Читать книгу Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 11
VII.
Tumulti quando incominciassero.
ОглавлениеContro al vero manifesto è supposto dal Decreto, che l'agitazione apparisse sul declinare del 1848. Ufficio solenne di ogni storico è scrivere la verità, massime poi s'egli ordisca storie per gli effetti criminali. L'agitazione precede lo Statuto; crebbe dopo per le ragioni già discorse; finalmente diventò irresistibile quando il Principe partendo le lasciava libero il campo. Chi mi sa dire in qual giorno preciso fu rotta la guerra contro l'Austria? Se io non erro, incominciava, non declinava con l'anno 1848. — Crede egli il Decreto, che il Principe nostro adoperasse spontaneo il diritto che gli appartiene per l'Articolo 13 dello Statuto di dichiarare la guerra? No, egli nol crede. Taccio dei titoli dimessi, facile sacrifizio; ma non si renunziano spontaneamente gli affetti della propria famiglia, non le si muove nemico mentre ella versa nel massimo pericolo, non le si porge la spada per ferirla invece della mano per soccorrerla, non si distrugge un appoggio sicuro per andare in traccia di fortune minaccievoli, o per lo meno dubbiose. Prova ella è questa di agitazione veementissima contro la quale consiglio non vale; prova di forza, che strascinava, ineluttabile, conosciuta da quanti vivono al mondo: forza, che travolse antichi reami, e re, e Popoli come paglie davanti al turbine; alla quale, si pretende, che io solo potessi, dovessi, e in tutto, resistere, e sempre. Ora questa guerra, sopra ogni altra causa, fu motivo di sconvolgimento nel Popolo, così che fra i tumulti guerreschi, la confusione degli apparecchi, e gli animi concitati a tremenda febbre, tacevano le leggi, sbigottivano i Magistrati, disfacevasi lo Stato.
Io troppo bene mi accorgo che sorriderà la gente di questo mio affaticarmi a portare acqua al mare; ma poichè l'Accusa, contro la verità, nel fine riposto di sostenere che l'agitazione sorse nel declivo del 1848, per potermene dichiarare benignamente fomentatore, dissimula i fatti, importa restituirli alla genuina loro cronologia.
Nell'ottobre 1847 fu distrutta la Polizia. Il Municipio fiorentino, con la Notificazione del 28 ottobre 1847, deplora il fatto del giorno innanzi, suscitato dalla brutalità dello sbirro Paolini, e dichiara che il Popolo mutò un nobile sentimento di compassione in atti violenti.
Tumulto in Firenze per la occupazione e atroci atti commessi a Fivizzano. Popolo vuol correre in massa in Lunigiana. Il Ministro Ridolfi, coartato a scendere in piazza, promette che il Governo si farebbe rendere conto delle commesse iniquità. La Patria dell'11 novembre 1847, per questa volta anch'essa trova «che cotesti fatti atroci avevano commosso tutte le anime oneste.»
Il Governo, costretto dalla volontà del Popolo, manda gente a Pietrasanta per cagione di Fivizzano. Compagnia di Granatieri, accolta dal Popolo ai cancelli della Fortezza, è scortata dal Popolo fuori di Porta. La Patria nobilita il Popolo accorso, «quella parte di Popolo, che certuni male chiamano minuta, mentre è parte operaia, nè grossa o minuta come ogni altra parte di Popolo, il quale nome comprende tutti quanti, eccetto il Principe; la parte operaia del Popolo spontaneamente empì le vie della Fortezza: altra gente pure accorse spontanea.» Patria, 15 novembre 1847.
Nel novembre del 1847, per la strage di un caporale, il Popolo a Livorno tumultua; vuole in sue mani lo uccisore per istracciarlo; il Delegato Zannetti è bistrattato; più tardi percosso, spinto in carcere, e cacciato via.
Sommosse popolari a Livorno nel mese di decembre successivo, di cui terrò altrove ragionamento.
La Patria nel 18 gennaio 1848 annunzia: «che una forte agitazione, e potente e irresistibile commuove tutta la Italia.» E nel 23 dello stesso mese, alla ricisa bandisce: «Toscana tutta quanta ha bisogno di essere riordinata incominciando dal Governo.»
Sul declinare del febbraio 1848 la Patria ricorda le riunioni tumultuarie in Firenze, pei fitti delle case. Nel 20 aprile 1848 predica il Giornale stesso: «il pericolo della Repubblica imminente però non potersi evitare adulando i Principi, e con atti arbitrarii e dittatorii di Ministri adulatori.... le forze politiche stanno ormai nelle mani al popolo.»
Nel 26 maggio 1848 i Fiorentini ardono la carrozza del napoletano Statella, donde la Patria ricava argomento di ammonire i buoni e il Governo, che i tempi si fanno grossi.
Turbolenze lesive la proprietà. In Empoli si fa violenza al mercato per acquistare grano a prezzo basso; lo stesso accade a Fucecchio, lo stesso a Pistoia, a San Piero in Bagno, a Siena. I possidenti se ne commuovono; la Patria del 14 luglio 1848 solleva desolate grida esclamando: «è necessario provvedere subito e fortemente per reprimere e impedire questi disordini. Non vi è contagio peggiore di questo.» Lo incubo del comunismo già appuntella le ginocchia sul petto dei possidenti!
Nel luglio del 1848, alle adunanze pubbliche del Consiglio Generale dolevansi di mene austro-gesuitiche turbatrici dello Stato, e il Ministro dello Interno parlandone come di cosa vecchia, rispondeva, pur troppo non ignorarle il Governo, ed importare che riescano indarno. «Il Governo fa quanto può, ma per riuscire completamente, converrebbe ch'ei non fosse disarmato, e da questo lato, bisogna pur dirlo, gli manca la forza. Fu distrutta la Polizia, e non fu ancora ristabilita. In questo stato di cose è facile vedere che molte volte mancò il mezzo per fare eseguire le misure governative, altre per provvedere. Manca la forza necessaria al potere esecutivo.»
Nonostante, l'Accusa me solo incolpa per non avere voluto, o saputo Ministro prevenire e reprimere i tumulti; mi chiama impotente per vizio di origine, o forse anche complice!
Nel 30 luglio, grande sorse il tumulto in Firenze: la forza fu respinta, il Popolo scese ad agitarsi con insoliti indizii.
