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CAPITOLO QUINTO PAPA CLEMENTE VII
ОглавлениеE' vi fu un tratto una donna lombarda
Che credeva che il papa non foss'uomo,
Ma un drago, una montagna, una bombarda.
E vedendolo andare a vespro in duomo,
Si fece croce per la meraviglia:
Questo scrive uno storico da Como.
Berni, Capitolo in lode del Debito.
E che il gran vecchio onde ti appelli erede,
Tiranneggiando in noi del ciel l'impero,
Vergogna il prenda, ove talor ti vede.
Alamanni, Satira II, parlando di Clemente VII.
Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo: ella era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati vi fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell'arte così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martirii di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; — intorno all'architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco.
Clemente posa in ampia sedia decorosa di velluto cremesino e per bollettoni dorati: un pulvinare di velluto sottosta ai suoi piedi; dinnanzi ha una tavola ricoperta di velluto; — sopra la tavola un Cristo effigiato con tanta maestria che par che spiri; — e un messale stupendo per gl'industri lavori di fermagli e cesellature co' quali maestro Benvenuto l'ornò.
Il papa, deposta la pompa degli abiti pontificali, veste la cappa rossa, la mozzetta, o sarrocchino di velluto soppannato di pelli bianche come neve; — il capo ha coperto di un berretto che i preti chiamano camauro, di velluto anch'esso e soppannato di pelle. Gli occhi tiene fissi sopra il messale, ma come gli occhi già non vi teneva fissa la mente. Quel messale ad ogni pagina aveva una cartapecora miniata da artefice illustre, rappresentante il passo del Vangelo che ricorreva quel giorno. La cartapecora in quel punto aperta davanti al pontefice mostrava Gesù Cristo nell'orto di Getsemani sudante sangue, rifinito da incomprensibile angoscia, supplicare al Padre che rimuovesse dalle sue labbra il calice della passione; — se poi non si potesse altrimenti, avrebbe fatto la sua volontà. Come un Dio offeso sè a sè stesso sacrificasse per placarsi non si comprende: al nostro intendimento umano sembra che il meglio senza tanti andirivieni saria stato perdonare addirittura e risparmiare a sè il dolore, agli uomini il delitto. Dove per lo contrario cotesto fatto deva spiegarsi nel senso di un padre il quale per amore dei suoi figliuoli non aborre dai martirii e dalla morte, allora la storia si volge al cuore piena di tenerezza.
Ma la mente del papa era le mille miglia lontana da cotesta immagine di sacrifizio: — egli fu ne' suoi tempi delle cose mondiali speculatore arguto; nelle bisogne di stato, diligente ed assiduo; — nel deliberare grave, nel deliberato costante: — più che d'altro si pasceva di ambizione; la quale non potè mai, per impedimento di fortuna, saziare a suo talento; e quando pure lo avesse potuto, non sarebbe per questo rimasta in lui la libidine di desiderare il bene degli altri. — A tante e siffatte qualità degne d'impero mancò animo pronto, audacia e costanza nell'eseguire, — e mancò eziandio (ma questo non credo sia qualità, non che necessaria, utile ai potenti della terra) misericordia del prossimo: — ebbe viscere di granito.
La umiliazione di Carlo (sebbene contro la sua natura, la quale consisteva nel simulare e nel dissimulare stupendamente, egli non avesse potuto trattenere un sorriso di compiacenza nel vederselo così prostrato dinnanzi) non gli piacque come trionfo, sibbene come mezzo di aumentare la sua autorità: — pensava adesso a lenire la piaga di quell'anima superba; del concilio pur troppo, quantunque di cosa lontana, temeva; — più del concilio egli dubitava cesare non fosse per rendergli contrario il lodo pel quale aveva compromesso in lui insieme col duca d'Este intorno alla reversione del ducato di Ferrara alla Sedia Apostolica; — a queste e a ben altre cose egli pensava, ed attendeva a ristorare le maglie della rete di san Pietro, logore dagli anni o dalla incredulità, con un filo di violenza ed un altro di frode.
Dietro la sedia stava in piedi un uomo immobile, cosicchè lo avresti tolto per una apparizione dell'altro mondo; con la destra stringeva un pomo della spalliera, la manca abbandonava lungo il fianco; — era pallido, di capelli nerissimi, vestito di nero; — quella sua fronte non compariva pacata, ma stanca dai lunghi combattimenti morali: — la quiete di un gruppo di nuvole raccolte nel cielo durante una notte di estate, quando non soffia un alito, e il demonio delle tempeste incatenato non può cacciarsele vertiginose davanti ai danni della terra.
«Giovanni!» senza mutare attitudine e neppure volgere la pupilla dal punto dove stava fissa, cominciò il papa, «molto abbiamo fatto per voi...»
«Beatissimo Padre...»
«Non c'interrompete; — siate con noi più orecchi e meno lingua che potete: — molto abbiamo fatto per voi; e ciò vi rammentiamo soltanto perchè possiamo fare cose molto maggiori. Cavalcherete al campo sotto la nostra pa... sotto Fiorenza.»
Gli occhi del personaggio chiamato Giovanni coruscarono a guisa di baleno dall'orbita profonda.
«Colà attenderete a notare diligentemente le cose che vedrete, inviandocene debita relazione o sommario, dove la materia abbondi, per un cavallaro a posta a Roma, o a Orvieto, o a Bologna, secondo che vi terremo avvisato.»
Tranne quello dei labbri, il papa non fece altro moto fin qui: — ora della mano chiusa sopra la tavola stendeva il dito pollice quasi per annovare le diverse commissioni che conferiva a cotesto suo fidato.
