta la luce del sole entro uno specchio, si compiace rapire per un momento la vista al passeggero con un oceano di splendore. Però l'esule si strugge nell'agonia di un desiderio febbrile e, consumato da cotesta ardente contemplazione, comprende in qual maniera i Greci antichi potessero imporre alle furie il nome di Eumenidi, che significa dolci[11]. E perchè dovea una parte della città preporre all'altra? Non componevano tutte la diletta sua patria? Errava così alla ventura, perchè dovunque si volgesse incontrava argomenti di pietà, di piacere e di travaglio.
Se i luoghi percorsi un qualche bel fatto cittadino o una strage fraterna gli rammentassero, avresti potuto conoscere dal passo, che ora procedeva più lento ed ora si accelerava come se premesse lastre di fuoco. Adesso notava le masse portentose dei palazzi baronali, fatte più smisurate dalle tenebre, e gemeva su gli odii che gli ostelli destinati al quieto vivere civile tramutarono in fortezze; e più lungamente ancora si tratteneva a considerare le umili case dei popolani appoggiate a coteste superbe dimore per averne sostegno, nel modo stesso che nel mondo i deboli si raccomandano ai potenti per conseguirne tutela; e nel modo stesso che nel mondo i deboli, dal continuo curvarsi, acquistano soltanto avvilimento e abbandono, cotesti abituri per la prossimità delle soverchianti magioni venivano a perdere la luce e il vivido circolare dell'aria. Procedendo oltre, penetrava con gli sguardi dentro le officine degli artefici; e tentennando il capo, contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano una corona al capo o una catena ai piedi.
Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i tetti signorili, nè la misura dell'anima procedeva alla rovescia con la larghezza dei luoghi che la ricettano: pure ella fin d'allora le modeste più che le sublimi case si compiaceva visitare.
Così di pensiero in pensiero trascorrendo e per diverse vie camminando, venne a riuscire appiè del Ponte Vecchio. Andava oltre; e giunto che fu a mezzo del ponte, si affacciò alle spallette, dove declinato il capo, si pose a considerare il corso del fiume. In quel punto la sua mente era tolta alla visione dei tempi passati. Vide un barone vestito di bianco sopra un bianco palafreno arrivare con lieti sembianti in capo del ponte, all'improvviso prorompere una mano di armati, stringersegli addosso e, senza pur dargli tempo di raccomandarsi a Dio, rovesciarlo dal palafreno e rompergli la persona di mille ferite; vide sgorgare larga vena di sangue, macchiare le pietre del ponte e la statua del nume che i pagani proposero alla guerra; ed a lui stesso sentì spruzzarsene il volto, onde atterrito recava ambedue le mani alla fronte a rimuoverne il sangue fraterno. E poi apparve il demonio della discordia, che quel sangue raccolse e, mescolato con l'ira di Dio, tornò a diffonderlo, quasi rugiada di delitto, sopra una terra sacra alla sventura: allora, fecondate dall'umore mortale, scorsero generazioni che, rinnovando il caso degli uomini usciti dai denti del serpente di Cadmo, sembrò venissero alla luce per trucidarsi soltanto: d'ira ebbre e di sangue, si lacerarono le membra, delle proprie viscere composero miserandi flagelli; le antiche sepolture, baccanti di strage, scoperchiarono, e strinsero le ossa degli avi onde percuoterne il capo ai nipoti.
Nel fragore delle acque rompentisi per le pile, echeggianti sotto gli archi del ponte, a lui parve sentire il grido lanciato dalle trascorse generazioni nei tempi futuri; suono orribilmente confuso, voragine di dolore, di pianto, di delitti e di memorie. Come narra la fama che all'imperatore Pertinace dentro la piscina si affacciasse spaventevole uno spettro a minacciarlo di morte[12], così in quelle rapide onde del fiume egli pensò vedere i secoli passati, in forma di truci gladiatori, fuggire dalle arene sanguinose e correre verso l'eternità, incalzati colla spada nei remi dei secoli succedenti. I lumi accesi sopra la riva mandavano obliquamente per la superficie del fiume lunghe strisce di luce, sicchè le onde grosse e veementi, nel trapassarle, riflettevano un raggio sinistro che bene si rassomigliava al corruscare dei ferri parricidi.
Il pellegrino non vale a sostenere i fantasmi della propria immaginazione, e gli occhi solleva al firmamento. Il cielo in parte era ingombro di nuvole, ma vi scintillava una stella splendida come la libertà, bella quanto la speranza. Quale misteriosa corrispondenza passasse tra il pellegrino e la stella io non saprei; però ei la fissava con immensa alacrità, aveva tutta l'anima trasfusa nello sguardo, e sollevò la destra come per invocarla. La stella parve battere l'ale a guisa di colomba e tremare luminosa e ingegnarsi a fuggire la nuvola nera che di mano in mano divorava oscurando il bello azzurro del cielo; invano: il nuvolo l'aggiunse, e il firmamento pianse perduto quel soave raggio d'amore. Egli allora declinò lo sguardo, dalla parte più lontana del cuore disciolse un sospiro e, vinto dalla passione, fuggiva a corsa dal ponte per sottrarsi al doloroso presentimento.
L'affanno cerca il consorzio degli uomini, la gioja spesso gli oblia: in molti ciò accade per raziocinio, e vuolsi biasimare; in moltissimi per natura, e vuolsi compatire. Il pellegrino, adesso vinto dalla passione, si risovenne dell'uomo per cui si era mosso da prima e che aveva dimenticato nella dilettevole contemplazione. Sceso il ponte, camminò per gran parte della via chiamata dei Guicciardini: già era prossimo alla fine del suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una figura immobile davanti la casa dell'amico. Siccome avviene per la notte si presentava disegnata in nero sopra un fondo men bruno: la veste talare, che chiamavano lucco, descriveva cadendo bellissimi contorni; una mano le pendeva giù lungo la persona, l'altra sottoposta alla fronte e appoggiata allo stipite, in sembianza di statua che pianga sopra l'urna dei defunti.
Il pellegrino soprastette alquanto col cuor chiuso, aguzzò lo sguardo e sentì suo mal grado agitarsi; riprese a camminare più lento, mormorò alcune parole, levò strepito: invano; lo sconosciuto, assorto in profonda meditazione, non pareva cosa viva. Si fa più appresso, più appresso ancora: coteste forme non gli tornano ignote; esita nel ravvisarle, le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di affetto, una speranza adempita, forte sclamò:
«Buondelmonti.»
Lo sconosciuto anch'egli, quasi desto per forza, balzava indietro gridando:
«Alamanni.»
E l'uno nelle braccia dell'altro precipitava e sentiva sopra il suo cuore palpitare il cuore dell'amico col palpito più generoso che mai fosse concesso ai nati della creta.
Troppo gli agitava profonda quella intima melodia onde potessero significarla con parole. Come la virtù visiva per solenne splendore si acceca, così l'altissimo sentimento smarrisce la via della favella; però precorre il linguaggio dei labbri mortali un colloquio dello spirito che forse non morrà, colloquio di arterie frementi, di effluvii di vita trasfusi da una mano all'altra, dall'una all'altra guancia. Stettero muti e giubilarono e quasi benedissero i travagli sofferti da Dio che volle sgorgasse la dolcezza della gioja dall'amaro dell'angoscia, in quella guisa che finsero i poeti con le lacrime di una donna disperata si componesse la mirra, profumo soave agli uomini e agli dêi.
Quando poi si fu alquanto quetata la veemenza della passione, Zanobi Buondelmonti prese a interrogare dicendo:
«E donde vieni, Luigi?»
«Vengo di Francia, ove trovai favore presso il Cristianissimo; ma la grazia dei re all'anima repubblicana è tale un supplizio, Zanobi, che l'Alighieri nostro non avrebbe dovuto dimenticare di metterlo giù nel suo Inferno.»
«E come ti si volsero gravi gli anni dell'esilio? Ti piacque ella la terra? Ti si mostravano i cittadini cortesi?»