Sopra la stessa Piazza Granducale, a piè del Palazzo Vecchio erano scritti e letti Decreti pei quali la decadenza del Principe dichiaravasi, un governo provvisorio instituivasi. Di ciò fanno prova il processo compilato in quel tempo, e il proclama del Governo comparso il 31 luglio seguente: «La tranquillità pubblica fu gravemente compromessa in Firenze per opera di perturbatori, che in gran parte non appartengono nemmeno a questa città, e che manifestavano la intenzione di rovesciare l'attuale ordinamento politico del paese, e avvolgerlo nei disastri, che sono sempre la conseguenza delle commozioni violente.[11]» In molti cagione, in altri pretesto del tumulto i disastri della guerra italiana, e il sospetto dei sottili provvedimenti fatti dal Ministero. La Guardia Civica, chiamata più volte, si aduna scarsa e repugnante a sostenere un Ministero caduto nell'odio universale. I soliti agitatori declamano, ed eccitano i Popoli su pei canti delle strade. Alle ore sette comparve un proclama firmato Ridolfi, col quale si promettevano per domani la legge per muovere la Guardia Civica, ed altri apparecchi di guerra. Così con queste ed altre più efficaci parole raccontava i successi della giornata la Patria del 31 luglio 1848. Onde a ragione potè esclamare il Ministro Ridolfi, vedendo la Patria fra i suoi avversarii: «Saul anche esso è tra i profeti?»[12]
Tumulti gravissimi nei pressi di Massa Ducale, con collisione di contadini e soldati, non senza morti e feriti.[13]
Tumulti contemporanei succedono a Lucca, a Pisa, a Livorno, e si temono a Firenze.[14]
Tumulti di contraria indole a Laterina, dove in mezzo a scariche di fucile gridasi dai campagnuoli: Viva i Tedeschi! Morte alla Guardia Civica.[15]
Conflitto sanguinoso, e aperta rivolta a Livorno nel 2 settembre 1848. Fortezze assalite dal Popolo, capitolano col Generale Torres. Si tratta di eleggere un governo provvisorio. Il Governo perde ogni autorità sul paese.[16]
E mentre, come sarà in breve chiarito, io mi conduco a Livorno per salvare, quasi malgrado il Ministero, cotesta mia Patria dall'anarchia, e ricondurla, già già tracollante nella Repubblica, sotto la obbedienza del Principe Costituzionale, la Patria in data del 22 settembre 1848 narra, che a Lucca, a Pistoia, a Prato (e a Firenze non mancano) gli agitatori indefessamente travagliansi; nel 28 settembre afferma, che uno spirito di vertigine ha suscitato agitatori da per tutto; e già fino dal 7 settembre cotesto Giornale, i fini, le occasioni, e i motivi del tremendo agitare adduceva nelle seguenti parole: «Il partito repubblicano in Italia non ha dimenticato il suo disegno dopo il fatale armistizio. Esso allegando, che i Principi Costituzionali d'Italia non potessero più sostenere la causa della Indipendenza con una guerra ordinata, ha detto non esservi altro scampo che una guerra insurrezionale dei Popoli, e per muovere i Popoli ha creduto espediente di prendere, e creare tutte le occasioni di agitare lo interno degli Stati, a fine di potere in queste commozioni sostituire la Repubblica al Principato Costituzionale, e allora con tutte le eccitazioni possibili alzare le moltitudini, e precipitarle furiose e infierite contro gli eserciti austriaci.» E quanto diceva era vero.
Tumulti in Firenze nei giorni 3 e 4 di ottobre, tendenti a offendere la pubblica tranquillità, e la personale sicurezza.[17]
Tumulti a Pisa il 7 ottobre, qualificati perfidi tentativi di anarchisti.[18]
Tumulti a Livorno nel 19 ottobre 1848, per quanto avverte la Gazzetta di Firenze del giorno 20.
Il Consiglio Generale ebbe a sospendere la seduta del 23 settembre 1848 come nell'8 febbraio 1849. Il Presidente in quel giorno si cuopriva, e si allontanava; dopo un'ora riapriva la seduta appunto come nell'8 febbraio 1849.[19]
La Guardia Civica lucchese, per sottrarre il conte De Laugier alle ingiurie della plebe ammutinata, ebbe a tenerlo custodito nella caserma nello agosto 1848.[20]
La milizia, già sul cadere del luglio 1848, dava lo esempio pessimo di cacciare via gli Ufficiali.[21]
E con più infame delitto le palle avanzate dalla guerra lombarda sparava nel collo al Capitano, uccidendolo a Pecorile nel 9 agosto 1848.[22] Gregarii eccitati all'odio dei superiori; superiori disprezzanti i gregarii: ogni vincolo infranto, milizia diventata ormai terrore non difesa. Questi erano i soldati, che si ha coraggio sostenere corrotti da me! Di ciò pure sarà ragionato altrove. —
La mancanza delle carte necessarie non mi concede di tessere racconto più esatto dei tumulti che agitarono la Toscana dal 1846 in poi; ma basterà tanto per dire apertamente, ch'è falso si manifestasse l'agitazione fra noi sul declinare del 1848 soltanto: da più lontana origine essa muove; più antichi di quello che i Giudici dissimulano, sono gli attentati per rovesciare la forma governativa dello Stato; più vecchio che i Giudici non fingono, il disfacimento di ogni mezzo governativo per prevenire, e per reprimere; prima assai del febbraio 1849 il Popolo aveva imparato a turbare le sedute del Consiglio Generale. Chi per vaghezza, o per obbligo si accinge a raccontare fatti, o dopo lungo studio giunse a conoscerli, oppure non vi giunse: nel primo caso gli esponga ingenuo; nell'altro taccia verecondo. Qualunque poi o per fatuo, o per servile, o per altro più pravo consiglio opera diversamente, non compone storie, ma commette infamie: e quale seminò, tale raccoglie. —
Le quali cose condurranno a confessare, che non inutile fu la mia chiamata al Ministero. Me posero a lottare, non a governare; io fui la barriera ultima intorno allo abisso; e se i miei concittadini andranno persuasi di questo, che se io non era, deplorabili giorni avrebbe veduto la Toscana, terrò siffatta persuasione per conforto del mio indegno patire. Perchè poi ne vadano meglio convinti, esporrò in quali stremi fosse ridotto il paese.
Ho riportato qui sopra le parole gravissime del Ministro Ridolfi. Se esaminiamo gli atti dell'autorità, i discorsi pronunziati nelle Camere legislative, e le confessioni degli stessi Ministri, troveremo sempre il medesimo lamento. Nella seduta del Consiglio Generale del 16 ottobre 1848 il deputato Mazzoni domanda «se sia o no vero, che dal settembre del decorso anno la Toscana sia stata senza Polizia, e a confessione dello stesso Governo senza forza?» Odaldi deputato, risponde distinguendo l'azione della Polizia sul senso morale e sul senso politico, ma di leggieri concede, la Toscana essere rimasta da lungo tempo priva di forze governative.
Replicando io al collegio onorandissimo dei Negozianti livornesi, che mi compartiva lode (dolce al mio cuore) «di avere ricomposto l'ordine, e data tranquillità al paese, indispensabili per la prosperità del Commercio e della Industria,» diceva: «il Governo della Toscana è ben lontano da possedere i mezzi governativi, che assicurando e confermando ogni maniera di onesto vivere civile comprimano i conati delittuosi di gente che ardisce profanare il nome di libertà per procedere poi impunemente da infame........ Ma se la Toscana non possiede ancora mezzi permanenti e duraturi necessarii a governare gagliardamente, supplisce adesso il Ministero con operosità straordinaria, con l'autorità personale, con le aderenze d'individuo, con lo entusiasta consenso di voi, e di quanti appartengono al Popolo buono.»[23] E con parole supreme ammoniva per via telegrafica il Governatore di Livorno il 16 novembre 1848: «energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere.»
Il Prefetto di Firenze volgendosi al corpo dei Veliti, Pompieri, e Portieri, così favellava: «È vero, che i tempi e gli eventi produssero un pregiudicevole indebolimento alla forza che assicura la esecuzione della legge; ma se voi volete, potrete con la opera vostra e col vostro zelo rilevare le forze indebolite, ed ottenere plauso dal Governo.»[24]
Ne porge eziandio splendida testimonianza il mio Rapporto al Principe per la instituzione della Guardia Municipale; io confido che i buoni, a cui mi volgo, vorranno ritornare col pensiero sopra quel documento uscito da me, e che ebbe lode nei tempi.
Il Senatore Corsini, per cagione della violenza usata contro l'Arcivescovo di Firenze interpellando il Ministero intorno ai mezzi di cui il Governo intendeva servirsi per impedire che i disordini si rinnovassero, tale si ebbe risposta dal Ministro Mazzoni: «Il Governo si propone usare la maggiore vigilanza che gli è dato adoperare; porrà in opera tutti i mezzi possibili per prevenire disordini, ma avendo ricevuto dagli antecedenti Ministri la somma del Governo toscano nello stato più deplorabile, non è da aspettarsi da lui più di quello che umanamente sia abilitato a fare secondo LE FORZE, che vengono accumulandosegli intorno.»
E nella stessa tornata, non dissentendo nessuno, egli aggiungeva: «Pur troppo al Governo si è fatto carico delle circostanze in cui si trova; ma, oso dirlo senza superbia, se noi non fossimo stati, più gravi — gravissimi inconvenienti avrebbero funestato la patria nostra.»