«Osservate sopra tutti Baccio Valori nostro commessario al campo: egli ama sè prima; con immensa distanza dopo la libertà, poi i Medici: — noi l'adoperiamo, giovandoci il credito e l'autorità di lui; egli si pose ai nostri stipendii perchè non si affida nello stato presente di Fiorenza, e non potendo guadagnare nulla col popolo, s'industria avvantaggiarsi con cui intende dominarlo: — forse, chi sa? un giorno renderà alla nostra stirpe il danaro che ci cava di sotto con la sua testa per cambio della moneta, e non sarà troppo, ma basterà[100]. Per ora temiamo non voglia navigare con ogni vento e tenere il piede in due staffe... Spiatelo... se vedete ch'ei ponga più corde al suo arco, avvertiteci in tempo, onde anche noi possiamo mettergliene al collo una sola.»
E qui spiegato l'indice, continuava: «Vi raccomandiamo in seguito il principe di Orange: se costui avesse ingegno quanta possiede mala fede e valore, noi saremmo spacciati. Ma cotesta è stoffa di cui la trama sente di ribaldo, l'ordito del pecorone. Egli intende a grandi cose; — al conte Rosso di Bevignano ha dato ordine non consegni Arezzo ad anima viva, inoltre gli confidò in segretezza volersi instituire re d'Italia, o almeno di Toscana, sposare la duchessina Caterina e comporsi in qualche modo, dopo aver messo il becco all'oca, con lo imperatore e con noi: — il conte in segretezza lo ha confidato a quanti lo vollero e non lo vollero sapere: se noi temessimo troppo di lui, a quest'ora avrebbe un altro generale l'esercito, gli avelli della sua famiglia un altro morto... Non pertanto badatelo. — Noi confidiamo meglio sul capitano dei nostri nemici che non su quello del nostro proprio esercito...»
«Il signor Malatesta Baglioni!»
«Egli stesso, Giovanni. Vivi col tuo nemico oggi come se dovesse diventarti amico domani; vivi oggi con l'amico come se domani dovesse riuscirti nemico. Ma di lui in seguito: — ora, per procedere con ordine, udite e riponete in mente.» A questo punto stendeva il medio e poi proseguiva: «Importa moltissimo che veggiate di rinvenire modo ad appiccare qualche pratica con i cittadini: — eccovi il filo onde svolgiate agevolmente la matassa; prendete questo segno e a chiunque vi porterà il compagno date piena fede. Monsignore da Carpi già e Giovambattista Negrini vi appianavano il sentiero; voi avete ingegno quanto basta per dispensarmi da troppe parole. In Fiorenza troverete di tre sorte fazioni: Palleschi, Ottimati e Arrabbiati. Ai primi voi prometterete poco, e noi manterremo meno: primo, perchè e' presumono farci ricuperare la città quando non hanno potuto impedire che noi la perdiamo; e siccome intendono vendercela, pagandoli secondo quelle ingorde loro voglie, a noi non basterebbe, non che Fiorenza, Roma; poi, guardati molti, moltissimi sostenuti come sospetti, non possono affaticarsi senza danno manifesto della cosa in pro nostro; terzo finalmente, tutto quello potranno fare faranno senza incitamento, costretti dalla condizione in che e' si trovano: — dal governo popolesco nulla hanno a sperare; — di mutare parte ormai non è più tempo; mutando, dall'infamia in fuori, non possono guadagnare altro: — quindi ci si manterranno fedeli... — Con gli Arrabbiati perderete l'opera e il consiglio; — costoro a suo tempo convertiremo con le mannaie. Perchè quali parole ha detto Gesù Cristo nostro divino Redentore? Ogni albero che non fa buon frutto va reciso e buttato al fuoco. — Rimane la parte del Capponi, o vogliamo dire Ottimati: questi il tiranno odiavano, non la tirannide, e la mia famiglia cacciarono per ampliare la propria; — ma più del principato detestano la repubblica: ed ora che esperimentano sotto il governo democratico essere divenuti incresciosi all'universale e confusi con l'onda del popolo, non dubito che sieno per porgervi ascolto; imperciocchè l'uomo più volentieri si accomodi a servire un solo e dominare su cento che a non servire a molti e a non dominare veruno...» — Ora stende l'anulare e continua: «Nè meno vi raccomandiamo Zanobi Bartolini, uomo superbo, amante della libertà, ma di sè più assai: guadagnarlo è impossibile, ingannarlo difficile; qui conviene adoperare l'estremo dell'arte. Questi uomini di acuto intelletto presentano quasi sempre un lato da potere essere offesi, e consiste nello stimare sè troppo, — troppo poco altrui: — fingerete che noi ci abbandoniamo nelle sue braccia, che vogliamo in tutto e per tutto rimetterci in lui, che la libertà intendiamo aver ad essere salva, arbitro egli a dettarne i regolamenti, padrone di provvedere alle sicurezze e d'imporle; null'altro desiderare noi oltre quello che si concede a qualunque cittadino non omicida, non ladro, di vivere cioè e di morire nel dolce luogo ove sortimmo la vita.» — Spiegò tutta la mano e riprese: «Fuori di modo gioverà accontare la parte col signor Malatesta. Quantunque cotesti scapestrati giovani gentiluomini abbiano ridotto in pezzi la nostra statua, noi perdoneremo loro per averci ammazzato di cera, purchè si curvino ad adorarci di carne.»
... O papa Clemente, trema che cotesta effigie del Redentore non si animi... Cap. V, pag. 138.
«Beatissimo Padre, il mondo conosce la saviezza vostra; e certo quello mi dite del signor Malatesta muove da profondo consiglio. Pure se la mia audacia non vi offende, Santità, avete quanto basta pensato alla scelleraggine di costui?»
«Ella è una cosa questa di cui egli farà i conti col diavolo a suo tempo. A noi anche giova la sua nequizia. E poi imparate gli uomini non essere nè del tutto buoni nè cattivi affatto; — basta sapere adoperarli: — e qui sta l'arte. E così come voi e noi lo riputiamo scellerato e sia, credereste, Giovanni, che un giorno una intera popolazione supplicasse la Regina del cielo per la salute di lui e, conseguita la grazia, consacrasse una tavola votiva a Maria consolatrice?»[101]
«Il popolo di Dio, per quello che lamentano i profeti, non edificò altari negli alti luoghi e vi adorò Moloc? Ma se la fama è vera, il glorioso pontefice Leone X vostro cugino, ora corrono dieci anni, non fece strangolare in castello Giampagolo padre del Malatesta? Non ha egli da vendicare il sangue di suo padre sopra la vostra famiglia?»