«L'esule, amico, e tu lo sai a prova, conserva gli occhi per piangere, non già per vedere; il cuore gli vive, ma per sentire la propria sciagura. Il pane dell'esilio mi parve amaro, e certo parve anche a te; incresciosa la casa dove non ti richiama affetto di vivente o di defunto. Il sole in sembianza di fuggiasco trascorre per quell'aere caliginoso e raccoglie a sè tutti i suoi raggi, quasi per timore di contaminarveli dentro; egli comparisce su l'emisfero come spossato dalle fatiche di aver vinto le tenebre; per gran parte dell'anno egli guarda quei luoghi colle palpebre socchiuse, ma non li veste con la magnificenza della sua luce, nè le cose riempie e gli uomini di vita e di poesia. Anche coteste terre traversano ampie riviere, ma invano cercai gli argini fioriti del patrio fiume, nè vidi percuoterne le sponde i piè leggieri di donne o di donzelle innamorate, nè riflesse in quell'onde le infinite ville di cui va lieta la prossima campagna: la Senna mi apparve a guisa di un fiume di piombo che senza fremito di acque, senza riflesso d'immagini, unito, opaco, si accostasse pesantemente al mare. Per gli uomini poi, nè il cielo nè la terra amano i miseri e l'odio degli avventurosi ti prostra del pari che il beneficio. Astero di Anfipoli tolse un occhio, lo sai, a Filippo di Macedonia con una freccia d'argento. Il potente dona per ozio, per fastidio, per tracotanza; dona ancora per debolezza o per ira, di rado per la benignità di natura o per amore del prossimo; e quando egli si avvisa di cacciare fuori un lamento sopra la ingratitudine umana, il mondo gli crede, perchè non sa o non vuole comprendere come sovente la mano che finge stendersi al beneficio meriterebbe di essere tagliata. Al misero poi che sotto la sferza dell'elemosina trae doloroso un rammarico maledicono tutti, perchè non pensano che con un fiorino può maggior ferita apportarsi che con un pugnale. Da ogni parte odi muovere lagnanze di uomini ingrati: potresti tu annoverarmi coloro i quali sanno beneficare? L'anima del cane non bada al volto di cui gli getta l'osso, ma l'anima dell'uomo rimane profondamente contristata dal modo del beneficio. Ora tu intendi come il disprezzo mi gravasse, nè meno la pietà altrui mi riuscisse importuna. Nello stato al quale venimmo condotti il cuore sta chiuso nè lascia entrarvi od uscirne un affetto. Infelice colui che in questa terra non seppe inspirare altro che odio; ma infelicissimo quegli che abbisogna della pietà degli altri!
«Alamanni.» e l'uno nelle braccia dell'altro precipitava... Cap. I, pag. 5.
«Veramente, Luigi», rispose il Buondelmonti, «la miseria flagellando scuopre la carne viva, sì che le fibre spasimano ad ogni lieve crudezza: però non vuolsi negare come l'uomo di rado e malvolentieri perdoni qualunque sorta di superiorità, e il felice beneficando si dichiara coll'atto superiore allo sventurato. — Qual merito è il suo per vivere più contento di me? — nella rabbia del cuore si domanda l'offeso dalla fortuna: e, la ingiustizia confondendo con l'uomo che la rappresenta, trasuda odio per tutti i pori del corpo. I beni acquistati per accidente di fortuna più di leggeri egli assolve che gli altri concessi per fatalità di natura: la ricchezza quindi più agevolmente della grazia, la grazia della forza, la forza della bellezza, la bellezza dell'ingegno. Pel genio poi non vi ha perdono in questa terra: gli volgano i casi favorevoli o avversi, egli è solo. Messo sul capo de' suoi fratelli, ben egli ha potenza di pestarlo o illuminarlo, ma gli è vietato baciarlo; dove si chinasse un momento, sarebbe una stella caduta, avrebbe tradito il suo officio per pochezza di cuore: soffra, sia grande e tacia. Dalle angosce della sua solitudine usciranno insegnamenti a migliorare il vivere degli uomini tra loro: intanto sè stesso nudrisca divorandosi; sublime di grandezza e di dolore, si apra il petto e, a guisa di mistico pellicano, le schiatte dei fratelli rigeneri con un battesimo di sangue e di scienza. Così, per certo, si mantiene dal destino in giusta lance cui ebbe troppo, e cui troppo poco; così forse merita pietà chi maggiormente pensiamo degno d'invidia. Sempre a sè medesimo gravoso, spesso ai suoi fratelli, funesto, vilipeso, sconosciuto, perseguito, il genio è condannato ad una perpetua ebbrezza di angoscia e di gloria.»
«Forse è così, come dici, o Zanobi: e l'una parte e l'altra avranno torto o più tosto ragione; però che l'esperienza m'insegnasse queste due parole non corrispondere a cosa effettuale di per sè stessa stante, sì bene essere modificazioni di cose secondo i tempi o le sorti o gli uomini diversi. Francesco Sforza tolse via la repubblica di Milano; e poichè i cittadini non sentirono virtù da impedirlo e da spegnerlo, fu duca ed ebbe ragione: se lo tentava quando i Lombardi con la creta e con la paglia contrastarono all'imperatore Barbarossa, sarebbe stato ridotto in pezzi e avrebbe avuto torto. Arnaldo da Brescia, Giovanni Hus e Martino Lutero intesero ad un medesimo fine: i primi due vennero al mondo troppo tosto e capitarono male; il terzo nacque in tempo giusto, ed ogni giorno, come tu vedi, prospera. Ma, lasciando per ora di ragionare intorno a sì fatto argomento, dimmi tu pure come e quanto pativi: è cosa dolce sopra la terra dei nostri padri discorrere insieme gli affanni dell'esilio. Di te non intesi novella mai: e quando mi ricorreva al pensiero la tua cara immagine fraterna, involontarie le labbra mormoravano la preghiera dei defunti.»
«Ed in vero io non vissi. In quella guisa che gli antichi credevano lo spirito dipartito dal corpo non sapesse o non potesse abbandonare i luoghi dove giacea sepolto il compagno della sua vita, così io mi aggirai per le varie contrade d'Italia. A Roma poi, più sovente che in altre parti traeva come a sicurissimo asilo. La luce abborriva e gli uomini, perchè io non ho cuore da sopportare la vista di un popolo caduto sì basso. E pure coloro i quali adesso mangiano e bevono e dormono in Roma ardiscono vantarsi sangue latino, chiamarsi figli degli antichi Romani! Sì certo, come i vermi potevano dirsi figli di Bruto diventato cadavere. La notte invocava che col suo più denso velo ricoprisse le infamie d'Italia, e la supplicava eterna; usciva pel buio a vagare, simile ad un insetto, traverso le infinite volte del Colosseo, monumento sul quale i secoli, poichè invano tentarono distruggerlo, si posano come sopra un trono conveniente alla loro maestà; ma nell'insetto era potenza d'immaginare, e quindi riempiva cotesta arena di aneliti, di grida e di strage, e quei gradini popolava di una gente a cui porgeva acuto diletto un colpo mortalmente ferito, un'agonia fortemente sofferta; e da cotesti spettacoli vedeva sorgere la gente romana e correre a portare nell'universo catene e seme di futura vendetta: però le larve sparivano, e tremendo mi stava davanti gli occhi il sepolcro delle rovine di Roma; sì, dico, sì, anche le rovine sono state sepolte: chi ne conobbe fin qui tutte le sue ossa! Se rimanessero intere le rovine della superba città, ne uscirebbe una voce di spavento allo straniero, una voce di risurrezione ai nostri stolti e codardi: grandezza, gloria, popolo, costumi e rovine di Roma, tutto precipitò nella morte. I numi muoiono anch'essi. Del tempio di Giove avanza una colonna sola, quasi cippo sepolcrale di religione defunta. Ahimè! l'aspetto dell'antica miseria non giova a confortare la nuova. Cessiamo dal piangere sopra le glorie passate; piangiamo più tosto, e a maggiore ragione, la odierna viltà che ci contende di sollevare l'anima dalla terra. Ogni popolo trama il proprio destino; ogni uomo può violentare la sua Parca. Non è questo il terreno dove vissero i Romani? non è questo il cielo che li copriva? non queste le stelle che tante volte scintillarono sopra i nostri trionfi? Nulla è mutato; noi solo siamo fatti diversi. Ecco, io diceva a me stesso, giunse nella terra dei padri miei il giorno d'ira e di abiezione, nel quale i popoli portano le catene come ghirlande di fiori e credono non avere mai la testa tanto bassa, la voce tanto dimessa, il dorso tanto curvo da prostituirsi al proprio simile: ora che più resta all'uomo nato libero? Avventi contro Dio la sua anima, come saetta dall'arco, e mora incontaminato. Moriamo. E a corsa m'incamminava verso la patria, chiuso nel tremendo pensiero di maledirla e di spegnermi. Valicai furente i gioghi dell'Appennino: l'anima mia si accordava con gli urli dei lupi vaganti pe' boschi e li vinceva in ferocia; le mani atteggiate ad imprecare, mi affacciai dalla sommità dei colli, giù per le valli lanciai uno sguardo infocato quanto il fulmine del cielo.... Ahi la patria! la patria! nel giorno del dolore più leggiadra mi apparve che in quello dell'esultanza, siccome grazia aggiunge e vaghezza al volto della donna il pallore che la mestizia vi diffonde coll'alito gentile. Occorrono sopra la terra creazioni di così incorrutibile bellezza su le quali la traccia della sventura non si manifesta come oltraggio, ma quasi un bacio; e la nostra patria, o Luigi, è tra queste. Gli occhi mi s'ingombrarono di lagrime, mi caddero le mani; ed in quel modo che Balaam, chiamato a maledire il popolo di Dio, lo benedisse tre volte, io le invocai bellezza sempre uguale, destini diversi. Scesi dai colli con l'ansia d'una madre la quale, spaventata dai lunghi sonni del figlio, si curva sopra le sue labbra a spiarne la vita, ed entrai nei casolari degli agricoltori: colà vidi accendersi volti alla memoria della nostra abiezione, quivi udii suonare la parola della libertà: allora mi accôrsi che la patria non era anche morta; onde, prostrato sopra la terra de' miei padri, con le viscere del cuore supplicava: Desta, o Signore, la bella addormentata. Tu, padre, schiudi le dimore celesti, a tutti ospitale: l'anima del forte e quella del debole sono parte dell'anima tua; perchè dunque tu soffri la schiatta dei tormentatori? Le mani strette dalle catene non possono sollevarsi verso di te. Vedi, i fratelli hanno contristato lo spirito dei fratelli, gli hanno percossi, gli hanno fatti piangere: perchè tanto splendide creasti le sfere, così squallida la terra? Manda la figlia migliore del tuo pensiero, la libertà, ad albergare tra gli uomini; e la terra fie che emuli di magnificenza il firmamento: allora queste due creazioni alterneranno in tua gloria un cantico nuovo, e i cieli, fino ad ora cupamente muti, palpiteranno di echi divini. Lévati dunque giudice e comanda che lo svegliarsi di un popolo sia come quello di un leone e non riposi finchè non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi[13]. Ora, ecco, Iddio ha esaudito la preghiera dell'esule; e di forza, di amore pieno e di ardire, a pena giunto qui, piegai i passi a salutare il grande, che da noi vuolsi onorare dopo Dio prima, perchè, se da lui avemmo la vita e la patria, egli c'insegnava ad amarla ed a morire degnamente per lei.»