Le parole del Mazzoni, quantunque sieno testimonianza di cose conosciute universalmente, e pronunziate davanti a Collegio dove molti dei Ministri precedenti sedevano, oggi, come di uomo esule ed incolpato, non si vorrebbero attendere. Ma si oda in grazia quale ricevessero immediatamente conferma dalla bocca del Senatore Capponi, poco anzi Presidente del Consiglio dei Ministri: «Intorno alle parole dell'onorevole Ministro di Grazia e Giustizia, che concernono il passato Ministero cui ebbi l'onore di partecipare, intorno a queste io sono fortunato di non potere altro che usare lo stesso linguaggio, che intorno alle interpellazioni ha usato l'onorevole Ministro. Le condizioni dei tempi, il pubblico stato delle cose, il movimento degli animi produssero tali cose, che quella medesima insufficienza, che ha trovato nel reprimere ogni atto in sè biasimevole, quella stessa insufficienza fu da noi sperimentata.»[25]
Nel Programma ministeriale del 19 agosto 1848, il Ministero Capponi aveva dichiarato espressamente: «correre tempi difficili abbastanza da sgomentare i più esperti.»
Il Senatore Baldasseroni in cotesta seduta dava al Ministero molto solenni insegnamenti: voleva che le cause del disordine investigassimo, voleva che il Governo combattendo per l'ordine perisse. Se la infermità non mi avesse impedito di assistere a cotesta seduta, io gli avrei risposto: — assolutismo improvidamente antico, e libertà impetuosamente nuova, sono cagioni del male; in quanto a perire per la salvezza comune, non lo togliete di grazia per rinfacciamento, ma io mi vi sono esposto, quando mi gittai fra l'onda infuriata del Popolo per salvarvi il figliuolo.....
E, se non è grave, odasi un poco come in proposito favellassi io all'Adunanza del 29 gennaio 1849: «Le parole del vostro Indirizzo in risposta al Discorso della Corona accennano ai disastri e ai tumulti passati, e indicano speranza di repressione pei futuri. In questa maniera voi non dite del presente, e non favellando del presente venite implicitamente a dichiarare, come nulla sia stato operato adesso per riparare a questi tumulti che voi deplorate, e che avete ben ragione di deplorare. Ciò può sembrare al Ministero un rimprovero: egli non crede averlo meritato: imperciocchè, o Signori, voi rammenterete come abbiamo noi ricevuto lo Stato. Noi lo abbiamo ricevuto, perdonatemi la immagine, come si consegna una casa incendiata in mano ai Pompieri. Voi lo avete veduto, la finanza era esanime: in quali lacrimevoli condizioni fosse l'esercito, voi lo sapete. Vi parlerò di quello che spetta più specialmente al mio Ministero. Qui niuno ordinamento; i vecchi istrumenti non si potevano adoperare, i nuovi sono tuttavia un desiderio. Gli ufficiali mancavano affatto di vigore; non restava che un simulacro di forza, il quale non corrispondeva alla chiamata. O Signori, quando ebbi l'onore di essere assunto al Governo dello Stato, io cercai se o poche o molte vi fossero le forze per potere governare. I passati Ministri si sono allontanati dal Governo, com'essi dicevano, di faccia alla pubblica disapprovazione: essi così affermarono, ed io non ho verun motivo per dubitare di questa loro asserzione: ma devo dirvi eziandio che a me parve non solo il Governo abbandonasse il Ministero per virtù della opinione, ma assai più perchè era impossibile il governare. Io dissi a me stesso: qui lo Stato fu consegnato a noi, come un cadavere in mano ai preti per seppellirlo e cantargli l'esequie. Ma no, io non ho creduto mai nè credo che uno Stato possa perire. Credo che, per malignità dei tempi, e per pessima amministrazione di uomini, forse uno Stato possa cadere in morte apparente, in asfissia; ma la vita resulterà, quando un uomo voglia veramente trovarla, e liberare lo Stato dalla misera condizione in cui egli è stato condotto. Privo di forze, privo di ordini governativi, privo perfino del mezzo di sapere in che cosa le piaghe dello Stato consistessero, io non trovai nessuno dei miei antecessori che m'indicasse in quali condizioni era lo Stato, e in che cosa le sue forze consistessero. — Ordinai a tutti i Prefetti, Sotto-Prefetti e Gonfalonieri delle diverse Comunità, che immediatamente, o nel più breve spazio di tempo possibile, mandassero rapporti intorno allo stato politico, economico e morale delle provincie e delle città che reggevano. Vennero questi rapporti, quali più presto, quali più tardi, e furono elementi già ordinati, ma non sufficienti ancora per formarmi uno esatto concetto dello stato in cui attualmente si trova il nostro Paese. Tuttavolta ho ordinato e in parte effettuato questo lavoro. Egli è bene lontano dall'essere peranche perfetto, nè lo sarà mai, perchè tutti i giorni devono succedere casi che valgano a modificarlo, e speriamo in meglio, ma io lo lascerò sul banco del Ministero dello Interno come un Breviario, affinchè quelli che mi succederanno, con senno migliore, e con migliore fortuna forse, ma non con maggiore fede di certo, al Governo dello Stato, lo abbiano sempre dinanzi agli occhi, e per regolarsi con cognizione di causa. Mentre pertanto il Ministero vostro, per rendersi degno del Popolo e di Voi, suoi rappresentanti, si accingeva a conseguire precisa cognizione dello stato del Paese; mentr'egli si accingeva a conoscere la sua malattia per applicargli quei rimedii che reputava migliori; mentre il Governo sta preparandovi le leggi, che nel senno vostro esaminerete e delibererete, per portare rimedii alle malattie che accennava; pensate, o Signori, come cadesse fra mezzo uno stato di transizione per noi deplorabile. Questo stato, che come una via di fuoco sarebbe bene che noi potessimo percorrere correndo, non è passato ancora, quantunque a me tardi che cessi, e il Paese rimanga guarito di questa ferita di dolore. — Ma, frattanto, il Governo non si è trovato e non si trova in mezzo all'enormezze di due partiti? Io non voglio definire quale dei due sia o no progressivo. In tutti gli Stati, e specialmente in quelli ove, come nel nostro, la vita politica si è iniziata, due partiti devono agitarsi, e non è male, come ho sentito deplorare in questa Assemblea, ma invece è un bene che si agitino; perchè dal cozzo dei partiti nasce quella cognizione esatta delle cose che unica giova a ben condurre lo Stato. Però, a tutti i partiti onorevoli e plausibili, purchè nascano da convinzioni, non mancano coloro che suscitano mille voglie, mille cupidigie tutto altro che plausibili; e i Capi dei diversi partiti si trovano sovente a vergognare di quelli che fanno bandiera dei loro nomi onorati a queste intemperanze ed a queste enormezze. A cosiffatti disordini accennavano le parole della Commissione nel compilare lo Indirizzo al Principe. Ora, che cosa ha fatto il Ministero vostro nell'assenza di mezzi, e nella mancanza delle persone? I Ministri hanno sentito, come altro non potessero fare che dare allo Stato una cura indefessa, sottrarre le ore al sonno, dimenticare, non dirò ogni diletto, ma perfino ogni sollievo della vita....» Così io orava al cospetto di quattro Ministri che mi avevano preceduto; nè alcuno sorgeva a confutarmi. Dopo alquante parole, io conchiudeva domandando una dichiarazione di fiducia.
E il Consiglio, — non obliando la miserabile condizione nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta la Toscana, — deliberava unanime questa dichiarazione di fiducia, formulandola così: «Siamo grati agli espedienti che il Governo si affrettò di adottare.» — Non era anche venuta l'ora della ingratitudine!