«Certi beneficii nuovi non tolgono di mezzo ingiurie vecchie; — ora però a tale è condotto Malatesta che, mantenendocisi avverso, la vendetta perderebbe e gli stati; delle due cose, siccome savio, accomodandosi ai tempi, renunzierà ad una, — sarà la vendetta della morte paterna: noi faremo in modo che il giorno per questa non arrivi mai. E poi Nicolò Machiavelli osserva in qualche parte delle sue scritture che gli uomini la morte del padre ti perdonano, la perdita della roba no; e la esperienza ce lo fa toccare con mano.»
«Renunzierà alla vendetta!... — Ella parmi cosa indegna cotesta del nome italiano; l'inferno aspetta colui che si tura le orecchie per non sentire il grido del sangue de' suoi.»
«Voi volete dire, il cielo aprirà alla sua anima i tesori delle sue beatitudini.»
«A Malatesta?»
«Certo che sì. — Rinunziare alla vendetta è opera meritoria, — rinunziarvi a causa della maggiore esaltazione della Chiesa poi diventa opera anche più meritoria; — non bastando questo, noi gli concederemo l'indulgenza plenaria per le colpe commesse e per quelle che commetterà. — Andate ad aprire la porta...»
Si era fatto sentire un battere lieve ad una delle quattro porte della stanza: ma così sul subito non riusciva, tranne a coloro che erano pratici, conoscere a quale avessero bussato; sicchè Giovanni Bandini non sapeva come eseguire il comando del Papa. — Questi, accortosi dell'esitanza di lui, alzò la mano e gli additò la destra porta avanti di sè. Il Bandino apriva.
Dalla porta uscì un nuovo personaggio, e le imposte gli si chiusero, come per moto proprio, senza rumore alle spalle.
Egli aveva la veste, non la sembianza, di cappuccino; — si gittò giù sopra le spalle il cappuccio esclamando con ardita voce che singolarmente contrastava al mistero col quale era stato introdotto:
«In fè di Dio avrei molto meglio tolta sul capo una partigiana che questo cappuccio di frate. — E' mi pare che mi abbia spento quel po' d'intelletto che v'era rimasto dentro... Di grazia, il cappuccio di frate costuma sempre così?»
Il nuovo venuto era un capitano perugino, anima dannata di Malatesta Baglioni; si chiamava Cencio, per soprannome Guercio: alto della persona ed aiutante; di volto ignobile, di colore giallastro, intorno agli occhi un cerchio tra il verde e il violetto, increspato d'infinite rughe in segno di lascivia, e forse anco cagionate da quel continuo stringere dei muscoli visuali che l'uomo fa nei climi di mezzogiorno per le sue costumanze costretto a consumare la vita nei campi aperti inondati dal sole. Il soprannome accennava un difetto di lui; quando la pupilla destra fissava in certo punto determinato, deviava la manca in molto sconcia maniera; quando la manca andava al segno, sbalestrava la destra. Abietto come uno schiavo, arrogante come un compagno ai misfatti d'un principe, insopportabile come un plebeo che reputa l'opera sua necessaria. — Così almeno ce lo descrivono le memorie dei tempi.
Un raggio di luce piombando dalle finestre superiori circondava la persona del Pontefice. La gravità del volto, la magnificenza delle vesti, la solennità dell'attitudine, santificate, per così dire, da quel raggio solitario, lo rendevano venerabile. — Il petulante soldato gli si accostò nel modo che si usa fra antichi famigliari e non fece atto nessuno di riverenza e di ossequio. Clemente allora stese la mano quasi per vietargli s'inoltrasse più avanti; ma egli gliela prese e, forte stringendola, esclamò:
«Che Dio vi conceda il buon giorno e il buon'anno, messor lo Pontefice, Voi mi parete, con buon rispetto vostro, Lazaro resuscitato: state lieto, che presto riavrete Fiorenza: su, allegro via: se non sollevate l'animo, davvero, prima di tornare a Roma, ho paura che ve ne andiate a Scesi...»[102] E così continuava.
Il Papa ritirò la mano, e le guance per vergogna gli diventarono vermiglie. Poco fa un imperatore prostrato gli baciava i piedi, adesso un masnadiere gli stringe la mano non altramente che se fosse un fratello in ribalderia o femmina di partito. Così è: chi si compiace andare per vie fangose, non deve dolersi se s'imbratta i sandali; — e fin dalle età rimote Dante insegnava: In chiesa co' santi, in taverna co' ghiottoni.
«Santità, che vi par egli? Vi ho servito ha dovere? Avrei voluto riporre i rocchetti d'oro che mi furono consegnati per ordine nostro nel forziere di qualche magnificenza di ambasciatore, ma e' non mi riuscì mai di penetrare di notte nella loro stanza; — e poi, vedete, io non mi sapeva risolvere a perdere que' bei rocchetti d'oro; ho propriamente violentato la mia natura; in fè di Dio, non vi salti in capo un'altra volta di comandare a un soldato che si disfaccia di così ricca roba. Se si tratterà di levargliela... oh! allora la bisogna sarà diversa; di questo me ne intendo più di voi, Beatissimo Padre; avrei loro tolto anche il cuore senza che se ne accorgessero. — Comunque sia, vi ho contentato. — Voi avreste veduto come quel pecorone del Rucellai cascò dalle nuvole quando gli trovarono i rocchetti d'oro dentro la valigia; e fu una bella burla... una burla papale in verità. — Io dei rocchetti non ne ritenni pur uno; — ci potete credere, com'è vero che noi siamo qui; — ci posso giurare sul Sacramento. — Vostra Santità, che comprende il sacrifizio, — lo sforzo, — vorrà ricompensare da par suo la mia virtù.»