«E già tardammo anche troppo», soggiunse Luigi Alamanni; e così favellando prese pel braccio il Buondelmonti e salirono.
Non incontrarono persona nè udivano muovere passo o articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva solitaria e prossima a morire. Appena v'ebbero posto il piede i due amici, si avvivò, mandò su le nudi pareti un getto di luce, quasi volesse dire: — contemplate la povertà di Nicolò Machiavelli —, e si spense. Allora ristettero pensosi e meditarono se quella miseria o il grande che la soffriva maggiormente onorasse, o i suoi concittadini che gliela lasciavano sopportare avvilisse. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all'uscio ed aprono.
Nicolò Machiavelli giace vicino all'ultima sua ora; la contesa tra la distruzione e l'esistenza era già scorsa; la distruzione aveva prevalso e spiegava su quel corpo le sue insegne come sopra terra presa; la pelle livida, le tempie cave, la fronte arida, il naso attenuato e recinto di un cerchio nericcio, la calugine delle narici sparsa di polvere giallastra, il pallore, il sudore e quiete inerte foriera del sepolcro; — egli tendeva le labbra a guisa di assetato, come anelante di un sospiro che gli rinfrescasse le viscere; gli occhi lucidi di vetro, senza sguardo di cosa terrena, però intenti alla contemplazione degli oggetti posti oltre i confini della vita: ora solenne nella quale l'anima, non bene uscita dalla spoglia mortale nè ancora volata alle dimore celesti, sembra soffermarsi sopra la soglia dello infinito, esitante tra le gioie promesse e gli effetti goduti; colloquio misterioso fra il Creatore e la creatura che niuna mente vale a comprendere, nessuna lingua a descrivere, forse di amore, forse di rabbia, ma certamente pieno d'ineffabile amarezza.
Un giovane di vaghe sembianze, genuflesso a canto il letto, si cuopre il volto con la destra abbandonata del moribondo e la bacia e tacito vi sparge sopra largo rivo di pianto: un dolore senza fine amaro si ostina a prorompere urtandogli impetuoso le fauci; la pietà del moribondo stringe il giovine a comprimerlo, sì che si ripiega fremente a spezzargli sul cuore, e il corpo si agita tutto di scossa convulsa.
A capo del letto, dalla parte diritta, sta un frate di volto severo, stringe i labbri tra i denti, guarda il moribondo e non fa atto di pietà o d'impazienza; se non che la fronte, con vicenda continua, ora gli si corruga ed ora gli si spiana; come i nuvoli sospinti dalla bufera davanti al disco della luna, tu puoi scorgere i pensieri procellosi che l'attraversano.
Dalla sinistra, un uomo membruto di persona, con le braccia conserte sul petto, tiene il capo chino al pavimento; copiosi capelli rossi gl'ingombrano la fronte e parte delle late spalle, la barba fulva gli oltrapassa scendendo la cintura; dal mezzo dei sopraccigli orribilmente aggrottati sorge quasi un fascio di rughe le quali vanno, a modo di raggi, dilatandosi per l'ampiezza della fronte: male quindi sapresti indovinare se quivi il dolore ristretto lanciasse coteste linee rodenti ad occupare le facoltà del cervello, o se piuttosto, dalle varie regioni del cranio partendo, colà esse si condensassero; veramente stavan fitte in quel punto atroci a sentirsi quanto le sette spade raccolte a trafiggere il cuore della madonna dei dolori: non atto, non gemito lo chiarivano vivo, nè il muovere dei peli estremi dei labbri per respirare; solo tu avresti veduto a poco a poco comporsi due grosse lacrime nel cavo de' suoi occhi, tremolare incerte lungo le orbite e sgorgare dalle palpebre giù per le guancie, come secreta vena di acqua tra massi di granito. A prima giunta quella testa ti appariva feroce, quindi ancora atta a esprimere la pietà; finalmente, senza pure accorgertene, ti sentivi disposto ad amarlo; aspetta ch'ei parli e lo conoscerai.
Appiè del letto occorreva un'altra figura vestita di corazza d'acciaro, con ambe le mani coperte di manopole di ferro soprammesse al pomo della lunga spada; anche il suo volto rendeva decoroso largo volume di capelli cadenti, le guance rase ed i labbri, la fronte purissima, dove avrebbe potuto, come sopra il santuario, deporre un bacio l'angiolo della innocenza; ed egli stesso sembrava un angiolo che i credenti affermano vigilare intorno i letti dei giusti moribondi a respingere gli assalti dello spirito infernale. Cotesto era un corpo che gli anni passando non guastano, soltanto modificano a generi diversi di bellezza, e cotesta era un'anima che l'angoscia piega alquanto, non rompe, — la gioia rallegra, non esalta: anima e corpo, in somma, di rado concessi da Dio alla terra per far fede tra uomini degenerati quale nel suo pensiero divino avesse concepito la creatura, prima che una colpa senza perdono la diseredasse del paradiso terrestre: anelante di sacrifizio, egli avrebbe notte e giorno supplicato che i misfatti e le pene degli uomini la giustizia eterna sopra il suo capo accogliesse e vittima di espiazione l'accettasse; ed egli non avrebbe mica diviso la croce col Cireneo nè per viltà rimosso dalle sue labbra il calice della Passione; per tutti i regni della terra non ne avrebbe ceduto una stilla. Lui, onde cara e onorata cadesse la patria tra noi, disposero i cieli ad essere il martire della libertà, l'ultimo dei generosi Italiani.
Egli mosse le labbra e favellò: «Io vi aspettava:... Cap. I, pag. 16.
Varie altre persone stavano sparse per la stanza atteggiate in modi diversi e pur tutti esprimenti dolore: onde quando io considero quante abbia maniere a manifestarsi l'angoscia e quante poche la gioia, come via unica per venire nel mondo ci fosse dato il seno materno e per quante infinite riusciamo al sepolcro, mi turba il pensiero che una forza maligna ci abbia lanciati nel mare della vita col sasso della miseria legato intorno al collo. Non disperiamo però: imperciocchè quantunque a noi non soccorra rimedio altro che le lacrime, tuttavolta la stilla perenne ha virtù di cavare il diamante, e le generazioni succedendosi in questa opera possono piangere a bell'agio e cancellare il decreto inciso nel granito per la mano del fato.
Marietta, moglie di Nicolò, e tre dei suoi figli, Guido, Piero e Bernardo, si erano da molto tempo ridotti a dimorare in campagna; nè, per essere il male sopraggiunto improvviso al padre loro, avevano potuto riceverne notizia. Forse in cotesto punto insieme raccolti discorrevano delle cose della patria e sorti migliori speravano pel padre, il quale, con tanto pericolo suo e vantaggio di lei, l'aveva di opera e di consigli sovvenuta in tempi grossi, ed ora per certo non egli avrebbe voluto negarle i suoi ammaestramenti acquistati dalla esperienza degli anni e dalla lunga pratica nei pubblici negozii; ma in quel punto la speranza levava l'áncora di casa Machiavelli, lasciandola in balia della miseria. Disegni umani!