Nè meglio potrei dimostrare qual fosse Toscana quanto allegando una parte del mio Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848 mandato al Governatore di Livorno, più che ad altro somiglievole ad un grido di allarme: «Energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere!»
In questo modo si confessava da ogni maniera di gente, così negli atti pubblici come nei privati, ed era vero, lo Stato ridotto agli estremi. Io lo trovai incapace a resistere a qualunque tenuissimo urto, pure lo sostenni in guisa, che i tumulti decrebbero, la fiducia pubblica incominciò a ridestarsi, e se il fatalissimo 8 febbraio non era, da quanti mali, da quanto lutto non mi sarebbe stato concesso preservare il paese!
Forze governative pertanto affatto disperse, Polizia investigatrice distrutta, m'ingegnai fra gli antichi ufficiali scegliere alquanti che aveva sperimentato onesti e capaci; ma per quante istanze e raccomandazioni facessi loro, non vollero saperne: mi si mostravano invincibilmente repugnanti, perchè nell'ora del pericolo il Governo gli avesse lasciati in balía dell'ira popolare.[26] I Veliti, come si ricava dal mio Rapporto della Guardia municipale al Granduca, ormai chiamati ad altro destino, odiavano, e a ragione, il servizio di Polizia. La milizia, da quei medesimi che la capitanavano, era chiamata infamia, non tutela del paese. La Guardia Municipale non ancora composta.[27] Il Senatore Capponi, lo abbiamo non ha guari veduto, dichiarava in Senato la condizione del suo Ministero essere identica a quella del mio. Confesso di leggieri, che nè anch'egli sedeva sopra letto di rose; ma con sua pace, il divario appariva grandissimo fra il suo Ministero ed il nostro, però ch'egli possedesse la forza dei Carabinieri intera, e a me la consegnasse odiatrice ed odiata, percuotente e percossa. Sventura lacrimevole, che poteva essere risparmiata! No, le condizioni non apparivano uguali; tra il mio Ministero e il suo correva la guerra civile rotta, una sconfitta toccata dall'Autorità, un Popolo reso audacissimo per miserabile vittoria.
Noi a mani giunte imploravamo lo aiuto di tutti, anche degli emuli nostri, per isvellere fino dalle radici la mala pianta del disordine; — gli supplicavamo a uscire dalle case loro, a scendere con noi fra la moltitudine per ammaestrarla, e ammonirla.[28] — Le preghiere nostre secondarono? Il soccorso supplicato compartirono? — Ah! no; secondo l'usanza pessima ed antica, a parole protestavano volerci aiutare, ma in fatto nè brogli, nè conventicole, nè qualunque argomento preterivano nello intento di rovesciare il nostro Ministero. Taluno, ponendosi la mano sul petto, sentirà che io dico il vero. In quanto a me, sappiate che conosco assai più cose di quelle che dico: potrei citare nomi, e disegni a me noti, e da me per longanimità lasciati inavvertiti; — ma la prudenza, che mai deve scompagnarsi da chi tenne officio supremo, desidera che alle provocazioni dell'Accusa io mi taccia.
Tanto può la cieca ira di parte, che gl'incauti si affaccendavano ad abbattere il dicco estremo, che sosteneva la piena minacciante di sommergerli tutti. Queste cose sa il Principe, che deplorandone gl'imprudenti conati interpose l'autorità sua, perchè cessassero e forse glielo promisero; io però ebbi a provare che non lo attennero troppo.
In questa parte concludendo, è lecito dire, che i Giudici, e l'Accusa non affermarono il vero, anzi esposero il falso, quando narrarono l'agitazione essersi manifestata sul declinare del 1848 soltanto. Nè ciò si creda che entrambi facessero senza consiglio, imperciocchè lo studio loro intenda, come ho avvertito, a mostrare che una forza rivoluzionaria fosse eccitata da me, crescesse, crescesse irresistibile fino all'8 febbraio 1849; nell'8 febbraio poi cessasse ad un tratto per ripigliare più tardi: così i fatti altrui fino all'8 febbraio s'imputano a me, perchè da me costretti; i fatti posteriori all'8 febbraio s'imputano parimente a me, perchè in me spontanei. A senso dell'Accusa, le forze rivoluzionarie stavano in potestà mia, come le cannelle dell'acqua fredda e dell'acqua calda quando entro nel bagno. Io però fui complice, o impotente per vizio di origine; nato in peccato mortale, non basta a salvarmi agli occhi dei miei Accusatori il battesimo della scelta sovrana; però importa osservare come i Ministeri precedenti, usciti al mondo immacolati, o immersi del bel Giordano nelle chiare acque, non riuscissero meglio a vincere la forza rivoluzionaria fino dai primordii. Eglino stessi lo confessarono, e ne addussero cause plausibili. La confessione, lo avvertano i miei Accusatori, è cosa che merita reverenza grandissima, perchè innalzata anch'essa alla santità di sacramento. Ora considerino, di grazia, se in tempi più grossi mi venisse fatto di adoperarmi con qualche vantaggio in benefizio del Paese.
Quando mi giunse a notizia, come l'autore del Decreto della decadenza del Principe, scritto e proclamato sopra la Piazza Granducale il 30 luglio 1848 sotto il Ministero Ridolfi, continuasse la sua dimora in Firenze, irremissibilmente lo esiliai.[29] Preti, seminatori di scandali, pervertenti lo spirito dei campagnuoli, insinuanti che il Granduca costretto aveva consentito allo Statuto, non già di cuore e spontaneo, chiamai, ammonii, e corressi.[30] Torres, espugnatore delle Fortezze livornesi sotto il Ministero Capponi, ardito uomo, fu da me parimente bandito, e ritornato con manifesto spreto dell'Autorità, ordinai lo arrestassero e lo conducessero ai confini.[31] Alle censure acerbissime della stampa, per questo fatto, risposi: «Renda conto il Torres della sua passata condotta a Livorno, giustifichi il suo ritorno a Firenze, allora apparirà se la misura presa a suo riguardo fu arbitraria e vessatoria, o piuttosto opportuna e giusta.»[32]
E qui giovi notare, di scancio, contro alla benevola insinuazione gittata là dal Decreto in mezzo a parentesi (Guerrazzi creduto autore principale dei moti livornesi), che se io fossi stato tale, non lo avrebbe ignorato il Torres; e alla mia invereconda provocazione non avrebbe egli risposto col verso di Clitennestra:
«Chi mi vi ha spinto or mi rimorde il fallo?»
Livorno ridussi in potere del Principe, quantunque, come attestava il Presidente Capponi, stesse in procinto di eleggere il governo provvisorio.[33] A moderare il passo continuo di gente nemica naturalmente di pace, il chiarissimo Mariano D'Ayala ed io osammo proporre al Principe il Decreto del 27 novembre 1848, dove si ordinava, che tutti quelli i quali presentandosi alle frontiere non si arruolassero soldati fossero respinti. Preposto a scrivere il Rapporto del Decreto, adoperai parole audaci,[34] che m'inimicarono coteste turbe, dove a poco bene s'incontrava mescolato parecchio male: però che i Popoli creduli reputassero profeti tutti quelli che paltoneggiando pel mondo si facevano le spese a nome della patria; e guai a colui che avesse ardito con parole o con fatti torcere pure un capello di quelle teste reputate sante. E solo osai ancora di più: gl'ingenerosi insulti (tollerati dai precedenti Ministri) contro i nemici repressi; tanto ebbi a schifo qualunque cosa, che magnanima veramente non fosse, tanto studiai di sollevare il cuore del Popolo ad alti concetti. Le parole che io dissi sul terminare del 1848, quando gli Austriaci erano lontani, posso ripetere adesso che sono in casa: «Non così (scriveva al Prefetto di Firenze), non così si educa un Popolo, nè se ne ritempra il carattere. Nè m'incresce meno considerare come si espongano al pubblico dileggio i nostri nemici. I nemici vanno vinti, Signor Prefetto, e non oltraggiati, imperciocchè lo insulto, prima della vittoria, sia stolta jattanza; dopo, bassezza codarda. E un altro male fanno eziandio simili scede, che inducendo il Popolo in falso concetto sopra la potenza del nemico, dorme sicuro poterlo vincere agevolmente, mentre avrebbe mestieri di supremi conati per superarlo.»[35] Ah! non era io quegli, che lusingando assicurava il Popolo potersi vincere il nemico co' bastoni e co' sassi..... non io..... non io promisi andargli incontro co' figli; ma quando strinse il bisogno, mandai semplice soldato quell'unico, che mi tiene luogo di figlio!