Il volto del Papa non dimostrava nessuna delle interne passioni; e nonpertanto un pensiero di sangue gli traversava l'anima: quel giorno era l'ultimo pel masnadiere, se la restante sua vita non avesse dovuta adoperarsi nel tradimento in favore di papa Clemente.
Il Papa, non gli bastando rendere i suoi concittadini infelici, che nel suo perfido consiglio li voleva anche infami, meditò l'oltraggio di far nascondere i rocchetti d'oro nelle valigie degli ambasciatori e come frodatori di gabelle vituperarli alle porte di Bologna, i ricordi dei tempi raccontano essersi indotto a simile turpitudine pei mali conforti di Baccio Valori. La giustizia divina vedremo un giorno premiare costui secondo i meriti suoi con un guiderdone di sangue; ora i Medici esaltano l'empio cittadino. — Alla distruzione della patria egli vigila commessario del Papa nel campo. — Cammina per la tua via; Dio non paga il sabato; intanto i Medici ti porgono la sinistra con una borsa di danaro, tu non vedi la destra; tempo verrà che ti daranno anche quella e armata di scure sul capo. — Però il fatto riuscì diverso dal come lo avevano immaginato. I soldati commossi all'oltraggio onorarono gli ambasciatori; il popolo sospinto all'insulto, accortosi dell'inganno, applauso alla venuta loro meglio non avesse fatto a Carlo V. — E il Papa, che aveva raccolto quel fango senza potere insozzarne i suoi concittadini nel volto, si rimase con le mani imbrattate.
«Orsù via», interruppe Clemente a gran pena frenando l'impeto dell'ira, e nondimeno favella con parole sommesse e gli angoli della bocca dilata quasi al sorriso, «soldato, adempi la tua commissione: — affrettati a dirci, perchè il nostro tempo ci è caro, se il tuo signore Malatesta, risovvenendosi alfine di essere figlio e suddito della Sedia Apostolica, si delibera abbandonare le parti dei ribelli che ha tolto a sostenere. S'egli vuol farle, si faccia ed in breve; dacchè, consenta egli o repugni, poco importa alla somma delle cose, la quale sia nell'arbitrio nostro; noi ci volgiamo a lui solo perchè ci punge paterna cura di vederlo rientrare nel grembo di santa Chiesa, la quale come madre amorevole le andate ingiurie dimenticando gli apre le braccia; — perchè vogliamo risparmiare l'effusione del sangue cristiano; — perchè non rimanga guasta la terra.»
«Papa Clemente, voi siete nato vestito: — a Malatesta tarda uscire di Fiorenza quando a voi tarda di entrarvi; ed anzi, quando presi commiato da lui, mi richiamò addietro e mi raccomandò significarvi... aspettate un poco che mi rammenti per l'appunto come mi ha incombenzato dirvi.... ecco, così: — Cencio, farai in modo di persuadere a Sua Santità che il giorno più bello della mia vita sarà quello in cui, mercè l'opera del suo servo Baglioni, tornerà la sua famiglia ad albergare il palazzo de' suoi maggiori...»
Clemente in questo punto tradì sè stesso: balzò in piedi, proruppe in dimostrazione di allegrezza, e, mal sapendo che cosa si facesse, si trasse dal dito l'anello pontificale e lo pose in quello del masnadiero. Cencio, come colui che astutissimo era, se lo cavò subito dal dito e lo ripose diligentemente nella cintola. Il Papa, fissandolo dentro agli occhi, interrogò:
«Guarda dall'ingannarmi. Io ti farei mettere in pezzi anche nel tempio di Cristo in Gerusalemme! Tu non mentisci?»
«In fè di Dio, e vi par'egli che vorrei commettere un tanto peccato? Forse non so che per ogni menzione conviene penare sette anni nel purgatorio? O che credete l'anima non prema anche a noi? Però il pericolo è grande, e vi abbisogna mercede proporzionata. — Sul prezzo ci accomoderemo di leggieri; sul modo del pagamento, con maggiore difficoltà...»
«Desideri Malatesta; — si sforzi a desiderare: — noi qualunque sua voglia faremo piena. Ama la salute dell'anima? — Noi gli apriremo le porte del paradiso, senza che pur di volo tocchi il purgatorio.»
«Anche questo a qualche cosa è buono, ma or si domanda», e con la mano il masnadiero faceva atto del soppesare, «e ora si domanda.... via.... meno spirituale guiderdone.»
«Ben lo sapevamo noi che senza prezzo nulla si compra: — esponi il patto.»
«Prima di tutto, il signor Malatesta vuol sangue.»
«Sangue? Di cui sangue?»
«Di Sforza e di Baccio Baglioni, seguaci, complici ed aderenti loro: oramai pretende che voi non gli abbiate a ricovrare sotto il manto della Chiesa; mandateli in pace; ognuno abbandonate nelle braccia di Dio. Sorga tra loro arbitra la giustizia della spada...»
«Avanti.»
«Tutti i capitani e soldati tanto a piè quanto a cavallo delle terre della Chiesa allo stipendio dei Fiorentini sotto la condotta del signor Malatesta sieno perdonati; i beni salvi; se presi adesso, restituiti senza spendio di sorte alcuna.»
«Ancora.»
«Il signor Malatesta, con qualsivoglia grado e dignità e con suoi parenti, seguaci, complici e aderenti, possa a suo beneplacito liberamente tornare a Perugia e quivi commorare in buona grazia di Sua Santità.»
«Questo non era mestieri domandare; — ben lo aspettavamo noi: — la presenza del signor Baglioni reca onore e decoro al dominio della Chiesa.»