I due amici, osando appena alitare, s'inoltrano nella stanza; procedendo vengono a posarsi traverso la linea visuale degli sguardi del moribondo. I suoi occhi cessano subitamente dalla fissazione, le pupille quasi smarrite ondeggiano da un angolo all'altro, poi tornano consapevoli a fermarsi sopra gli oggetti circostanti; allora l'esultanza salutò di un estremo sorriso quel volto pieno di morte, come il sole dall'orlo del giornaliero sepolcro di un raggio languidissimo colora il sommo delle basiliche, delle torri e dei monti già a mezzo ingombri dagli orrori crescenti della notte. Egli mosse le labbra e favellò:
«Io vi aspettava: silenzio! Parole ho a dirvi degne che per voi si ascoltino, per me si favellino, nè alla umanità nè alla patria inutili affatto e per la mia fama necessarie. La natura mi chiama, ed io sto disposto a rispondere. Perchè piangete? Chiamerà anche voi; e poichè la vecchiezza precede la morte, considero la morte pietà; io però bene devo ringraziarla di questo, che ella non volle chiudermi gli occhi, se prima non avessi contemplato il giorno della risurrezione; adesso sì che mi sento capace da vero d'invocare col cuore il nome di Dio, poichè la mia bocca, sopra la piazza della Signoria, davanti la faccia del cielo, ha gridato: Viva la libertà!... Silenzio! onde il senno dei tempi non vada disperso. Le schiatte umane passano come ombre; se non che, prima di ripararsi sotto il manto di Dio, nelle mani delle schiatte sorvegnenti consegnano la fiaccola della scienza: a guisa del fuoco sacro di Vesta, quantunque ella muti sacerdoti, pure arde sempre e cresce nei secoli nè ormai più teme vento di barbarie. Accostatevi e raccogliete l'estreme parole, però che vi aprirò il mio pensiero come se fossi davanti al tribunale dell'Eterno.»
I due amici, compresi da senso religioso, si appressano e, salutati appena d'uno sguardo i circostanti, si pongono ad ascoltare.
Nicolò riprendeva:
«La fortuna trama in gran parte la tela degli umani avvenimenti. I Romani, i quali quasi quanto vollero fecero, più che agli altri dii are innalzarono e tempii alla Fortuna; e con ciò dimostrarono sapientemente conoscere una forza superiore alle forze mortali che spesso si compiace secondare sovente ancora i disegni loro impedire. La fortuna sola vuolsi molto più accetta tenere della virtù sola: imperciocchè quella vedemmo tal volta condurre a lieto fine le imprese, la seconda capitare sempre male. Siccome la vita dei popoli si prolunga nei secoli, così la prosperità loro non si comprende da una o due imprese avventurose, sì bene da una serie di fatti prudentemente concepiti e virtuosamente operati: per la qual cosa giudico la fortuna fuori di misura giovevole nella vita breve di un uomo poco avvantaggiare il governo degli stati ed anche riuscirgli nociva, se la virtù non ponga il chiodo alla sua ruota. La fortuna in molti casi si mostrò favorevole ai Fiorentini: più volte li preservava dalla servitù, come al tempo di Castruccio e dei Visconti; più volte gli restituiva a libertà, come nel passo di Carlo VIII e adesso. Nel 1494 i meglio saputi cittadini tenevano la patria spacciata; e invece rimase Piero dei Medici sbandito, il cuore del dominio salvo. Ora nel 27 pareva volesse il Borbone rovesciare Fiorenza, e invece assaltò Roma, depresse il papa e ne fece abilità di toglierci giù dalle spalle quello increscioso giogo dei Medici. Furono questi doni della fortuna; e appunto perchè doni, o poco gli avemmo cari, o ci curammo poco di custodirli, siccome dovevamo e meritavamo pur troppo; se ci avessimo speso dintorno sudore e sangue, gli avremmo per certo più diligentemente mantenuti; gli Ebrei presero in fastidio la manna, comechè soavissimo cibo si fosse, perchè gliela mandava il cielo, e senza fatica a sazietà la raccoglievano; agli uomini poi non riesce mai sgradevole quel pane che con molto travaglio essi ottengono. Le cose della fortuna si distendono molto, approfondiscono poco; quelle della virtù diversamente procedono: onde, tutto ben ponderato, io prepongo alla fortuna la virtù non infelice. Non ragionerò dei provvedimenti buoni negletti, dei pessimi seguiti dal 1494 al 1512, spazio nel quale durò la seconda cacciata dei Medici; già la storia i tempi, gli uomini e le colpe loro incise sopra le sue tavole di bronzo e le dava in custodia alla memoria. Il tempo stringe, lunga è la via; nè già si tratta adesso di speculare sopra le azioni antiche, bensì somministrare consigli per le presenti e per le future. La fortuna, poichè volse la ruota ora favorevole ora avversa ai Medici, parve romperla per loro nel 1527; rimasero uomini a pena eredi del sangue di cotesta famiglia, diseredati affatto della virtù. Andava e va tuttavia la città divisa con diverse maniere fazioni: eravi chi teneva pei Medici, e tra questi parte la monarchia assoluta desiderava, parte voleva i Medici non già signori ma capi di governo largo; della fazione avversa alcuni più odiavano i Medici di quello che amassero la repubblica, altri più amici della repubblica che nemici dei Medici, altri finalmente la tirannide al pari dei Medici detestavano. Dall'un canto e dallo altro stoltezza, tranne gli ultimi: imperciocchè nei rivolgimenti degli stati bisogni mirare a fine preciso, e le sfumature non giovano; sicchè, quando i tempi grossi incalzano, tu ti trovi senza concetto, sospinto là dove aborrivi precipitare. Il popolo rimaneva come il cammello giacente sotto il peso; lo sentiva grave, ma, scarrucolato dagl'inetti novellatori di consigli mezzani, non sapeva a qual partito appigliarsi per gittarselo giù dalle spalle. Correva l'aprile del 1527 quando Dio, accecando i nostri oppressori, consigliò al cardinale Passerini da Cortona di lasciare Fiorenza e andarsene in compagnia d'Ippolito e di Alessandro e della Corte a Castello per complire il duca di Urbino, il quale si era quivi ridotto con l'esercito della lega. Valicate appena le porte, i giovani, come quelli che nella mente loro concepivano un disegno assoluto e virile, levarono rumore, uscirono armati dalle case Salviati e, tratti i gonfalonieri delle compagnie, si recarono ad assaltare il Palazzo. Nessuno si oppose; però che gli stessi avversarii, discordando nei pensieri, argomentassero nel tempo in che faceva bisogno adoperare ferocemente le mani. Il popolo restava inerte, chè la tirannide lunga lo teneva assopito; ben era aperta al lione la gabbia, ma non osava lanciarsi; era la sua catena spezzata, ma non ardiva scuotersi per gittarne lungi i frammenti; guardava, non sapeva e, gridando libertà, libertà! applaudiva. Baccio Cavalcanti, salito in Palazzo a nome dei giovani, impose al gonfaloniere e alla Signoria bandissero i Medici: alcuni dei Signori che, per godere il benefizio del tempo, s'ingegnavano interporre indugi rimasero feriti; mandato a voti il partito, nessuno dissenziente, i Medici ebbero il bando. Consiglio audace, provvidenza infelice. I cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi, avvisati del caso, tornarono spediti a Fiorenza, il conte Noferi li precedeva con mille fanti: facendo loro spalla i partigiani dei Medici, senza nessuno impedimento trovare, penetrano in Fiorenza e procedendo incontrano davanti la chiesa di San Pulinari Tomaso Ciacchi della repubblica svisceratissimo; toltolo in mezzo, comandano gridasse: Viva i Medici! rifiutava; percosso, nel rifiuto si ostinava; ferito mortalmente sul capo, più e più sempre esclamava: Dio e libertà! Il popolo guardava, non sapeva e gridando: Palle, palle! applaudiva. Insanguinata la terra di quel nefando omicidio, assaltano il Palazzo; i giovani, comechè in tutti avessero sette archibusi, deliberano a difendersi. I Palleschi, i quali poc'anzi paurosi si nascondevano, adesso prorompono, più infesti, come suole, coloro che si mostrarono più vili; arde la porta del Palazzo dalla parte degli Antellesi; all'altra puntate le picche, le spingono di forza, sicchè le imposte curvandosi meglio di un braccio si scostano dagli stipiti. Se in quell'ora di turpe baldanza i soldati dei Medici entravano in palazzo, la patria nostra avrebbe pianto lacrime amare sul fiore della sua gioventù trucidato. A Dio piacque che quel santissimo e forte petto d'Iacopo Nardi quivi a sorte si trovasse rinchiuso; in quel fiero trambusto, punto egli smarrendosi di animo, confortò i compagni a far testa anche un momento, e dipoi, salito sul ballatoio (come colui che di ogni particolarità spettante alla patria era indagatore e conoscitore solenne), scopriva certe pietre colà a disegno raccolte e in modo disposte che, leggermente intonacate al di fuori, sembravano un fermo parapetto; allora rotti i lastroni delle buche, uniti nel proponimento di salvare la patria, precipitarono cotesti sassi sul capo agli assalitori[14]. Se alla improvvisa rovina fuggissero coloro, non è da dire; lasciarono le porte, l'incendio fu estinto, e, peritandosi di accostarsi da capo, presero a sbarrare le strade. Sopraggiunsero intanto i signori della lega; Federigo da Bozzolo intervenne mediatore in nome di Francia, e chiariti i giovani