Ma l'Accusa, dissimulando la condizione dello Stato, e come se incominciasse sotto il mio Ministero l'agitazione in Toscana, va a raccogliere i fatti successi per gittarmeli in faccia; essa rammenta: 1º Lo assembramento in Livorno nel 29 e 30 ottobre 1848 per bruciare la Patria, e l'uscita delle milizie a dimesticarsi col Popolo. 2º La occupazione violenta delle Fortezze di Portoferraio. 3º Le minacce contro i proprietarii della sega a vapore a Livorno. 4º Le violenze alla tenuta di Limone dei fratelli Bartolomei. 5º La esultanza in Livorno per lo assassinio del Conte Rossi, assistente il Governatore. 6º La opposizione al richiamo in Firenze del Capitano Roberti. 7º Le violenze elettorali, quantunque l'Autorità avesse avuto il tempo e i mezzi per prevenirle. 8º Le violenze contro il giornale La Vespa, onde ridurlo a tacersi, comecchè avesse avuto coraggio di farsi opponente al Ministero. 9º I disordini in piazza, e al Palazzo dell'Arcivescovo, per cui il venerando Prelato ebbe a cercare sicurezza fuori di Firenze. 10º L'esorbitanze della stampa ec. E fatta questa raccolta conclude, che il Ministero restringeva i provvedimenti ad apparenze di preparativi, a frasi di disapprovazione, al rinvio degli avvenimenti più scandalosi all'ordinarie vie di giustizia![36]
Davvero, per poco non mi cade l'animo sconfortato, però che i fatti che in parte io stesso allegava in testimonio di riordinato reggimento, mi si ritorcono contro, o come eccitati da me, o come da me reo di peccato originale non potuti reprimere. Esaminiamo in qual modo io adoperassi contro i fatti dall'Accusa allegati, avuto sempre riguardo alle condizioni del paese e dei tempi. — Pervenuta al Ministero la notizia dell'arsione in Livorno del Nº 120 della Patria, e del come non volesse il Popolo consentire alla consegna di cotesto Giornale, ecco quello che feci stampare nel N. 270 della Gazzetta di Firenze: «Il Governo, fermo nel suo intendimento di mantenere il suo Programma, comunicò al Direttore della Posta di Livorno, per mezzo del Ministro dello Interno, le istruzioni che noi riproduciamo. — Illº. Sig. Il sottoscritto Ministro dello Interno, in unione dei suoi Colleghi, intende e vuole che sia pubblicato secondo l'ordinario il Giornale detto La Patria. Libertà di parole a tutti. Questo principio professerebbe sempre lo attuale Ministero in altrui; molto più lo deve, trattandosi di sè. Dove i miei concittadini nel proponimento loro persistessero, gli avverta che scapiterebbero assai nell'onorato concetto che il mondo si è formato di loro, e che a tutti noi apporterebbero grandissimo cordoglio. Il proverbio antico diceva, che nè anche Giove piace a tutti; come possiamo pretendere piacere a tutti noi, che per certo Giove non siamo?»
Ancora nel giorno 29 ottobre 1848, a ore 9, mi mandavano il seguente Dispaccio telegrafico: «Questa sera a ore 11 fu bruciato lo infame e tristo Giornale La Patria. Il medesimo urtava il nuovo Ministero, e quindi la intera popolazione livornese. Fu condannato ad essere bruciato in mezzo di Piazza; poscia il Popolo ha proibito al Direttore della Posta, pena la morte, di farlo introdurre in questa valorosa città di Livorno. A scanso d'inconvenienze rimetto a lei giudicare chi ha torto o ragione.» Ed io subito, dopo men di due ore, rispondeva per la medesima via al Consigliere Isolani: «Male, male. La Patria è ostile a noi. Motivo di più per rispettarla. Se la pubblica opinione ci sostiene, perchè mai violenze? Scriva la Patria; quanto più scrive, più mostra la bassa invidia a cui manca perfino la decenza. Questo dispaccio si parte dal Guerrazzi, e non dal ministro Guerrazzi.»
Così io raccomandava un Giornale piuttosto mio persecutore che avverso; Giornale, che non aveva aborrito di rovesciare sopra di me la calunnia, quando oppresso e imprigionato non poteva rispondere, ed ogni sua parola pesava nella bilancia della Giustizia a mio danno; Giornale, che più di ogni altro si affaticò a spargere le triste voci, che adesso raccoglie diligentemente l'Accusa per tessermene una corona di spine; — Giornale, che dettato, per non dire altro, da chi una volta fu amico, doveva per pudore tacere; però che, secondo la greca sentenza, l'amicizia cessata sia un Tempio di cui, remosso il Dio, voglionsi venerare le pareti mai sempre in memoria della Divinità. E la raccomandazione bastava, sicchè il Giornale poteva essere distribuito liberamente di poi. Peccati veniali erano quelli pei tempi che correvano, nè avrei potuto finalmente volere, che agl'incendiatori di un foglio fosse applicata la pena del taglione! Siccome non fui vile, perseguitato; non conobbi vendetta, potente. — A sedare i tumulti di Portoferraio, di concerto di S. A. e del Ministro D'Ayala, presi le determinazioni opportune illico et immediate; nelle stanze stesse del Granduca, lui presente, dettai la commissione; mandammo pel Sig. Giorgio Manganaro, e senza perdita di tempo, lo spedimmo subito subito alla Isola dell'Elba.[37] Andò, sedò, arrestò i supposti autori, e li tradusse davanti ai Tribunali ordinarii. I Tribunali assolverono.[38] È mia la colpa, dite, se i Tribunali allora erano facili a scusare, come adesso lo sono a punire? È mia la colpa, se gli uomini, diventati barometri, ad ogni lieve impressione di caldo e di freddo abbassano od alzano il loro mercurio? È mia colpa se, istrioni sopra la scena del mondo, talora essi sostengono la parte di Tito, tal altra quella di Dracone? Volete sapere come scriveva all'ottimo Giorgio Manganaro a schiarimento di certi suoi quesiti? «Signore Giorgio Manganaro. Firenze 21 novembre 1848. Io odio le vie eccezionali: sono da deboli. Il Granduca ha fatta l'amnistia: vedasi se G...... vi sia compreso; ciò spetta ai Tribunali. Dove non sia compreso, procedasi con rigore apertamente, e giustamente. In ogni caso, da qui innanzi chi rompe paga senza paura. Addio.» Io dunque al mio dovere adempiva; perchè non lo adempirono tutti?