«Tanto meglio: rimesso il bando al capitano Prospero della Cornia per l'omicidio di Jeronimo degli Oddi e i suoi figliuoli.»
«Il Figlio di Dio», riprese il Papa additando il Cristo, «perdonò a coloro che lo sospesero in croce; — a santa Chiesa sua sposa imitare gli esempi divini è soave: chieda il capitano Prospero col cuore pentito, il perdono del misfatto al cielo, noi lo abbiamo perdonato....»
«Si conceda indulto al conte Sforza da Scarpeto pei maleficii commessi, e gli sieno restituite le possessioni.»
«Abbia l'indulto e i beni.»
«La Santità Vostra conceda pieno assoluto dominio al signor Malatesta di Nocera sulla Valle Toppina, Bevagna, Tunigiana, Castellabono col titolo di duca; Rota Castelli e la metà di Chiusi libero; — un vescovato di diecimila scudi d'entrata l'anno per lo nipote; — la figlia del duca di Camerino per Ridolfo suo figliuolo; — e finalmente componga a suo favore le differenze pei castelli con gli Orvietani.»
«Avanti.»
«Per lui non ho a chiedere più nulla. — Se nella vostra larghezza voleste donare anche a me qualche beneficio... meglio dei vostri abbati sapremo governare una badia... ed io, vedete, sono stracco dei travagli del campo, — e sento che il cielo mi chiama proprio alla vita contemplativa...»
Il Papa, rammentandosi allora di avergli nella prima caldezza del sangue donato, un anello di troppo grande valore, e se ne pentendo adesso, punto dall'avarizia, della richiesta di Cencio, immaginava fare suo pro, e quindi rispondea:
«A questo avevamo pensato noi: — sta per pacificarsi l'Italia; e ci conviene provvedere allo stato di uomini leali che militarono in vantaggio della Chiesa: anzi, ora che ci ricorre in mente, e' ci pare che tu faresti bene a restituirci l'anello. — Egli è troppo piccolo dono ai meriti tuoi. — Per una volta che renderai adesso, ti ristoreranno in futuro dieci volte cento. Ancora avverti che te lo potrebbero trovare indosso e farti capitare male, ben conoscendosi alla forma come appartenente a vescovo o prelato.»
«Deh! Padre Santo», fingendo devozione favella Cencio, «lasciate che per la salute dell'anima mia non me ne scompagni: io m'accorgo dovere contenersi in lui virtù mirifica da salvare da incantagioni e malìe; ed io ho tanta paura del demonio che mi par di morire al solo sentirmelo rammentare davanti! — Che mi faccia capitare male non dubitate: io lo terrò celato, nè me lo terranno vivo; e quando sarò morto, voi sentite che peggio non mi potrà accadere.»
«Bene, sia. Torna tosto al suo signor Malatesta e raccomandagli si affretti; — avrà piena la mercede secondo le sue inchieste, e a noi spetta concedergliela anche maggiore: egli ci parve umile troppo e rimesso; si affidi alla larghezza medicea. Al nepote potremmo anche concedere il cappello rosso. — A lui... il gonfaloniere di santa Chiesa conta circa settant'anni; egli, se giunge, non sorpassa i quarantacinque...»
«Malatesta vi prega che la Santità Vostra, così per ricordo, si degni porre il nome qui sotto questa cedola...»
«Di gran cuore.» — E il papa firmò senza pure guardarla.
«Poi mi disse ancora: Cencio, bada, il proverbio spagnuolo insegna: parola e penne il vento le porta via, — la promessa grave sfonda la carta dove sta segnata... sicchè procura farti dare tanto in mano che mi assicuri. — Io, ben me ne accorgo, sono un mal destro negoziatore: e queste cose non ve le dovrei dire, o dirvele in maniera più soave, ma per me, quando si può andare per la piana, fuggo l'erta e la scesa. — Patti chiari, amicizia lunga...»
«Ah! Malatesta pretende sicurezze?»
«Le pretende!... no, le desidera. Siccome egli è bellissimo novellatore, costui sovente costuma di raccontarmi che male hanno dipinto i pittori il Tempo in sembianza di vecchio con la falce in mano; dovevano, egli dice, invece immaginarlo giovane e poderoso con una granata con la quale dì e notte infaticabilmente spazza stelle, spazza dii, spazza vite, amori, odii, gratitudine, e tutto spazza, e fattone mucchio lo getta dentro certa riviera che si chiama l'oblio...»
«Digli che rimarrà a Fiorenza con la sua gente finchè non abbia adempito ai trattati. Accostati! guarda quest'uomo in faccia.»
«L'ho guardato.»
«Bada non dimenticarne il sembiante.»
«State sicuro; — non potrei dimenticarlo volendo: ha qualche cosa in volto che mi rammenta il mio signore Malatesta.»
La fronte di Giovanni Bandini diventò livida; le sue labbra tremarono.
«Questi verrà in campo, nostro commissario segreto; — il tuo signore e tu stesso manterrete le pratiche con lui: — secondo che l'occasione vi si offra, corrisponderete insieme intorno alle cose a sapersi necessarie. — Or va'... va' con Dio.»
«Messer lo Pontefice, statemi sano», riprende Cencio e fa atto di stringergli la destra. Clemente la tira a sè con disdegno; e l'altro, senza pure accorgersene, continua: «A rivederci, e non in Pellicceria, come disse la volpe al suo cugino lupo: a rivederci per darci tempone e bere un gotto alla memoria della libertà di Fiorenza.»
Il Pontefice tendendo il braccio comanda:
«Giovanni, date commiato a questo capitano.»
«Mi paiono mille anni di farmi frate; — la barbuta comincia a pesarmi sulle tempie: oh la bella vita ch'è la vita da abbate...!»
«Soldato!» esclama Clemente richiamando indietro Cencio, «vorresti mutare l'anello che noi ti donammo con mille ducati d'oro del sole? — tu ci miglioreresti di un terzo.»