intorno la vanità delle difese, assicurati di universale perdono dal cardinale Cortona e da Ippolito concesso, dal duca di Urbino guarentito, dopo alcune pratiche, ottenne il Palazzo restituissero. Io non incolperò di siffatto evento veruno; imperciocchè, quantunque non fossero presi i necessarii provvedimenti a mantenere la libertà, tuttavolta, anco presi non avrebbero, atteso il tempo breve, giovato; quello di cui riprendo i cittadini più savi si è questo, che o il moto non impedissero, o insieme non cospirassero prima, onde o potesse sostenersi meglio, o venisse con più onore a mancare. La caduta di un popolo deve essere tale, carissimi miei, che lasci memoria di terrore ai tiranni, legato di vendetta ai figliuoli degli oppressi; tra il popolo sommosso e un re bandito, unico patto il sepolcro; sta sulla sua spada il perdono; affetti, giuramenti, onore e Dio sono onde che rompono nello scoglio dell'interesse di regno. Questo per lo addietro si è visto, e tolga Dio che si veda anco in futuro: però torno a ripetervi che, tratto il ferro una volta, il popolo ha da gettarne via il fodero; dove tanto si acciechi da riporlo finchè il suo nemico non giaccia cadavere, invece di cacciarlo nel fodero, se lo caccerà nelle viscere; e di questo stia certo. Invece il cardinale Cortona, a ciò indotto dal conte Pietro Noferi, mandava a Roma una nota di gente da uccidere, comechè perdonata; e se la paura di maggiori disastri non tratteneva Clemente, avreste veduto un po' voi, come diceva Luca Albizzi, se sapeva ben egli schiacciare il capo ai colombi rimessi in piccionaia. La fortuna ad ogni modo ci voleva liberi: il 12 maggio giunse notizia del sacco di Roma dato dagli imperiali, il papa a stento rifuggito in castello. Il cardinale Cortona, povero di consiglio, nè voleva fidarsi altrui nè da sè era bastante a prendere un partito: i soldati chiesero le paghe; Francesco del Nero cassiere del pubblico nega i danari e ripara a Lucca; il Cortona, di natura miserissimo, piuttostochè rimetterci del suo, si sprovvede di quella estrema difesa e dichiara volere lasciare il governo della città. I giovani, immemori del passato pericolo, tornano ai tumulti; per questa volta la fazione degli ottimati, incapace a muoversi, riesce a trattenerli. La Clarice moglie di Filippo Strozzi va a casa Medici ed aspramente ripresi Ippolito e Alessandro di aversi voluto fare tiranni, li consiglia a partirsi; s'ella non era, nessuno ardiva abbattere cotesta tirannide cadente: nè in lei fu tutta virtù, sibbene o petulanza donnesca, o rancore contro il sangue illegittimo di casa sua, o sdegno contro papa Clemente che non volle creare cardinale Piero suo figlio, e mandato il marito Filippo a Napoli per ostaggio dell'accordo conchiuso con i Colonnesi, non lo aveva poi atteso, ponendolo così in pericolo presentissimo della vita, o finalmente speranza, cessato il governo dei Medici, di vedere la sua famiglia principale in Fiorenza. Mentre la Clarice, accesa nel volto con voce alta così favellava, si levò rumore tra i soldati della guardia; un archibuso fu sparato contro di lei, sicchè tra crucciosa e atterrita quinci si dipartiva, accompagnandola i più notevoli cittadini. Intanto si raguna in Palazzo la pratica per deliberare intorno ai casi presenti. Filippo Strozzi, a grande istanza pregato da Ippolito, si reca alla Signoria per ritirare la dichiarazione del Cortona intorno all'abbandono del governo di Fiorenza; ma la pratica aveva già vinto una provvisione per la quale si convocava il consiglio grande e, creatosi intanto un reggimento che tenesse gli uffici fino al 20 di giugno, i Medici in condizione privata si restituivano. Senonchè i giovani, prudentemente pensando, cessato il regno, non potere il principe più oltre abitare la città, tranne morto, accennano prorompere. Allora Nicolò Capponi, Filippo Strozzi, Giovanfrancesco Ridolfi ed altri maggiorenti, i quali, siccome corse fama, già da buon tempo innanzi si erano concertati a Legnaia, confortarono i Medici a dare campo su quella prima caldezza alle ire popolari, ritirandosi al Poggio. Filippo deputavano a scortarli sotto pretesto della sicurezza loro, invero poi per farsi restituire le fortezze di Livorno e di Pisa: fin qui la colpa tutta del popolo; imperciocchè, se egli avesse sostenuto la fazione dei giovani, nè i Medici sarebbero usciti, nè gli avrebbe lo Strozzi accompagnati. Consigliava la ragione di stato i Medici e i cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi si sostenessero per cambiarli poi con alcuno dei più notabili nella guerra futura, o, come fecero i Romani della testa di Asdrubale, balestrarne i capi mozzi tra le genti del papa, quando ei si fosse attentato assediare Fiorenza, mettendo così tra il popolo e il suo tiranno il sangue e la disperazione: quello che maggiormente nuoce in simili imprese è tenere l'animo vôlto agli accordi; perchè i codardi vanno rilenti alle offese, le difese o poco curano o del tutto abbandonano, e la patria rovina. Bentosto se ne raccolsero gli amari frutti; Filippo Strozzi, per tale una causa che la fama bisbigliò sommessa, e la storia tacerà vergognando, perocchè ella sia vergine e musa, lasciò fuggire Ippolito a Lucca; e per ricuperare le fortezze, oltre alla perdita del tempo, tra Piccione contestabile della fortezza di Pisa e Galeotto da Barga di quella di Livorno vi si spesero meglio di quindicimila scudi. Francesco Nori e la Signoria depongono l'ufficio; non aspettano il giugno per convocare il consiglio; determinato il modo di eleggere il gonfaloniere, l'adunano sul finire di maggio e creano Nicolò Capponi. Il consiglio eleggeva, il Capponi accettava; fallo grave nel popolo, nel Capponi gravissimo: errò il popolo, il quale andava immaginando che, come egli aveva ereditato dal padre Pietro le sostanze, così pure avesse dovuto redarne quell'impeto che valse a salvare la città dalle cupidigie francesi e rendere il suo nome immortale; errò ancora, perchè non conobbe la temperanza e la moderazione di Nicolò, in tempi quieti lodevoli, avrebbero a mal partito ridotto la città nei casi presenti, dove si chiedeva consiglio audace ed opera piuttosto avventata che gagliarda: ma sopratutto il Capponi e sè stesso mancava ed alla patria: forse Dio, che può leggere nei cuori, e le colpe misura dalla intenzione, lo perdonerà, non derivando i suoi falli da mal volere; ma non può perdonarlo la storia: ardua cosa e per avventura impossibile alla mente umana investigare le cause segrete dell'animo; e poco rileva conoscere se l'effetto sinistro si parta o da talento pessimo o da mancanza di cuore; ella giudica dall'utile o dal danno: per la qual cosa tu puoi sentenziare in coscienza che Nicolò Capponi fu traditore alla patria. L'uomo che si reca sopra le spalle il carico tremendo di porsi a capo dei tumulti dei popoli e indirizzarli al risorgimento si metta una mano sul cuore e senta se col buon volere Dio vi trasfuse la potenza: tale egli deve accogliere e tanto cumulo di qualità diverse, discordanti ed anche contrarie, ch'io per me raccapriccio in pensarvi; un cuore infiammato di carità, poetico quanto quello di Platone nel contemplare la bellezza del fine, ed una mente severa come un teorema d'Euclide; egli buono, alle umane miserie soccorrevole, amico e padre di tutti, quando il bisogno lo stringa, deve con fronte imperturbata tal dare principio alla sua orazione nel consiglio dei padri: «Anche ventimila capi recisi, e la repubblica è salva!» — Se gli si parano nelle vie i figli, Giunio Bruto gli spense; se il padre, Marco Bruto l'uccise: e i posteri entrambi hanno salutato sublimi. Nelle cose politiche il delitto comincia soltanto là dove la necessità cessa. Quindi consideri con profondo consiglio le condizioni del popolo: dove la morte della parte corrotta valga a fruttare libertà, lui celebreranno gli uomini salvatore e Dio se ci adoprerà la scure: dove poi i partiti sanguinosi rimangano inerti se le genti prima di morire, renunziato l'alito divino, si convertirono in creta, se la speranza, rivolta a terra la fiaccola, la spenge piangendo su quella città come sopra un sepolcro, allora, la fama di crudele evitando, lasci arbitro della morte chi creava la vita; ad esempio delle vergini di Sion, l'arpa appenda al salice e pianga, o del tutto si taccia, perocchè nei regni della disperazione ogni suono rincresca, anche quello del pianto. Nicolò Capponi non ebbe la mano forte da cacciarla nei capelli di un popolo assopito e squassarlo ferocemente affinchè si svegliasse; i Medici non aborriva; un governo di ottimati desiderava; però i Palleschi non ispengendo, lasciavali vivere a macchinare danni alla patria: offendere gli uomini per volontà o per necessità è trista cosa, pessima poi offenderli e lasciarli in condizione da vendicarsi; avesse almeno tolta loro la roba! Chè con minore efficacia si sarebbero allora travagliati contro la repubblica, ed egli provveduto di pecunia, la quale come avvantaggiava le cose nostre, così quelle degli avversarii riduceva a mal termine. Onde in processo di tempo convenne aggravarsi