Il tripudio per la morte del Rossi non fu opera del Governatore; pure lo appuntai di essersi presentato al Popolo; barbara cosa lo reputammo, ed era; fin da quel momento desiderai occasione di rimuovere il Pigli da Livorno, e quando capitò senza timore di resistenze tumultuarie, lo rimossi. Ma in questo modo parlando di Carlo Pigli, io non posso astenermi, nè devo, da aggiungere che non cuore malvagio, il quale anzi io gli conobbi compassionevole e buono, ma difetto di sufficiente costanza a resistere alle improntitudini altrui lo indusse a dire parole di cui egli ebbe a pentirsi amaramente poi.[39]
Io so come un visconte D'Arlincourt abbia scritto, che il conte Mamiani, il principe di Canino, Sterbini ed io deliberammo a Livorno la strage del Rossi. Pare che questa prima deliberazione non bastasse, perchè, secondo lo egregio Visconte, lo atroce omicidio fu messo di nuovo a partito a Firenze in Via Santa Apollina (com'egli dice), e fu tratto a sorte chi dovesse fare il colpo fra Montanelli, Sterbini, Galletti e Canino; e la sorte ad arte si operò che cadesse su l'ultimo di loro. Ma nè anche queste deliberazioni bastarono; perchè il negozio succedesse col mistero necessario alle opere di sangue, decisione uguale fu presa a Genova nell'Albergo Feder, e a Torino nel Circolo Gioberti (Italia rossa, pag. 82). — Tali e siffatti gesti per me si operarono, finchè, secondo che ci ammaestra il pro' Visconte, il Popolo tornava a sventolare l'antica bandiera toscana turchina e rossa invece della tricolore (Ivi, pag. 87). Io deploro col profondo del cuore, che altri siasi reputato offeso da cotesto sciaurato; e troppo più deploro, che per le costui ribalderie nobile sangue italiano sia stato in procinto di versarsi. Lasciate andare; cotesto è fango, e del peggiore, che schizza mentre passa a rompicollo la treggia della reazione. — Oh! antica nobiltà di Francia quanto basso caduta.....
Se le violenze elettorali non furono potute prevenire, furono però represse in Firenze dalla mia stessa presenza, recandomi di persona ad ogni Collegio Elettorale in compagnia del Sig. Baldini maggiore della Guardia Civica, nè mi ritrassi, finchè non rimasi sicuro che ogni cosa andasse in ordine.[40] Passando da Pisa, per una parola che profferii, venni sottoposto a processo! — E la parola fu questa. Antonio Dell'Hoste, uomo egregio, aspettatomi alla Stazione della Strada Ferrata, mi diceva: «Grande essere in Pisa il perturbamento per l'elezioni; dolergli nel profondo che avessero tolto il nome suo a pretesto di sommossa; avere dichiarato invano non potere accettare ufficio di Deputato; provvedessi, perchè forte temeva che in cotesto giorno avrebbero rotto o urne, o teste.» Io gli rispondeva, mancare di autorità per provvedere; ciò spettare ai Magistrati locali, che avrebbero fatto buono ufficio ricorrendo alla Guardia Civica; e siccome egli sembrava dubitare della energia di quelli, della efficacia di questa, io replicava: «E allora, o come pensi che potrei provvedere io? Ho forse meco uno esercito? Confido che non avverrà cosa da deplorarsi; in ogni evento, meglio sarà che rompano le urne, che le teste.» E questo favellai nel senso proverbiale di chi dovendo scegliere fra due partiti tristi accetta il men peggio. Meglio è cascare dalle scale che dalla finestra, costuma dire il Popolo; nè per questo si pensa, che uomo desideri rotolare le scale; e nonostante fui accusato! Vedi se incominciò a soffiare rigido il vento davvero! Manco male, che mi posero fuori di accusa senz'altro danno; altrimenti avrei imparato quanto sia pericoloso discorrere per proverbii. — Nei Paesi Costituzionali, anche in tempi ordinarii, il periodo delle elezioni non passa senza disturbi più o meno gravi;[41] e quello che merita considerazione fra noi si è, che, nonostante lo agitarsi della gente, poterono essere eletti quelli che intendeva escludere, e l'elezioni furono lasciate libere per modo, che uno Scrittore ebbe a dire, che il nostro Ministero contava nel Consiglio Generale tre voti soltanto;[42] avesse almeno detto sei, manco male! Sei eravamo Ministri, e tutti deputati; e che avessimo a fare come Licurgo, il quale piantando la vite si tagliò le gambe, non è poi da credersi, nonostante la pesa autorità dello Scrittore allegato. Ad ogni modo, l'elezioni allora e poi furono liberissime per la parte del Ministero; nessuno ardì rimproverarlo di brogli o di arti consuete pur troppo ad usarsi dal Potere per procacciarsi la maggiorità. Intorno alla insinuazione benevola, che tempo avessi e modo di prevenire, accennerò, che dei giorni elettorali, uno e mezzo, cioè quello preciso in cui avvenne la rottura delle urne a Firenze, passai in viaggio e a Livorno per esercitare lo ufficio di elettore, donde a gran fretta venni richiamato per ovviare al rinnuovarsi del tumulto; e che avendo voluto libere sempre l'elezioni, e vigilato di persona perchè uscissero libere siccome veramente elle uscirono, se avessi potuto immaginare che per un momento fossero state disturbate, avrei fino dal primo giorno provveduto, come feci il terzo.[43]
E qui mi gode l'animo di riportare una parte di lettera che scrissi nel 27 novembre 1848 al signore Andrea Padovani gentiluomo livornese, in risposta di certa sua nella quale tenevami proposito di Ridolfo Castinelli, non voluto da un partito deputato a Pisa, e non pertanto eletto a Pisa e a Castelfranco, patria dei miei padri, per opera in ispecie dei miei parenti ed amici: «Il Ministero è deciso a fare rispettare la Legge, e ha preso le sue disposizioni in proposito: spera che non sarà condotto ad estremità; se lo fosse, con meno jattanza di altri, ma più costanza assai, dichiara, che saprà morire al suo posto. Però supplica che i prudenti non accrescano difficoltà alle già tante che lo tengono oppresso: prudenza dunque e gravità. Tutti si uniscano a noi per creare un governo, una amministrazione, una qualche cosa che difenda e assicuri, e poi ci mandino al diavolo. Se altri ha mezza voglia di mandarci, noi l'abbiamo intera per tornarcene a casa. Per me mi sento sbigottito dalla fatica e dalle rinascenti difficoltà. Questa lettera potrà sembrarti severa, ma ti dimostrerà parimente che io ti stimo e che sono degno della tua amicizia. Addio.»
Confido, che quanti leggeranno questa Apologia, con voglie pronte si affretteranno a mandarmi le lettere che posseggono di mio, le quali valgano ad allontanare da me le turpi imputazioni dell'Accusa. — Certo non mancherà essa di persistere che le mie parole sono astuzie di chi doppio ha il cuore per mostrarsi alla occasione o topo o uccello, come il vipistrello del Padre Moneti. — Facile è insultare l'uomo oppresso e in carcere.... e se verecondia e giustizia non fanno inciampo a questa facile a un punto ed infelice potenza, davvero non posso farcelo io. Tra i miei Giudici e me giudichi il Paese.