«Che è, che fa a me il terzo? Forse io conservo per intendimento mondano l'anello che toccò il dito della Vostra Beatitudine? Io me lo tengo caro, perchè mi preservi dalle tentazioni del demonio e dal peccare più oltre; — i miei peccati mortali, vedete, sono più di sette...»
«Or dunque vattene.»
Giovanni Bandini, posto ch'ebbe fuori della stanza costui e chiuso diligentemente le porte, tornò indietro e disse:
«Incomportabili cose a cotesti ribaldi concedeste, Santità.»
«Non rammentate voi il consiglio di Guido da Montefeltro a papa Bonifazio VIII?
Lunga promessa coll'attender corto
Ti farà trionfar nell'alto seggio[103].»
«I benefizii dunque?»
«Lui ordinerò diacono, e Malatesta suddiacono, quando il demonio celebrerà la messa.»
Ed ambedue tornarono nell'attitudine prima. Dopo un silenzio non breve, fu inteso pienamente percuotere ad una delle quattro porte. Il Papa visibilmente trasalì e comandò al Bandino andasse ad aprire, dicendo:
«Ecco gli oratori fiorentini.»
Mentre andava il Bandino, egli curvò più del solito le spalle, — il messale si trasse davanti, — accomodò il Cristo; — poi stette in sembianza impassibile ad aspettare.
Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Fiorenza. — Giunti appena che furono al cospetto del Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e co' gesti favellava:
«Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L'imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: — voi poi siete parenti, amici, tutti figliuoli della medesima madre. — Messere Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Fiorenza nostra in famiglia. A quale stato la povera città si trova adesso condotta?»
«Dentro», rispose severo messere Nicolò, «non si patisce difetto di animo nè di vettovaglia nè d'armi: — i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. — Tanta e sì grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il giorno finale; — dappertutto seminano il deserto...»[104]
«O Fiorenza mia, dove ti meneranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. — Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano... queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall'aspetto in fuori nessuna parte hanno di uomo, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicolò....»[105]
«Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato», riprese a dire il Capponi, «l'intendere la buona mente della Santità Vostra verso la patria comune... vostra madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s'innuovi.»
«Libertà!» interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: «e parvi libertà questa dove senza cagione parte de' cittadini s'imprigionano, molti più si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Paionvi modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l'altro in Fiorenza e farvi una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Onesto ed ordinato vivere è quello della città dove i più tristi e senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino?[106] Una mano di ribaldi è prevalsa e tirannicamente vi governa; niuna signoria più grave di quella dello schiavo diventato padrone. Almeno nei tumulti dei Ciompi sorse un Michele Lando, uomo di cuore retto, di cui lo spirito camminava nelle vie del Signore. Ora chi vi regge? Un Francesco Carduccio, un fallito, un uomo che cerca, pescando nelle acque torbe, fare suo pro dell'altrui, che i beni dei servi di Dio sacrilegiamente vende per abbandonarvi un giorno, sazio dell'oro e del sangue di voi! — Sconsigliati! sconsigliati! Ravvedetevi una volta!»
«Beatitudine, questo modo di vivere piace all'universale. Allora qual cosa rimane al semplice cittadino? O accomodarsi al volere dei più, o tôrre bando volontario dalla patria. Chiunque pretende imporre un reggimento nuovo al suo paese, e sia pure migliore del vecchio, contro alla volontà dei cittadini, quegli è tiranno...»
«Or bene, messer Nicolò», riprende il Pontefice, «fate piena balìa, adunate il parlamento, e stiamoci a quanto delibererà il popolo.»
«Popolo sì, non plebe; la plebe vedemmo sempre corriva ai propri danni; voi conoscete il ricordo posto nella sala della Signoria:
Che chi cerca di fare il parlamento,
Cerca tôrti di mano il reggimento.»
«Non ci aspettavamo da voi udire citati, o messere Nicolò, i barbari versi dell'apostata Savonarola...»
«Dite piuttosto del martire della libertà.»
«Su questo proposito non favelliamo. Ora dunque proponeteci voi tale forma di governo per cui i miei parenti tornando in Fiorenza stieno sicuri che non verranno loro troncati i sonni da un ferro nel cuore; per la quale non temano che un giorno le proprie ossa e quelle dei loro padri sieno tolte dalle antiche sepolture e date miserabile pasto alla fame dei cani.»
«Siffatte abbominazioni noi non abbiamo commesso...»
«No?» sempre incalzando continua il Pontefice, «sarebbe questo il primo sangue dei Medici che bagna il terreno della patria? La prima volta questa che una madre di nostra casa piange sopra i figliuoli trucidati? — Mio padre Giuliano non giacque miseramente trafitto nel santuario? L'inclito zio Lorenzo non salvò a gran pena la vita dal pugnale nemico? Quanta mostrarono i Medici benevolenza ed amore ai Fiorentini, altrettanto questi gli ricambiarono con rabbiosissimo odio. La storia della nostra famiglia è una serie di benefizii invano prodigati, di morti, di esilii e di confisce immeritamente sofferte, crudelmente decretate. E voi stesso, messere Nicolò, diteci: qualcosa guadagnaste voi con questo ingrato popolo maligno in guiderdone delle vostre cure, degli uffici penosi, dei travagli durati? Per poco stette non vi mozzassero il capo.»
«Santità, quando mi elessero gonfaloniere, mi proibirono espressamente mantenere corrispondenze particolari coi signori stranieri: mandando lettere a Vostra Beatitudine e da lei ricevendone, con tutto che io lo facessi per bene, non disobbedivo meno all'ordine del popolo; egli poteva punirmi; non volle; — mi rimandò dall'ufficio, e in questo operò generosamente, non iniquamente.»
«Or via, nobili uomini, datemi ascolto: io voglio abbia un reggimento Fiorenza che, senza offendere la libertà, una della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della città gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poichè le fortune e la virtù di per sè stesse distinguono l'uomo e il cittadino della povertà e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessità di natura.»