sui cittadini amorevoli della repubblica, balzello aggiungere a balzello, vuotare in somma le borse di pochi privati senza potere a gran pezza rispondere alle pubbliche spese. Correva pertanto a Nicolò Capponi strettissimo l'obbligo di togliere la vita ai nemici dello stato; se non voleva la vita, le sostanze; se non le sostanze e la vita, almeno la reputazione: nulla fece di questo, che anzi i Palleschi si onorano e tengono in pregio per modo che con esempio pessimo sembra, a volere ottenere favore dalla repubblica, bisogni dichiararsi amorevole al principato[15]. La Signoria, procedendo nei primi decreti cieca e codarda, ai popoli concesse armarsi: il gonfaloniere non solo concederlo, sibbene doveva con severissime pene ordinarlo e a tutti dai quindici ai sessant'anni; la patria dichiarare in pericolo, egli primo donando ogni suo avere, promuovere i sacrificii privati, nella salute della repubblica riporre la speranza estrema dei cittadini; siccome narra la storia di Alessandro Magno, il quale, le munizioni ardendo e i bagagli, costrinse i suoi soldati alla necessità del vincere o del morire. Sovente dall'amore più e meglio conseguiamo che dalla paura; ma se l'amore non basta, vi si adoperi il ferro; abbia il popolo a forza il proprio bene: a forza il tiranno gli mette la mannaia sul collo; sarà misfatto dunque mettergli a forza la corona della libertà sul capo? Il Capponi invece esitò, come uomo che diffida e già disegna l'accordo, e non si accorse che quello sarebbe stato la sua sentenza di morte; non che largheggiare alla patria del suo, tra i concetti atti di reggimento accogliendo la bassa cura di minuti interessi, egli non vergognò avvolgersi per gli opificii della seta e invigilare il compito de' suoi operai; bandiva gli Ebrei dal dominio, raccoglitori acerrimi di danaro e all'occasione o volontarii o costretti sovventori; leggi emanava su le femmine, le taverne e le bestemmie, inutili o perniciose, imperciocchè i costumi non si migliorino in virtù di una legge penale, e perchè chi tutto intende riformare spesso nulla riforma; dipoi, convertito in frate, predicando in Palazzo le orazioni del Savonarola, gridava misericordia e faceva sì che fosse eletto Gesù Cristo re di Fiorenza. L'aiuto divino ottimo: buono non pure, ma necessario invocarlo; però non devono gli stati tanto fidare nel cielo da porre in disparte i provvedimenti terreni. Mentre ogni dì ardevano ceri e cantavano salmi, nè armi raccoglievano nè vettovaglie. Aiutati, che Dio ti aiuta[16]. Certo, ben può il Signore rinnovare il miracolo di Gedeone; ma ella è prudenza questa, commettere alla salute della patria a' soprannaturali sussidii? Quando i cieli mente per concepire e mani per operare compartirono all'uomo, non intesero forse ch'egli di per sè provvedesse alla propria tutela? Nè vuolsi biasimare meco, e sia con pace di voi, fra Benedetto da Foiano, che l'ordinaste (continuava Nicolò piegando alquanto la faccia verso il frate di austere sembianze, il quale stava al diritto lato del giacente), la processione della Madonna della Impruneta per la ricuperata libertà, avvegnachè le diligenze messe in opera nei reggimenti nuovi ad allontanare i tumulti non saprebbero mai essere troppe; ed anche perchè, non essendo cessata la peste, la vedemmo aggravare per quello insolito mescolarsi del popolo. Ma di ben altra riprensione era degno il Capponi quando non pure trascurò afforzare la città, ma ben anche suscitò impedimenti di ogni maniera al divino nostro Michelangelo, il quale intendeva circondare il monte di bastioni: o sia che lasciasse svolgersi dalla opinione universale, essere i monti le mura di Fiorenza, e i pochi non potere assediarla perchè pochi, nè gli assai per mancamento di vettovaglie; o sia che più tristo consiglio lo movesse[17], tolta ogni fidanza nelle armi cittadine, si volse a procurare le mercenarie. Notate la fede! Giovanni da Sassatello, condotto dalla Signoria con ottanta cavalli leggeri, ruba le paghe e se ne fugge al papa; peggio lo strazio per avventura del danno. Don Ercole di Ferrara ebbe onore e soldo di capitano generale della repubblica; ma la repubblica pensate voi che sarà mai per avvantaggiarsi del consiglio e del sangue di un duca nelle battaglie? Ben a ragione la fama ci chiama orbi: da quando in qua vedemmo principi mettere a repentaglio lo stato e la vita a difendere repubbliche? E quasi tanti falli fossero pochi per la rovina della patria, a colmo della misura crearono Malatesta Baglioni governatore generale delle milizie fiorentine. E chi è Malatesta? Un fuoruscito della Chiesa. E donde nasce? Da una famiglia che vince in tradimenti il paragone con quella di Atreo. Or come questi, il quale non seppe mantenersi nelle sue case, vorrà insegnarci a difendere le nostre? Forse imparava egli fuggendo il modo di tener fermo? Colui che potè abbandonare ai nemici le sepolture de' suoi padri, male darà schermo alle dimore dei nostri figliuoli. Già a Dio non piaccia che le mie triste parole si avverino, com'io temo pur troppo vedere rinnovato nel nostro paese Cristo venduto, in lui Giuda venditore. Sconsigliati! Sconsigliati! prezzo del sangue è Perugia; nè sempre sarete in tempo con i traditori come lo foste con Baldaccio dell'Anguillara e con Pagolo Vitelli. Pur troppo le funeste guerre fraterne hanno spento tra noi la militare virtù come in Roma l'accrebbero: perocchè in Roma le contese cittadine terminassero con una legge, in Fiorenza poi con le uccisioni e gli esilii conchiudessero; in Roma il popolo godere dei supremi onori insieme con i grandi desiderava, in Fiorenza per esser solo nel reggimento combatteva: prevalso in popolo tra noi, i grandi disparvero e con essi i sensi generosi, la ferocia nelle armi; attesero i cittadini ai guadagni, diventarono ricchi, la roba acquistata disegnando godere, di fare coi petti riparo alla patria abborrirono, le sorti loro commisero ad anime e a braccia vendute; quindi milizie mercenarie vilissime, turpitudini di condottieri venali, il vituperio e la rovina d'Italia[18].
«Pure gli antichi ordinamenti di giustizia tanto non valsero ad abbattere la virtù militare tra noi che a ora ad ora alcuna scintilla limpidissima non prorompesse; e per tacere di più antichi capitani, non furono fiorentini quel maraviglioso Giacomo Tebalduccio e l'altro fulmine di guerra Giovanni dalle Bande Nere, e tuttavia nol sono il Bichi, l'Arsoli e una schiera che aspetta il destro per sorgere più grandi di loro? Qual è lo sciagurato che dubita non accogliere nel suo grembo Fiorenza figli che sappiano morire per lei? Questo fallo, se non ci si rimedia in buon tempo, partorirà amarissimi frutti; avvegnachè, amici miei, chiunque, e ponete mente alle mie parole novissime, chiunque commette la cura della sua libertà a mani straniere merita diventare schiavo. Nè le condizioni nostre di fuori a termine migliore ridotte che quelle dentro; la esitanza nostra ci ha fatti contennendi e sospetti; nemici molti e potenti, amici nessuno. Il papa all'antica libidine di regno aggiunge la nuova ira delle offese ricevute allorquando i giovani le armi, i simulacri della sua famiglia e la statua di lui misero in pezzi nell'Annunziata. L'imperatore, che or dianzi intendeva privare Clemente del potere temporale e convertirlo in vescovo di Roma, minacciato adesso dal Turco, prosperando Lautrec con le armi di Francia nel regno, disperato di stringere lega con qualunque governo italiano, accorto la riforma della libertà delle coscienze in Lamagna essere scala a conseguire le libertà civili, muta all'improvviso consiglio, lo libera di castello, gli spedisce fra Angelio suo confessore a tenerlo bene edificato, gli fa presentare dal Mussettola la chinea bianca e i settemila ducati pel censo del regno di Napoli, se lo rende amico, nè di presente v'ha cosa ch'ei non si mostri presto a operare per confermarlo nella nuova amicizia: noi non volemmo stringere lega con Carlo quando il tempo ci correva propizio, e i più pratici cittadini la persuadevano, ed egli per messer Andrea Doria quasi ce ne richiedeva; ora poi non osiamo dichiararglisi manifesti nemici. Abbiamo i Veneziani alienati da noi allorchè non gli sovvenimmo nel caso del Brunsvicco, il quale, tempestando si calò dalle alpi di Trento con dodicimila fanti e diecimila cavalli; onde presi da sdegno notificarono al nostro ambasciatore Gualterotti sarebbero in pari caso per fare lo stesso a noi: i Vineziani però, come sono prudenti, non vorranno trarre dagli altrui falli argomento per fallire; non pertanto l'ira vince talvolta la ragione, sicchè desideriamo vedere anche con danno proprio patire colui che stette indifferente ai nostri mali. In chi dunque fidiamo? La fede di Francia, incerta sempre, incertissima adesso. Meco medesimo considerando sovente come in ogni tempo gl'Italiani si mostrassero e tuttavia si mostrino corrivi a commettere ogni loro speranza nei Francesi e dall'altra parte quanti eglino abbiano peccati da scontare verso di noi fino dal regno di Pipino, con espresse parole scrissi: «I Francesi, quando non ti