Le violenze voglionsi sempre prevenire, e, quando non si può, almeno reprimere; però biasimati come meritano coloro che oltraggiarono gli scrittori della Vespa, è forza che io apra l'animo mio intero intorno alle parole dell'Accusa: essa loda cotesto Giornale come quello che aveva avuto il coraggio di farsi oppositore al Ministero. Calunnia perfida, insinuazioni iniquissime, vituperii senza fine erano le arti della Vespa, e l'Accusa trova parole di lode per lei! — Quando ogni altro riscontro mancasse per dimostrare con quale e quanta stemperatezza proceda l'Accusa, basterebbe questo uno. Dunque animosi erano tutti i calunniatori del Ministero? Egregi uomini quanti lo vituperavano? L'Accusa, nello infinito odio contro il mio Ministero, non è contenta di averlo maledetto,
Nella ira del Signore ingenerato,
Figliuolo della morte e del peccato;
non le basta, che pesi su lui la condanna di Caino, però che alla fin fine Dio vietò che uccidessero il fratricida: adesso ella mi mette a pari del lupo, e sembra avere desiderato che dessero la taglia dei dieci scudi a chi portava la testa mozza di questo Ministero licantropo. Il torto non è di coloro che mi correvano addosso: egli è evidente; il torto era tutto mio, per non essermi rassegnato di buona grazia a farmi lacerare. Cecità di partiti! Vogliono ricostruire l'Autorità, e commendano coloro che l'Autorità distruggevano! Nè vale opporre: ma voi ci eravate esosi; — non importa; — se consentanei a voi stessi, noi eravamo Autorità, e tanto bastava perchè ci aveste dovuto rispettare, e difendere. Vedete David: egli odiava Saul; grande era il comodo che risentiva dalla sua morte; e nonostante, in venerazione dell'Autorità, ordina sia tolto di vita lo Amalechita che mise la mano su l'unto del Signore. Certo capitano Côrso, che io ho conosciuto, dopo essersi arricchito seguendo le fortune della prima rivoluzione di Francia, professavasi adesso sviscerato dell'Autorità. Nel 1830 i suoi figli travagliandosi nei nuovi sconvolgimenti, toccarono da lui un fiero rabbuffo: e siccome essi per iscusarsi gli rammentavano le sue geste operate nella rivoluzione, egli rispose: Tacete! cotesta rivoluzione era giusta perchè c'era io! — Così l'Accusa a me: Tacete! cotesta non era Autorità perchè ci eravate voi. — Le stesse premesse di passione conducono alle medesime conseguenze di errore. Un Giornale onesto, non parziale del Ministero, amico dello Statuto, ecco come qualificava allora a viso aperto i libelli che all'Accusa basta il cuore adesso salutare col nome di generosi oppositori al Ministero.
«Quello che oggi è accaduto in Firenze potrebbe però dalla sola malevolenza attribuirsi al Popolo, o anche ad un Partito. Un attruppamento di forse 20 persone si è recato alla tipografia Passigli, si è impadronito delle forme del giornale la Vespa ec... Noi non troviamo parole sufficienti per flagellare certi VITUPEROSI giornali di tutti i colori, che mercano oro bruttando di fango quanti sono loro avversarii, e che alla discussione calorosa, ma urbana e ragionata, sostituiscono la CONTUMELIA VILLANA E LA CALUNNIA. Questi DEPRAVATORI della Morale pubblica, questi BASTARDI PARASITI della libertà della stampa, dovrebbero trovare degna punizione nel disprezzo e nell'abbandono delle oneste persone, se molti cui piace ridere delle ferite fatte altrui, tenerissimi poi della propria pelle, non gettassero, a nutrire tanta bruttura, un soldo per comprare un minuto di stupido passatempo, per non dir peggio. E sì, per Dio! che son tempi questi da ridere e da scherzare leggiadramente, e da cercare sollazzo frugando nel santuario delle pareti domestiche, o alzando il velo che cuopre i segreti, che dovrebbero essere inviolabili, della vita privata! Un bel Popolo degno di libertà veramente saremmo noi se dovessimo essere giudicati dalle sozzure che si vanno stampando e affiggendo pei canti della città! La cosa non va per questo modo, la Dio mercè; ma neppure dev'essere lecito in un Popolo ordinato civilmente, che ha leggi e Governo, ai primi venuti d'andare a farsi di proprio moto vendicatori della Morale pubblica.» — (Nazionale, 3 gen. 1849.)
I vituperosi, i villani, i calunniatori, i sozzi depravatori, i contennendi da quante sono oneste persone nel 1849, nel 1851 diventano generosi oppositori per l'Accusa! In verità, siffatte considerazioni talora mi spingono in volto il rosso della vergogna di essere nato uomo, e nell'anima uno sgomento, che poco più è morte. — O Patria mia!
Fra le quotidiane calunnie, la Vespa diffuse quella, che io avessi ordinato il Palazzo del Marchese Ridolfi si manomettesse, e, fedele poi al mio programma, gli avessi fatto pagare il guasto!!
Per chiunque intende gentilezza che sia, il mio ufficio m'imponeva tutelare tutti, particolarmente poi il signor Cosimo Ridolfi, che mi era proceduto infesto senza ragione. Si rimproverava un fatto falso, e mi pareva che costituisse vera calunnia. Chiamai il Magistrato, e gli dissi adoperasse per noi la difesa che avrebbe usata a favore di ogni altro cittadino: nella repressione dei delitti rammentasse che il Governo non proteggeva la Magistratura, ma all'opposto la Magistratura il Governo. Esaminasse, e vedesse quello che in sua coscienza era da farsi.[44] Il Magistrato esaminò e referì: non correre tempi propizii per questa sorta accuse; la difesa avrebbe saputo togliere di mezzo ogni ombra d'imputabilità: non persuadergli la coscienza d'instituire processo. Davanti alla coscienza del Magistrato tacqui: però con profondo sconforto notai, che il tempo governava cose che non avrebbero dovuto governare ragioni di tempo. A Lucca parimente non omisi provocare l'azione dei Magistrati contro i delitti della stampa, ma il Prefetto avvisava: «Il Pubblico Ministero non crede incriminabili gli articoli della Riforma, e così l'Autorità Governativa non può agire contro essa!» — Heu Hector quantum mutatus ab illo! A reprimere le sfrenatezze della stampa, occorrevano due mezzi legali, e vennero praticati: i Tribunali; e assolverono, trovando i tempi poco favorevoli a simili accuse: il richiamo dei Direttori dei Giornali; e dissero avere vinta la mano dagli scrittori. Io, e il Processo lo attesta, esortai qualche Direttore a smettere la veemente polemica, offerendomi pronto a fargli toccare con mano come il suo Giornale proseguisse uno scopo ad ottenersi impossibile. Il Prefetto di Firenze ai Direttori di Giornali di varia opinione raccomandava reciproca cortesia e temperanza.[45] Ad ogni evento vi erano leggi repressive; eranvi Magistrati a posta per invigilare; nè l'Autorità governativa può, nè deve, senza sconvolgere ogni diritto ordine di reggimento, mescersi da per tutto: in siffatte faccende il Governo attende soccorso dalla Magistratura, non glielo partecipa. Avvertasi per ultimo se complice o impotente repressore di violenze fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata: si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o fra un mese la Toscana diventa un mucchio di cenere.» Grave fatto fu quello dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi, male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare. È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure, di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco emissario il mio Ministero? — Il Monitore del 23 gennaio 1849 così manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini, dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con tutto il rigore.»[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande, attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? Dat veniam corvis, vexat censura columbas! E nonostante, col Dispaccio telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti (Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto: «Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8 novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di violento; vi furono solo minaccie.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) — Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4, min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora i Bartolomei. Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere protetti. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» — Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo: «La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si proceda subito allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei; subito, fossero anche miei fratelli.» Perchè mi appone l'Accusa disordini che così acremente repressi? — Più benigni a me dell'Accusa i pretesi ingiuriati, della ottima mente loro mi dettero poi prove tali, che a me duole non poterle riportare in questo Scritto, però che onorino la umana natura e riposino l'animo stanco dalla vista di tante iniquità.[47]
Non so se io debba continuare nella storia delle sommosse accadute durante il mio Ministero e degli sforzi operati per sedarle, perchè io vedo con paura che tutto mi si ritorce contro. L'Accusa, intorno ai fatti riportati fin qui, mi dichiara complice, o impotente per vizio di origine; riguardo ad altri fatti che mi riusciva impedire, l'Accusa ne trae argomento a ragionare nella seguente maniera: poichè l'Accusato potè impedire molte intemperanze, segno è certo che alle altre che accaddero egli non volle. Così non salva tenere nè lasciare; così perde ugualmente fermarmi e fuggire. Se non riesco resistere, sono complice; se riesco, sono reo per non essere riuscito di più. Un cammello può portare il carico di mille libbre; ma perchè non ne portava due mila, sia condannato a morte. Tale è la legge dell'Accusa: — fiera legge invero!