«I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo a nostra posta istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?...»
Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocchè vedeva ogni arte riuscirgli meno; alfine, tenendo la faccia dimessa a terra favellò:
«Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli traviati.»
Iacopo Guicciardini, troppo diverso da Francesco l'istorico di triste memoria, camminava svisceratissimo della libertà; — di animo audace, pronto di lingua; — lo avevano aggiunto quarto all'ambasceria per opera dei Piagnoni o Arrabbiati, onde con la sua avventatezza temperasse la pacata natura degli altri. Fino a quel punto, di ciò caldamente supplicato dai compagni, taceva; adesso poi, sentendosi divampare il sangue, l'ira prorompergli dai precordii, gridò:
«Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Fiorenza, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra città....»
«Noi siamo vicario di Cristo.»
«Per proteggere», replica il Guicciardino, «non già per distruggere; per beneficare, non per uccidere. Cristo abita nei cieli: in terra quella signoria che noi gli concediamo egli prende. Sua legge è l'Evangelo, legge che predica gli uomini liberi ed eguali. E voi osate chiamarvi vicario di Cristo — mostrateci il mandato; — se stiamo all'opere, voi mi parete il vicario del...»
«Messere Iacopo!» esclamarono i suoi compagni facendoglisi attorno, — e lo tiravano per le vesti e con cento modi diversi s'ingegnavano a farlo tacere — «acchetatevi, per Dio! voi rovinerete la patria e noi...»
«Se a voi importa la vostra quanto a me la mia vita, lasciatemi favellare. Alla patria non può avvenire peggio di quello che adesso le avviene. Le mie parole rimarranno come testimonianza tra i posseri; e non sia detto che, mentre tanti liberi petti cimentano la vita in pro della patria, nessuno tra noi sia stato valente ad esprimere generose parole. — Giulio dei Medici, molti avete dedotto gravami contro la vostra terra, molte vi lasciai discorrere menzognere lodi in vantaggio della vostra famiglia. Ora sappiate la vostra casa essere stata tra noi come l'insetto della nuova Spagna, il quale penetra nella pelle sottile quanto una corona d'ago e poi s'ingrossa sì che t'uccide[107]. Tre volte in novantaquattro anni noi lo cacciammo, perchè volle i suoi concittadini ridurre in servitù, la patria convertire in mensa dove noi, i nostri figli, le facoltà nostre potesse divorare a bell'agio. Meglio per noi se i padri nostri avessero avuto più crudeltà nello spengerla affatto, o meno debolezza per richiamarla. Ogni anno la famiglia vostra ha svolto una spira per avvilupparci dentro, come fecero i serpenti di Laocoonte e dei suoi figliuoli. Lorenzo si usurpò la fama di grande, Lione eziandio: hanno eglino forse creato il proprio secolo? Nessuno uomo è potente a creare un secolo; — Dio solo lo crea, e la fortuna. Lorenzo, se ai virtuosi sovvenne, ciò fu per libidine di fama e con danari non suoi: — a Roma lo avrebbero punito come reo di peculato, — noi deboli e stolti lo salutammo col nome di ottimo, liberalissimo. A che parlate di sangue? A che rinnovate la memoria degli antichi delitti? Interrogate le tombe e, per ogni stilla di sangue dei Medici versato, sorgeranno spettri a presentarvi tazze colme del sangue loro sparso dai vostri maggiori. E per venire a noi, perchè adoperate adesso e lusinghe e ambagi e minacce? Perchè vi sta immobile nella mente il fiero disegno di fare schiava la vostra patria infelice? Se alcuni giovani protervi guastarono nell'Annunziata le statue della vostra famiglia, se la vostra immagine tolsero da San Pietro Morone, quale colpa è nello stato? Forse un reggimento sta mallevadore per le azioni dei singoli cittadini? Dove la Sedia vostra Apostolica avesse a pagare pei delitti di coloro che vi seggono sopra, ora (tacendo degli altri), pei misfatti di Alessandro VI, dove l'avrebbe condannata la giustizia di Dio? I signori Otto di Guardia ordinarono si atterrassero le vostre armi; e bene ordinarono, come quelle che non s'innalzavano a decoro della famiglia, bensì in segno di principato. — I beni della Chiesa alienammo, poichè due vostre bolle o brevi ce ne somministravano facoltà[108]. — E che? — Scrollate il capo? Forse mentisco io? Le bolle non si ponno negare, a meno che a voi non piaccia interpretarle, secondo il vostro costume, efficaci ad alienare i beni ecclesiastici per combattere la patria, non già per difenderla. — Aprite, Giulio, l'animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno, nè uomini nè santi. Voi intendete assoluto signore dominare su Fiorenza. Voi vorreste le nostre teste scalini per salire sul trono e quindi le prime ad essere calpestate. «Or bene, dunque sappiate, poichè la Repubblica non ha potuto impetrare mercede alcuna da voi per liberarsi da sì gran danni che le fa attorno l'esercito vostro, averci ella commesso di far intendere alla Santità Vostra, essere in tutto deliberata a sostenere la sua libertà fino alla morte. In tanto giusta causa non trovando pietà appresso voi, come si converrebbe a vicario di Cristo, ricorre al trono di Dio e lo supplica che, viste le ragioni dell'una parte e dell'altra, dia di noi quel giudizio che gli parrà giusto. Sappiamo che nella difesa che fa la città, la quale è pur vostra patria, difende in prima la libertà, dono largito da Dio ai mortali per lo più bello e più maraviglioso ch'egli mai conceda dopo la vita; dipoi vi si difende la religione, i figliuoli, la roba, cose sopra tutte carissime, le quali dal vostro esercito, composto di barbare nazioni, ci sono disperse, parte ammazzate, parte messe in pericolo, senza scorgersi in voi non dico ombra di misericordia, anzi scorgendosi in voi ognora più una grandissima crudeltà contro di lei nella quale nato, allevato e per suo mezzo a così alto grado condotto vi siete. Dalla pietà di questa condotta in tante miserie se non vi muovete, quale altra cosa vi muoverà a compassione? Non posso, rimettendomi nella memoria i crudi strazii ch'ella patisce, contenere il pianto e non dirompermi di tal maniera nelle lagrime che più non possa, non dico parlare, ma sostenere questa infelicissima vita. E voi, che dite tenere il luogo in terra del Redentore piissimo dell'universo, non vi commovete e non comandate che si lasci stare quella patria innocente, che più non si affligga con tanta rovina...»[109]
A tante e tanto gravi parole il Pontefice si era lasciato andare genuflesso davanti la immagine di Cristo, e quivi a braccia aperte, fingendo singhiozzare come preso da immenso dolore, orava;
«O mio divino Redentore, senza mormorare mi sottopongo alla dura prova con la quale intendi cimentare gli ultimi anni della mia vita. Ella è superiore però alla mia natura, sicchè vi soccombo sotto. A me la taccia di crudele? Non amo la mia patria io? Tiranno io, o coloro che, ridotta in pochi Arrabbiati la pubblica autorità, i meglio autorevoli cittadini bandirono o imprigionarono?...»