possano far bene, tel promettono; quando te ne possono fare, lo fanno con difficoltà o non mai[19].» Francesco I s'intende di stato anche meno di Luigi XII, al ministro del quale io ebbi ardimento significarlo alla recisa in faccia[20]; di rado lo muove la religione; più presto che a re non conviene, il talento; però battuto dalla fortuna adesso va più cauto alle offese e molto si lascia governare da madama sua madre, nè intelletto da concepire un disegno nè costanza gli compartirono i cieli da metterlo in esecuzione, e sopratutto stanno i suoi figliuoli in potestà di Carlo V: ora pensate s'egli possa amare o voglia la libertà vostra più di quella dell'erede del suo regno. Noi siamo soli. E che perciò? Dobbiamo noi forse piangere come perduta la nostra città? Non è mai lecito disperare della salute della patria, insegnava Focione, nè l'hanno per anche ridotta a tale da rendere ogni provvedimento tardo. Il Capponi mal si regge nel posto che non avrebbe mai dovuto tenere; forse ne scenderà per salire al patibolo; e gli starebbe bene, come colui che all'ambizione smodata accoppia ingegno per esitanza imbecille e codardia manifesta, la quale lo induce ad adombrare la natía virtù con partiti paurosi, che egli e i suoi chiamano temperati e prudenti, riprendendo quasi esorbitanze i consigli capaci di mettere con molta gloria a pericolo la vita e la sostanza dei cittadini, e perciò anche le sue; astiosamente avverso a chiunque si conosce superiore per intelletto e per animo; insomma della libertà di un popolo che voglia risorgere davvero, vergogna ad un punto flagello. Voi, giovani, nei quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi, Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a' casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a salvare Fiorenza, ella è certamente quella di Francesco Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre ai nemici bisogna vincere; e poi noi combattiamo in casa e per noi, il nemico sopra terra dove ogni cosa gli si volgerà infesta, e con armi infedeli, mercenarie tutte e con intendimenti diversi, dacchè i capitani del papa non possono accogliere il concetto istesso dei capitani di Carlo: confido non poco nella fortuna, nella provvidenza di Dio moltissimo, il quale non soffrirà la rovina della innocente mia patria. E se preghiera alcuna trova grazia al tuo cospetto Signore, ti raccomando questo suolo, che mi raccolse infante e già mi apre il seno pietoso alla quiete eterna, con tutta l'anima prossima a comparirti davanti; te lo raccomando anche prima dei figli, anche prima della medesima anima mia!»
Dalla interna commozione agitato, qui si rimase il Machiavello; ma in quel modo medesimo che, cessati i remiganti, la navicella continua nell'incominciato cammino, così, perchè tacessero i labbri, dalla fronte, dagli occhi, da tutta la faccia non ispirava meno amore di patria e di libertà.
Come dimentico della malattia che lo aggrava, si solleva alquanto sul fianco e stende la destra verso una tazza colma di tisana a capo del letto.
Quando la morte si apparecchia a vincere con la infermità la vita, raccoglie penosamente nel corpo del moribondo la somma di ogni male sofferto, e le carni, i nervi e l'ossa corrode con infiniti dolori diversi: la morte giunge amara all'uomo; e se fosse stato un bene, come Saffo cantava, Dio l'avrebbe creata per sè; però il Machiavello appena ebbe mosso la destra, la ritornava nella prima positura, chè intorno alla scapula e giù nei muscoli gli corse uno spasimo acuto come quando fu posto alla prova della corda; la guancia sinistra si contrasse di forza verso l'occhio, seco traendo le labbra in atto di angoscia; ma si ricompose all'improvviso e sorridendo riprese: «Dante, porgetemi, prego, cotesta tazza.»
Fra' Benedetto da Foiano, sottoposto un braccio ai guanciali, solleva amorevolmente il corpo del giacente. Dante gli appressa alle labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda, sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti favella:
«Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato l'amore.»
Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo, continua:
«Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria: queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...; che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini mi accusano averli adoperati ad ammaestrare tiranni; questi bracci niegano accostare alla mia bocca una bevanda, ed essi affermano essersi distesi ad implorare l'elemosina ai miei persecutori; della fama incontaminata in fuori non lascio ai miei figli altro retaggio, e non pertanto m'invidiano anche la fama. O uomini, quanto vi avrei adorato migliori e quanto vi amo anche tristi! A voi, carissimi, affido il mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udrete parola che rechi oltraggio alla mia memoria, più generosi di san Pietro, non vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo invidioso, tacete, imperocchè all'odio della mia virtù si aggiungerebbe allora l'odio che nasce dal sentirsi dichiarato iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi in mio nome: Nicolò Machiavelli non insegnò di tôrre ai ricchi la roba, ai poveri l'onore, a tutti la vita[21]: sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande; pochi o nessuno averlo compreso; e che quando egli potè onorare la patria, eziandio «con pericolo e carico suo, sempre volentieri lo fece perchè conosceva come l'uomo non debba avere maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dipendendo prima da lei l'essere e di poi tutto quello che la fortuna e la natura ci hanno concesso[22];» aggiungete credere io nella virtù come in una via per la tristizia degli uomini smarrita, e che essi potevano, anzi dovevano, ritrovare per indirizzarsi di nuovo al perfezionamento: la politica scevra dalla morale per me affermarsi impossibile; nè già per morale intendere io la immagine astratta della cosa, «sibbene la verità effettuale della medesima»[23], secondo i tempi, i casi e gli uomini diversa; a patto però che se la presente morale non fosse ottima, dovesse pur sempre dirigersi al meglio: la politica magnanima convenirsi ad un popolo grande, come il romano; essere in lui non solo virtù, ma necessità; non potere da questo concetto deviare senza riuscire agli occhi proprii ed altrui contennendo con danno inevitabile della maestà e forze sue; ai deboli invece convenirsi deboli consigli, e, se circondati da tristi, ordinare i casi l'uso della perfidia e giustificarlo: se non che allora devono i deboli mettere in opera l'ingegno per uscire da cotesto stremo dove è necessità la perfidia, e sollevarsi a quello nel quale sia necessità comportarsi magnanimamente. Amai la repubblica, ma, e molto più, amai la indipendenza, perocchè la seconda mi sembrasse necessità di vita, la prima poi accidente di forma. Considerai pertanto se stato alcuno italiano, governato a reggimento popolare, potesse conseguire il santissimo fine di rassettare le membra a questa misera patria: Venezia e Genova non mi parvero, come in vero non sono, libere città; volsi l'ingegno a meditare se con Fiorenza ci venisse fatto di riuscire, e non rinvenni virtù necessaria. Più che amorevoli del vivere libero conobbi i cittadini travagliati dal desiderio di dominare, disposti ancora a servire, purchè servendo potessero opprimere altrui; molti, odiatori di leggi o buone e triste ch'elleno fossero, siccome vaghi di licenza, non già del composto vivere civile; alla salute pubblica preponenti i comodi privati; più agli uomini avversi che alle cose; da vecchia e vergognosa tirannide liberati, intenti a gettare le basi di una nuova e molto più vergognosa, creando il Soderini gonfaloniere perpetuo: allora pensai essere necessaria una servitù e doversi ordinare una forza «la quale con potenza assoluta ponesse freno alla materia corrotta, le ambizioni degli individui prostrasse[24]», e la schiatta umana afferrando pei capelli la costringesse a ritemperarci nelle battaglie, ad abbandonare i vizii nella corsa faticosa verso la indipendenza. Chè se abbiosciata libertà, che indarno mentisce nome di civile, deve approdare a tirannide, meglio tirannide barbara che mette capo alla libertà. Forse chi sarebbe stato da tanto, sè troppo estimando superiore agli uomini, i quali spingeva incontro al bene a colpi di flagello, non avrebbe deposta la sferza, se non per convertirla in scettro; ciò poco doveva montare, imperciocchè la difficoltà dell'impresa consiste nell'agitare ferocemente le generazioni e cacciarle nella via del moto; all'altro provvederanno il tempo, la fortuna e la necessità delle cose. Però, favellando di coloro a cui la fortuna prestava occasione di riformare gli stati, diceva: «Questi essere dopo gli iddii i primi laudabili; e perchè pochi furono che avessero comodo di farlo e pochissimi gli altri che lo sapessero, così a piccolo numero ridursi coloro che lo facessero[25].» E fermo nel mio concetto insegnai: «Il prudente ordinatore di una repubblica che abbia animo di volere giovare non a sè, ma al