Ma la Storia non giudica così, e tale registra splendido elogio del Lafayette, a cui pure non venne fatto riparare tutto quello ch'ei volle: «Lafayette adoravano le milizie, quantunque il vincolo della vittoria non le legasse a lui; pacato uomo egli era, e ricco di partiti in mezzo ai furori popolari; — però, malgrado la sua operosa vigilanza, non sempre giunse a capo di vincere i tumulti delle moltitudini, imperciocchè, per quanto sia spedita la forza, non può trovarsi presente da per tutto contro un Popolo da per tutto sollevato: — spesso lottava contro le fazioni senza fiducia, ma con la costanza del cittadino, il quale non deve disertare mai la cosa pubblica, quando anche disperi di poterla salvare!»[48]
Una frase scoperta dal Decreto del 10 giugno 1850 viene accolta con amore e accarezzata dal Decreto del 7 gennaio 1851: il Ministero fu complice, o impotente. Ora come in suprema accusa possono queste due parole congiungersi in virtù dell'alternativa? Immenso è lo spazio che passa dall'uno stato all'altro. Nella misura della imputazione, alla impotenza corrisponde venia e favore; alla complicità, odio e castigo.
O Ministri, che adesso reggete le sorti toscane, e che, credendo in me l'uomo soltanto flagellato, di me non curate; attendete e avvertite, che con l'uomo va a stracci la prerogativa ministeriale. La via di Palazzo Vecchio per me insegna, che può diventare quella del Calvario, e di ora innanzi metterà ribrezzo percorrerla, perchè se un Tribunale potrà intorno al Ministro caduto aggrappare non solo i proprii fatti, ma anche gli altrui, e di tutti chiedere al medesimo ragione, e, nulla intendendo delle necessità politiche, lo porrà nelle consuete condizioni della vita di uomo che può volere e disvolere a suo senno: — se di pratiche dilicate, condotte con opportuno mistero, egli pretenderà prove luminosissime e chiarissime; — se il concetto di atti operati con la discretezza imposta dai tempi, ed anche con dissimulazione, presumerà dimostrato con riscontri, e dirò quasi con istrumenti e chirografi univoci e non equivoci; — se di più, questo Tribunale andrà a pescare gli elementi dell'Accusa nelle parole della Tribuna, e nei Giornali, che ne sono l'eco; — se l'ora della lotta penserà che sia l'ora della Giustizia, e le furie dei Partiti pacate consigliere del giudicare, quale Ministro mai, quale Ministero si salverà?
L'Accusa me incolpa, per essermi limitato a rinviare gli avvenimenti più scandalosi alle ordinarie vie di giustizia. Io temo comprendere troppo, o troppo poco. O dove aveva a rinviarli io? Forse come Mario reduce a Roma, col negare o col rendere il saluto, dovevo indicare ai satelliti i cittadini da trucidarsi? Agendo come l'Accusa rimprovera, io adempiva al mio dovere; lo hanno tutti ugualmente adempito? O piuttosto talora con pusillanime oscitanza, tal altra con quello zelo serotino e importuno (che fu il terrore del Talleyrand) non abbandonarono o imbarazzarono il Governo?[49]
Ma sia che vuolsi, io continuerò nella narrativa di quanto mi fu dato, come Ministro, operare in benefizio del Paese, onde il Paese giudichi me e i miei Giudici, e veda se io mi merito lo insulto (e non è il solo) che essi mi gettano in faccia: «va, tu fosti un complice tristo, o uno imbecille impotente!»
La Plebe Castagnetana insorge con moti comunisti. È repressa energicamente con lo invio di Commissione speciale.[50] Attentati contro le foreste dello Stato repressi, nonostante il pericolo di sloggiare gli scarpatori armati di pianta in pianta.[51] Guasti di palazzi, attentati d'incendii prevenuti, o repressi. Aggressioni e latrocinii prevenuti parimente o repressi.[52] Plebe Pratese tumultua e minaccia ardere le fabbriche dei cappelli di paglia; con pronti rimedii è frenata.[53] Plebe di Campi irrompente contro le proprietà dei cittadini tenuta in rispetto.[54] Campagnuoli infestanti le vie maestre e i pubblici passeggi, estorcenti danari ai passeggeri, sorpresi e arrestati.[55] Contadini e Plebe Fiorentina invadono il negozio Peratoner sotto pretesto di cambiare i Buoni del Tesoro, e minaccianti pel medesimo motivo la banca Fenzi, repressi, nella deficienza di pronta forza, con la mia stessa persona.[56] Plebe e contadini di Firenze, nella notte del 27 gennaio 1849, percorrono la città, gridando: «Morte ai codini, fuoco alle case;» insultano Veliti e Guardia Civica; invadono i corpi di guardia delle Delegazioni, infrangono porte, e minacciano di morte il Delegato Carli. Cresce il tumulto in Borgo degli Albizzi e in Via Calzaioli. Eduardo Ricci muore di coltello. Un Campigiano è arrestato; gli altri fuggono. Cotesta fu notte in cui più di uno tremò nel suo letto, e le pattuglie esitavano di mettersi a sbaraglio in mezzo al tumulto. Io era per le strade improvvido di me, attendendo al dovere di tutelare la pubblica sicurezza. Sì certo, il mio dovere; ma è pur forza dirlo, egli è più facile assai dare il consiglio, che lo esempio di avventurare la vita per mantenere l'ordine della città: e la città fu quieta; i facinorosi posti in mano alla Giustizia.
I Giornali della Opposizione sbigottivano pei nuovi mostri; il Governo deprecavano a tentare i supremi sforzi per ritrarre il Paese dal fatale sentiero dove precipitava; avvertivano come il Ministro dello Interno nella risposta allo Indirizzo della Corona, prendendo le parti della Commissione, intendesse che lo inciso relativo ai disordini si conservasse, e ciò feci non solo perchè fosse richiamo costante alle cure mie, quanto perchè durasse ammonimento ai Deputati, che male l'ordine si consiglia, e peggio si spera conseguire, se i facili consiglieri non sovvengono con pronte voglie la opera governativa. — Infine, a fronte scoperta annunziavano comparire sintomi quotidiani di potente reazione, e gente perversa che, sotto sembianza di difendere la libertà, per via di tumulti e di scandali cospirava ad opprimerla.[57]
Troppo fastidiosa opera sarebbe ricordare tutti i casi di simile natura, successi durante il mio Ministero: bastino gli esposti per chiarire, come la plebe cittadina si rimescolasse con la rustica; e come, peggiorata la indole, cotesti moti incominciassero a manifestarsi attentatorii alla vita e alla sostanza dei cittadini.
Io vegliava quando la città si dava in balía del sonno; e con l'animo sospeso tendeva l'orecchio se alcun rumore sorgesse, per correre sul luogo del pericolo. Al difetto di ordinamenti e di forze, suppliva con operosità, che mi ridusse in breve a comparire l'ombra di me stesso.[58] In quei giorni pochi erano i labbri di ogni maniera di gente, che non pronunziassero lode al mio nome. — L'ora della ingratitudine non era peranche arrivata!
E fermamente credo, che dove ogni barriera non si fosse, per così dire, abbassata spontanea davanti allo impeto della fazione politica e dei tumultuanti, a fine ancora più pravo, non senza lotta forse, ma certissimamente con buon successo, sariasi potuto resistere, ed ordinare lo Stato. — Lasciando alla coscienza pubblica decidere se dirittamente e cristianamente operassero i Giudici, quando mi gittarono in faccia il vituperio di complice, o impotente frenatore di turbolenze, io penso potere concludere con queste proposizioni. 1º Forza rivoluzionaria sorse in Toscana fino dal 1847. 2º Ordini governativi furono fino da quel tempo manomessi da prepotente impeto di forza rivoluzionaria. 3º Nel settembre del 1848, rimasero affatto distrutti. 4º Stato alla mia chiamata al Ministero era stremo di qualunque difesa. 5º Non ignavo, non codardo, non infedele custode della pubblica sicurezza fui io.