«Alzatevi! alzatevi!» esclama il Guicciardino, «tanto Dio non ingannerete voi. Oh! meglio che pregare ipocritamente il divino Redentore, a voi potenti della terra gioverebbe lealmente imitarlo...»
«Messere Iacopo, io ricevo col cuore umiliato la tribolazione che l'Altissimo per la bocca vostra mi manda. In voi discerno uno strumento della volontà divina e vi onoro. Quando pure non fosse così, questo mio Dio, che pregò pei suoi uccisori perchè non sapevano quello si facessero, mi conforterebbe a pregare per voi che non sapete quello che vi diciate.»
«Non so quello ch'io mi dica io? O papa Clemente, trema che cotesta effigie del Redentore non si animi per miracolo; temi quella lingua si sciolga e riveli intiere le cupezze dell'animo tuo. Se Cristo stacca di croce la sua destra inchiodata.... trema.... non la leverà per benedirti....»
«Orsù», interrompe il Pontefice levandosi in piedi, «tregua alle parole; oramai ne proferimmo anche troppe. Iacopo, la vostra lingua è riottosa come le acque di un torrente. Voi ponete la vostra causa nelle mani di Dio, ed ancora io ve la pongo; discerna egli e giudichi: — dacchè traemmo la spada, — la spada dunque difinisca la lite.»
«Tu hai raccolto tutti i venti del settentrione per divellere dal tronco la fronda inaridita. Come Faraone, superbisci pei tuoi cavalli, per le tue molte milizie: — bada al mar Rosso! — Dio può rendere la fronda inaridita tenace quanto la querce delle Alpi. Ai buoni è concesso dai colpi di fortuna appellare all'Eterno. — Alle vittorie dei tristi esultano i dannati. Se talvolta un consiglio profondo esalta l'empio, ciò il fa perchè senta più fiero il dolore della rovina. Tranquilli, se non lieti, ci diamo in balia degli eventi, perchè, vincendo, ci aspetta la fama di avventurosi e di onorati; soccombendo alla impresa, il mondo ci chiamerà infelici, ma onorati pur sempre. — Tu poi affacciati al futuro, ardisci con occhi aperti contemplare il tempo che viene.., e di'... qual cosa tu vedi?... Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia, chè non ci sobbissi sul capo, dacchè l'ira di Dio ci gravita sopra. — Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono carità patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il David del Buonarotti si moverà prima a difendervi che il cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto le rovine di lei.»
E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la mano sul battente della porta per uscire.
«Iacopo, fermatevi», esclama il Papa, «e udite le mie estreme parole. Sieno i Medici per autorità nello stato vostri compagni non principi; componete di quarantotto famiglie un senato, e in quello risieda il potere di governare...»
«Se il mio antico genitore mi avesse proposta infamia e delitto siffatti, io mi adopererei a fare sì che la scure del carnefice insanguinasse i suoi capelli bianchi.»
E senz'altre parole aggiungere usciva della sala.
«Voi, messere Nicolò dotato come siete di più temperata natura», riprende Clemente, «considererete col buon giudizio vostro la mia offerta; — non vogliate delle cose l'estremo: accomodatevi ai tempi; — dominiamo insieme.»
«Le insinuazioni vostre», gli rispose il Capponi, «mi suonano uguali a quelle che mosse Satana a Gesù Cristo quando dal pinaccolo del tempio gli mostrava i regni della terra: ufficio di cittadino è turarsi le orecchie e fuggire dalle tentazioni.»
Profferiti cotesti accenti, Nicolò Capponi tenne dietro a Iacopo Guicciardini.
«Dunque non mi riuscirà a farvi intendere ragione, ortinati e protervi? Messere Andreuolo, fatevi messaggero dei miei sensi agli ottimati...»
«Dove un mio figlio sapessi ambasciatore di tanta nequizia, io gli andrei contro per ispezzargli la testa alla parete.»
Ciò detto, il Nicolini scomparve.
«Almeno voi, Soderini...»
«Io vi scongiuro, papa Clemente, a spargervi le chiome di cenere, umiliarvi nel santuario e domandare mercede davvero dei vostri peccati; se pure i vostri peccati non superano la misericordia infinita.»
E lasciò solo il pontefice.
Papa Clemente per bene due volte con intensissima rabbia si morse le mani ed esclamò:
«Il mondo mi diventa la torre di Babele: quando domando vizio, incontro virtù; — quando abbisogno di virtù, trovo vizio... Pure tanta vita mi avanza da adoperare in modo che i vostri nepoti ricercando a' vostri figli libertà che significhi, quelli additando loro le vostre dimore demolite, i vostri sepolcri scoperchiati, rispondono: La libertà significa morte e rovina!»