bene comune, non alla sua propria successione, ma alla comune patria, doversi ingegnare di tenere l'autorità solo; nè mai savio intelletto riprendere alcuno di azione straordinaria che per ordinare una repubblica usasse: convenir bene che, accusandolo il fatto, lo scusasse l'effetto; e quando fosse buono come quello adoperato da Romolo uccidendo Tito Tazio e il fratello Remo per ordinare Roma, sempre doverlo scusare; perchè colui che è violento per guastare, non quello che è violento per racconciare, si deve riprendere; non pertanto corrergli obbligo di essere virtuoso e prudente da non lasciare ereditaria ad un altro quell'autorità che si ha presa, perchè, essendo gli uomini più pronti al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che da lui fosse stato virtuosamente ordinato[26].» Dipoi, celebrando coloro che intendono restituire gli uomini alla maestà della propria origine, non dubitai affermare: «Dovesse un principe innamorato di gloria desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo; e veramente i cieli non potere dare agli uomini maggiore occasione di gloria, nè gli uomini poterla desiderare maggiore. E in somma considerassero coloro ai quali compartivano i cieli una tanta occasione come fossero loro proposte due vie: l'una che gli fa vivere sicuri e dopo morte gli rende gloriosi; l'altra che gli fa vivere in continue angustie e dopo morte lasciare di sè una sempiterna infamia[27].» Per le quali cose tutte mi volsi a favorire Cesare Borgia, come quello che, per essere figliuolo di papa Alessandro e sovvenuto da Luigi XII, di voglie e di animo pronto, sembrava sortito a ricomporre le membra sparse d'Italia: nè già il Valentino, crudelissimo ai baroni della Chiesa, era tiranno del pari spietato ai popoli venuti in sua potestà; perchè racconciò la Romagna e la ridusse in pace ed in fede; la qual cosa se bene si considera, vedremo lui essere stato più pietoso dai Fiorentini, che per fuggire il nome di crudeli lasciarono distruggere Pistoia[28]: onde i popoli gli posero amore[29], avendo incominciato a gustare una vita sicura, laddove prima, per essere retti da signori impotenti, vôlti piuttosto a spogliare che a correggere i sudditi, intesi a disunire anzichè a congiungere, gemevano per quotidiane violenze e latrocinii[30]. E che le mie parole non si possano mettere in dubbio si fece manifesto quando la fortuna, di prospera che gli era, gli si volse all'improvviso contraria; imperciocchè la Romagna lo aspettò più d'un mese, nè Baglioni, Vitelli e Orsini ebbero seguito contro di lui: e se alla morte del padre non lo avesse condotto il veleno a termine estremo, non rovinava; «ed egli stesso il dì che fu creato Giulio II mi disse bene avere pensato a quanto potesse succedere morendo il padre, e a tutto avere trovato rimedio, eccettochè non pensò mai in su la sua morte di stare anche lui per morire[31].» Inoltre, che il Valentino, un tempo felicissimo tra i capitani, non fosse il più malvagio dei principi, o che alla voglia di superarlo gli emuli suoi non accoppiassero pari lo ingegno, consideratelo in Oliverotto da Fermo, spento per suo comando a Sinigaglia[32]; perditissimo uomo era costui, ladrone più che soldato, carnefice più che principe, e parricida del Fogliani, il quale con amore veramente paterno lo aveva allevato[33]. Dei Baglioni sapete i costumi: Orazio ordinò si uccidesse lo zio Gentile; e quasi dubitasse quel delitto poco a guadagnargli l'inferno, di sua propria mano trucidava più tardi messer Galeotto Baglioni, mentre si disponeva a rendersi prigione sotto la fede del duca d'Urbino[34]. Il Valentino agli occhi miei rappresentava astrattamente un uomo spaventevole; praticamente, la potenza capace di rilevare l'Italia sopra l'antica sua base; divenuto privato, forse le qualità raccolte in lui erano tali da condannarlo alla pena dei masnadieri: finchè resse da principe, poteva di fronte agli altri ammirarsi ed anche lodarsi rispetto allo scopo, quantunque la bella morte da lui incontrata in Navarra combattendo alla espugnazione del castello di Viana lo mostrasse degno di non essere affatto sbattuto dalla fortuna[35]. E sempre fisso nel medesimo pensiero, caduto il Borgia, mi volsi a Lorenzo dei Medici duca d'Urbino e lo ammaestrai delle condizioni dei tempi e partitamente gli scopersi le vie per mantenersi e crescere. S'io lo guidassi traverso le male bolge dell'inferno per quinci trarlo a rivedere le stelle, consideratelo nella esortazione a liberare l'Italia dai barbari che chiude il libro del Principe. Esaminate con mente pacata i miei scritti, e nonchè vi apparisca discrepanza veruna tra loro, comprenderete di leggieri come tutti insieme cospirino allo scopo proposto. Il Principe, a guisa di punto di partenza; i Ritratti dei popoli stranieri, le Storie e le Osservazioni intorno gl'Italiani contenute nelle mie Commissioni, siccome mezzi di appianare la via; i libri sopra la Guerra, come precetti a ristorare le milizie proprie, le mercenarie sopprimere, perpetua cagione di servitù; finalmente i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio, come termine estremo. Dalle Lettere per me dettate a mitigare o fuggire la malignità dei tempi non deve ricavarsi argomento per giudicarmi meglio che dalle risposte fatte al cancelliere quando fui posto a esame nella congiura del Boscoli. Nè certo, dopo la casa Borgia, veruna altra in Italia pareva più acconcia di quella dei Medici a conseguire l'intento. Leone X, pontefice di singolare giovanezza, uno stato floridissimo, cresciuto per opera di Alessandro VI e di Giulio II, reggeva[36]; la repubblica nostra come signore dominava; il conquisto di Milano e di Napoli disegnava; in lui erano facoltà e mente capaci; lo circuiva numerosa famiglia. Giulio, adesso papa di meschini concetti, mostrava da cardinale attitudine maravigliosa in eseguire gli altrui divisamenti[37]. Viveva Giuliano duca di Nemours, Lorenzo duca d'Urbino viveva. Non pertanto andarono tutte queste speranze disperse. Leone morì di morte immatura, Giuliano anch'egli precipitò nel sepolcro per debolezza del corpo, vi si gettava da sè stesso precocemente Lorenzo a cagione della immoderata lussuria. Mancò papa Clemente a sè stesso, la famiglia generosa a lui. Simili eventi dimostrano non già la fallacia nello argomentare, sibbene la miseria degli umani disegni, i quali ti si nabissano sotto quando meglio ti paiono fermi. L'uomo trama, la Fortuna tesse; e se alla seconda non piace corrispondere al concetto del primo, a questo basti avere ricercato la cagione delle cose con quella prudenza che per lui si poteva maggiore. Forse così pensando la mente errava, non però il cuore; ad ogni modo tutte le cose nostre hanno un destino che l'uomo non può vincere, e il mio consiste nel contemplare la mia fama avvilita da coloro che ammaestrai ad essere grandi.... Vi aveva io forse raccomandato che voi prendeste cura della mia fama? Se pure l'ho detto, adesso mi disdico. Che giova dar di cozzo nei fati? In quella guisa che voi, Zanobi, avrete veduto a Roma gli obelischi, una volta decoro della superba città, adesso giacere infranti, mezzo coperti dalla terra e dall'erba, così deve per un tempo giacere il mio nome, finchè non appariscano anime forti da rilevarlo sublime. Intanto uomini che si vanteranno filosofi, travolti anch'essi dalla mala opinione dei tempi, esulteranno della mia morte e non dubiteranno raccontare ai posteri «essersene rallegrati i buoni e i tristi; i buoni per conoscermi tristo, i tristi più tristo di loro.[38]»; e la verità, la quale ascende tal ora animosa i roghi e i patiboli, e dalle stesse fiamme scellerate e dal corruscare dalle mannaje si compone di un aureola di luce divina, tal altra poi fugge dall'errore suo nemico tutta tremante e si ripara nel seno di Dio; la verità, dico, si rimarrà per lunga stagione di spargere il suo lume sopra la mia memoria. Quando tenebre di servitù e di obbrobrio oscureranno l'Italia, la mia fama rimarrà muta, e sarà benefizio dei cieli, chè la lode di codardi offende amara, come l'ingiuria dei generosi. Ma se mai l'alba della libertà fie che torni a diffondere raggi vitali sul fiore appassito dalla speranza, allora come la statua di Mennone soneranno le mia ossa un fremito di gloria; i posteri verranno alla mia tomba per trarne responsi di virtù, insegnamenti di civile prudenza. Intanto fatevi qui presso me, Francesco Ferruccio; il vostro cuore è un tempio della Divinità: accostatevi, e finchè Dio soffre che di voi rimanga vedovo il cielo, vi stringa amore di questo capo diletto; a voi lo confido; lo raccomando a voi: di lui mi renderete conto nelle dimore dei giusti; egli è mio sangue: stendete la mano, ecco io vi depongo sopra la facultà che mi concesse la natura di benedirlo quando mi salutarono padre; voi non avete figliuoli.... ed egli è figlio infelice di padre infelicissimo; amatelo dopo la patria primo; ed accettando voi il sacro deposito, Nicolò Machiavelli vi scongiura che operiate in maniera che egli possa al vostro fianco salvare la patria o morire gloriosamente per lei.»